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Quel che ci manca, e perché

di Francesco Lamendola - 15/12/2017

Quel che ci manca, e perché

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

L'uomo contemporaneo non è felice.

Questa non è una opinione, ma un fatto. Non lo dicono semplicemente i sociologi, gli psicologi, gli scrittori, i poeti (quanti scrittori e quanti poeti moderni hanno narrato e cantato la serenità e la felice realizzazione dell’uomo?), ma ce lo dice la nostra esperienza, sia osservando gli altri, sia osservando noi stessi. Non siamo felici e lo sappiamo, anche se, sovente, tentiamo di auto-ingannarci, perché la cultura dominante ci sprona a far finta che tutto vada secondo copione, cioè bene, anche se non va bene affatto. La cultura moderna teme di vedere smentite le proprie premesse, le proprie strategie, i propri obiettivi: teme di vedersi smascherata e delegittimata in tutto e per tutto. E non può permetterlo, perché essa è una forma di totalitarismo.

Che l’uomo contemporaneo non sia felice, è il minimo che si possa dire. Potremmo aggiungere che è, a seconda dei casi, depresso, confuso, spaventato, angosciato, irrequieto, nevrotico, masochista, sadico, schizofrenico, in  preda ad impulsi di distruzione e autodistruzione. Ha la sensazione costante che gli manchi qualcosa, o di aver perduto qualcosa, o di non aver raggiunto qualcosa di essenziale, di fondamentale, qualcosa che lo farebbe stare bene e che placherebbe le sue ansie, le sue paure, i suoi fantasmi interiori. È una sensazione latente, non sempre consapevole; ma è una costante dell'uomo contemporaneo, che lo accompagna sempre, che dorme al suo fianco e che gli trasmette un sottile veleno anche nelle ore più belle, nei momenti più felici. Si tratta di capire se anche questa sensazione di mancanza, o di perdita, sia una parte del suo bagaglio di scompensi e turbamenti esistenziali, se sia parte della sua "malattia", o se ne sia la causa; se corrisponda, cioè, ad un dato reale, o se appartenga al regno dei suoi fantasmi e delle sue nevrosi.

A nostro parere, si tratta di un dato reale e oggettivo: l'uomo contemporaneo ha realmente smarrito qualcosa, è veramente privo di qualcosa di essenziale; la sua sensazione d'incompletezza è pienamente giustificata. Non è talmente malato da scambiare anche la causa della malattia per la malattia stessa. Se così fosse, il suo male sarebbe inguaribile e qualunque terapia risulterebbe illusoria e totalmente inefficace. Per guarire, il medico deve agire sulla causa della malattia: se la causa dell'enfisema polmonare è il fumo, è necessario che il malato smetta di fumare. L'enfisema non si cura cercando d'intervenire sui polmoni, ma smettendo di fumare; la tosse e il respiro difficoltoso sono solo i sintomi della malattia; non è la tosse che bisogna combattere, ma il vizio del fumo. La depressione, la confusione, lo spavento, l'angoscia, l'irrequietezza, eccetera, sono i sintomi della malattia della modernità: la malattia consiste nella perdita della salute. Quando e come l'uomo moderno ha incominciato a perdere la salute, ad ammalarsi? E qual è la cosa essenziale che si è lasciato sfuggire lungo la strada della modernità, lungo la marcia del Progresso? Noi crediamo che egli abbia smarrito il sentimento creaturale; ciò che gli manca, quindi, ciò che ha perduto, è il legame intimo, profondo, essenziale, con Dio, suo creatore; la salute che ha sacrificato sull'altare del Progresso, era la relazione piena, armoniosa, fiduciosa, con Dio, relazione che conferiva anche a lui un senso di identità, e, quindi, di stabilità. L'uomo è stabile se sa chi è, da dove viene, dove sta andando, e se conosce i mezzi per realizzarsi; la società è stabile se possiede gli stessi requisiti che rendono stabile l'individuo. La prima società, la famiglia, comincia a perdere la stabilità quando i suoi membri smettono di sentirsi radicati nella relazione reciproca e incominciano a vedere tale relazione come un fastidio, un impedimento, una gabbia che li imprigiona, anziché come un nido accogliente, dal quale i figli spiccheranno il volo, quando sarà giunto il momento. E la crisi dell'uomo moderno, riflesso della crisi della società moderna, parte proprio da qui: dalla perdita della relazione e dal prevalere degli istinti egoistici, del sentimento individualista. In altre parole, è una  crisi che nasce da un travisamento del significato della libertà.

L'uomo è libero. Chi nega questo - e lo negano i deterministi, i materialisti, i nichilisti, i luterani - nega il valore di qualsiasi ragionamento sulla possibilità di aiutare l'uomo ad essere se stesso, a realizzarsi, ad essere felice. Chi pensa che l'uomo possa e debba ambire ad essere se stesso, a realizzarsi, ad essere felice, crede anche che l'uomo sia libero, e sia pure entro un ambito relativo e non assoluto. Se l'uomo disponesse di una libertà assoluta, non sarebbe uomo, sarebbe Dio. Ma l'uomo non è Dio. Questa semplicissima verità viene, di fatto, negata, e sia pure inconsciamente, dalla cultura moderna, la quale nasce appunto da una sorta di ribellione dell'uomo contro il suo limite ontologico. Inconsciamente, l'uomo moderno non accetta di essere solamente uomo; vorrebbe essere Dio. Lo dimostra il fatto che non accetta né la malattia, né la vecchiaia, né la morte: le considera come delle potenze nemiche, contro le quali è sceso in guerra, nella ferma volontà di sconfiggerle e, se possibile, di distruggerle. Ma l'uomo non potrà mai distruggere la malattia, la vecchiaia e la morte. Per ogni malattia che riuscirà a curare, ve ne sarà un'altra che continuerà a sfidarlo; e l'allungamento della durata della vita media non sposta il fatto che si invecchia, riesce solo, al massimo, a camuffarlo: si può dimostrare cinquant'anni quando se ne hanno settanta, ma l'età biologica è un fatto, e coi fatti non si litiga. La morte, poi, resta il termine della vita e il destino (terreno) dell'uomo: se non si muore per una causa, si muore per un'altra, ma sempre si muore e sempre si morirà. Questo, però, all'uomo moderno non piace: si è aperta una voragine fra i suoi desideri e la realtà, fra le sue aspettative e il mondo concreto. La schizofrenia, la lacerazione dell'uomo contemporaneo nascono da questa scissione, da questa divaricazione, da questa mancata accettazione della sua condizione di creatura.

Da quando l'uomo ha rifiutato di essere solo una creatura, per ambire ad essere il padrone e signore di se stesso, e magari del mondo intero, egli ha imboccato la vita della sofferenza inutile, dell'infelicità e della disperazione. La sofferenza è utile, o può risultare tale, quando diventa un ponte per passare da uno stato di consapevolezza inferiore ad uno stato superiore: quando apre la mente e il cuore, quando fa respirare l'anima di un respiro più largo, quando rivela all'uomo il suo vero destino, che non è la morte, ma la vita, non però nella dimensione terrena, ma in quella ultraterrena. Il problema è tutto qui: che la cultura moderna da un lato ha portato l'uomo a rifiutare il suo status di creatura e a voler essere dio; dall'altro, gli ha ribadito, a causa del totalitarismo scientista da essa intronizzato, l'inevitabilità della morte di tutti gli esseri terreni, destino al quale l'animale uomo non può sfuggire. Ed ecco che il dio mancato si sente preso in trappola: aveva sperato, a un certo punto - e magari inconsciamente -  di potersi innalzare al di sopra di se stesso; aveva creduto che la sua scienza e la sua tecnica gli avrebbero fornito gli strumenti per trionfare di ogni nemico, per spianare qualunque ostacolo: e invece proprio le tavole della legge scientifiche gli ribadiscono l'inappellabilità della sua condanna. L'uomo è un animale; gli animali muoiono: anche l'uomo deve morire. La conclusione è inevitabile, date le premesse materialistiche. Dunque, eccoci giunti alla radice della malattia: la radice sta nelle premesse materialistiche della cultura moderna, che restituisce all'uomo un'immagine deformata di se stesso. L'uomo moderno vede se stesso puramente come un animale, un mammifero particolarmente evoluto, ma sempre un mammifero e sempre un animale. La dimensione spirituale viene negata, o meglio, viene ridotta a un epifenomeno del corpo. Quando il corpo muore e si dissolve, finisce tutto. E questo provoca negli uomini moderni uno shock al quale non possono adattarsi, che li fa piombare nella depressione, nell'angoscia, nella distruttività.

Tutto questo nasce da un disordine della mente, che si trasforma in un disordine della coscienza e dell'esistenza. A dispetto di tutte le sue pretese di estrema razionalità, la cultura moderna è intrinsecamente irrazionale; rifiutando di accettare la condizione creaturale dell'uomo, essa viola la regola numero uno della ragione: non litigare con i fatti. I fatti sono che l'uomo non può darsi la vita da sé, e che non può impedire alla morte di portargliela via: dunque, che egli non è sostanza, ma accidente; dunque, che non è dio, ma creatura. Se potesse darsi la vita da se stesso e se potesse non morire, sarebbe onnipotente, sarebbe dio; ma i fatti dimostrano il contrario. Gli sciagurati esperimenti che certi scienziati stanno facendo per giungere alla completa padronanza del fenomeno "vita" non potranno spostare di un millimetro questa semplice e palese verità: l'uomo è creatura; ha ricevuto la vita da altro da sé, e la perde per una volontà, o per una fatalità, che non fanno parte di lui. Altro che razionalista: la società contemporanea è il trionfo dell'irrazionalità, e la cultura moderna, il pensiero moderno, sono il vertice della schizofrenia e dell'alienazione. Per poter essere felice, l'uomo deve prima valutare se stesso e la realtà per quello che sono: questa è la condizione necessaria e indispensabile per qualsiasi discorso sulla felicità. Ma la felicità, abbiamo detto, coincide con la realizzazione; e la realizzazione coincide con l'esercizio ordinato della libertà. Il concetto della libertà è stato gravemente stravolto dalla cultura moderna: pare che essa consista nell'inseguimento selvaggio del bene individuale, secondo criteri puramente soggettivi; inoltre, sembra che essa consista essenzialmente in una ribellione, in una rottura della relazione con l'altro, per guadagnare spazi di autonomia sempre più grandi.

Entrambe le cose sono false e sbagliate. La libertà non è, non può essere, l'esercizio di una discrezionalità puramente individualistica e puramente soggettiva: se obbedisce soltanto all'impulso dell'io, non si tratta di libertà, ma di disordine permanente. Dunque, la libertà è il perseguimento ordinato del proprio fine, del proprio dover-essere, della propria chiamata. Non tutto quel che si può fare deve essere fatto: questo non sarebbe un esercizio di libertà, ma di follia. E  non si deve mirare alla propria realizzazione come se fosse il contrario della relazione con l'altro, come se non si potesse essere se stessi se non rompendo con l'altro, oppure, nel caso  migliore, accogliendolo solo quando se ne ha voglia, per poi allontanarlo di nuovo: questo è utilitarismo brutale, non esercizio di libertà. La libertà è un fatto di ordine: si tratta di essere ciò che si deve essere, di fare quel che si deve fare, di realizzarsi nella relazione con Dio e con l'altro. Fuori e contro questa relazione, non vi è libertà, ma disordine, caos, conflitto permanente e distruttivo, ossia, proprio quella che è diventata la condizione  diffusa, e ormai pressoché normale, nel senso di abituale, dell'uomo contemporaneo. Ma non esiste realizzazione dell'uomo che non coincida con la piena instaurazione della relazione con l'Altro, cioè con Colui al quale l'uomo deve la sua stessa esistenza. Tutti i mali della modernità nascono dall’aver rimosso questa relazione. 

Di qua ha inizio il cammino della possibile ripresa. L'uomo può uscire dalla condizione infernale nella quale si è cacciato, se saprà ritrovare il senso della relazione con Dio; se sarà abbastanza saggio e abbastanza umile da dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, ma trattami come l'ultimo dei tuoi servi. Il problema della guarigione dell'uomo contemporaneo dalla malattia chiamata “modernità” è il problema della possibilità e della volontà, da parte sua, di tornare ad essere umile. Ed ecco individuata, per contro, la radice ultima della malattia: la superbia. La cultura moderna è la Torre di Babele che l'uomo ha innalzato nel folle tentativo di arrivare fino al Cielo e di mettersi al posto di Dio. Ma la superbia si è punita da se stessa con la confusione delle lingue: gli uomini non si capiscono più, perché ciascuno parla una sua lingua. Che cosa significa questo? Significa che, una volta eliminata la presenza di Dio quale garante di una verità oggettiva, siamo precipitati nel relativismo: ciascuno dà un proprio significato e un proprio valore alle parole e alle cose: non c'è più un orizzonte di senso comune. Pertanto, anche la libertà diventa un arbitrio, anche la verità diventa un inganno,  una menzogna; e tutto diventa instabile, confuso, contraddittorio. Le potenze del caos si sono scatenate, perché l'uomo ha smarrito la giusta misura di se stesso, ha preteso di essere ciò che non è, e ha preteso di negare ciò che è.

Riassumendo. L’uomo moderno è piombato nell’infelicità perché ha scelto la via del disordine: della realizzazione disordinata di se stesso, vale a dire della esplicitazione delle sue potenzialità peggiori, le più egoistiche, le più infime. Recidendo la relazione con Dio, egli ha smesso di volersi bene e ha incominciato a farsi del male, protendendosi verso mete irrealizzabili e ripiegandosi, per reazione, nello sconforto, nella rabbia e nella disperazione.

Per realizzarsi in maniera ordinata, l’uomo deve ritornare in se stesso; cioè deve ristabilire la relazione con Dio. Se l'uomo tornerà a volersi bene, ad essere amico di se stesso, a voler essere felice, ritroverà anche la giusta misura di sé, e l'umiltà necessaria per confessare la propria finitezza, la propria fragilità, la propria impotenza.

E, se mai riuscirà a farlo, sarà salvo, qualunque cosa dovesse accadergli.