Red Land
di Annalisa Terranova - 18/11/2018
Fonte: Annalisa Terranova
Sì è vero, noi lo sapevamo già. Noi figli di missini, cui i padri hanno raccontato che le foibe non erano innocenti fenditure carsiche ma crateri bui della terra d’Istria dove i comunisti gettarono gli italiani. Norma Cossetto è il simbolo di quel martirio. Conoscevamo già il suo volto sorridente, quell’immagine che è stata per anni una sorta di “santino” consacrato a una memoria censurata, conoscevamo la sorte disumana e feroce che si è abbattuta nei primi giorni di ottobre del 1943 sulla figlia del podestà di Visinada. Lo sapevamo già ma un film, con la potenza delle immagini, del sonoro, dei dialoghi, è un pugno nello stomaco cui non sei preparato finché non arriva.
Il film è Red Land-Rosso Istria, che è nelle sale dal 15 novembre e che vi resterà pochi giorni. Dire che è un film scomodo non rende neanche l’idea. E’ un film che abbatte un muro, come ha detto il regista Maximiliano Hernando Bruno. Un film che alla Mostra di Venezia non hanno voluto relegandolo nello spazio marginale riservato alla Regione Veneto. Un film che 30-40 anni fa non sarebbe stato possibile realizzare e che oggi viene boicottato con l’arma sottile del silenzio e dell’indifferenza.
Va dato atto ad Aldo Cazzullo di averne scritto sul Corriere della Sera, ma in risposta ad una lettera, cavandosela con poche frettolose righe. Importanti ma assi poco visibili. “Spero che a vedere Red Land vadano in tanti – ha scritto Cazzullo – Tutti noi abbiamo un debito verso gli esuli dell’Istria e della Dalmazia, e verso i loro discendenti. Ricordo come fosse adesso la prima volta che un mio compagno alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Torino, figlio di esuli istriani, mi raccontò delle foibe. Avevo 19 anni, e non ne avevo mai sentito parlare. A scuola l’argomento non era stato sfiorato. In tv neppure. Riconosciamolo: a lungo è stato un tabù. A lungo si è parlato pudicamente di titini, senza scrivere a chiare lettere: comunisti. Si è taciuto a lungo anche sull’accoglienza gelida e a volte ostile che gli esuli ebbero nel resto d’Italia. Come ha detto il più famoso di loro, Nino Benvenuti: «Ci chiamavano fascisti; eravamo italiani»”.
E veniamo al film, che abbiamo visto in un cinema romano. Sala piena, silenzio assoluto, commozione repressa. Non un fiato, non un colpo di tosse. Perché è un film crudemente realistico. Un film che non si pone l’obiettivo di annacquare le responsabilità, un film dove i titini sono cattivi e sgradevoli e senza attenuanti (rappresentazione che in genere il cinema riserva ai soldati tedeschi). Un film che non tenta una lettura pacificatrice assegnando a ciascuno le responsabilità che la storia impone di assegnare. Tranne che in un punto, quando il professor Ambrosini (Franco Nero) parla con il capo dei partigiani slavi e afferma che nelle guerre tutti sono vittime, i fascisti come i comunisti, e vittime sarebbero anche quelli che dopo l’arresto di Mussolini hanno fatto i voltagabbana. No. Pagare per le proprie scelte, con coerenza, e cercare di sopravvivere galleggiando non è la stessa cosa. E non ha lo stesso valore etico. Ambrosini afferma anche che Satana, il male, è connaturato all’uomo, soprattutto durante le guerre. La tragedia delle foibe sarebbe dunque il frutto di un male ontologico, filosoficamente inteso. Anche qui si resta perplessi: ci sono ideologie che conducono a crimini contro l’umanità. Una di esse è il comunismo.
Ma sono sfumature, sfumature che rimandano a un dibattito ideologico che il film supera in quanto prodotto artistico, e di sofisticata fattura. Un film che squaderna la realtà delle donne che diventano preda dell’istinto brutale dei maschi in guerra, che sottolinea l’impotenza delle donne vittime, in quanto stuprate, in quanto madri e sorelle di figlie stuprate, la parte debole e calpestata dello scenario bellico, mentre gli uomini non sanno che fare, non sanno come agire, dopo il voltafaccia dell’8 settembre. Un disorientamento, un senso di disgregazione e di angoscia procurato da una data che lacerò non solo l’esercito ma l’intera nazione e che fu doppiamente infausta per gli italiani d’Istria.
E poi c’è Norma, che ci viene restituita dall’ottima interpretazione di Selene Gandini, attrice formatasi alla scuola di Albertazzi. Una garanzia per un ruolo più che impegnativo. Norma è la vittima sacrificale. Norma è simbolo, ma è anche rivincita visto che dopo decenni di oblìo la sua storia viene recuperata dalla settima arte. Non a caso il regista, nel giorno dell’uscita nelle sale del film, le ha scritto questa dedica: “Sorridi Norma, ce l’abbiamo fatta”.
Ma Norma non fu vittima solo dei partigiani slavi, come si vede nel film. Le foibe non furono solo opera dei titini. I partigiani italiani ebbero un ruolo storicamente definito e ormai abbondantemente studiato. In proposito, il commento migliore lo affidiamo alle parole della sorella di Norma, Licia Cossetto, scomparsa nel 2013 nello stesso giorno, il 5 ottobre, in cui 70 anni prima sua sorella veniva gettata viva nella foiba di Villa Surani: “Con mia sorella Norma, ricordo il nostro papà Giuseppe, infoibato anche lui, con parecchi altri miei familiari. La nostra sola colpa era quella di essere Italiani e di voler restare Italiani. Norma avrebbe potuto salvarsi qualora avesse aderito alle richieste dei suoi assassini che le proposero di restare con loro e di diventare Croata: cosa che lei respinse coraggiosamente, alla luce della sua fedeltà alla Patria. Allora, la portarono ad Antignana, la legarono ad un tavolo col filo di ferro uncinato ai polsi ed alle gambe: erano una ventina, e fecero di lei quello che volevano, torturandola ed usandole ripetute violenze. Norma chiedeva acqua e chiamava la mamma, ma nessuno si mosse a pietà. Non sarò tanto diplomatica, diversamente da altri. Ho il dente avvelenato perché lo Stato Italiano si è ricordato di noi troppo tardi. D’altro canto, la colpa è anche nostra, perché quello istriano è soprattutto un popolo laborioso e paziente, che ha scelto l’Esodo in massa tirandosi su le maniche e mettendosi a lavorare: io stessa ho insegnato per 42 anni. Nell’esilio sono stata oggetto di tanti torti, ma anche in Istria ero stata imprigionata e riempita di botte; per mia fortuna trovai un compagno di scuola che mi sottrasse ai nostri carcerieri riportandomi a casa, da dove, quella stessa notte, potei fuggire con una zia, raggiungendo a piedi Trieste con una marcia di 60 chilometri!
Ho il dente avvelenato per tanti motivi ma, come ripeto, prima di tutto per il silenzio ufficiale che ha coperto per 60 anni la nostra tragedia. E poi, chiedo a chiunque sia andato a scuola se ha mai trovato in un libro di testo una parola sulla terribile vicenda istriana: ignoranza voluta e programmata. Il 10 febbraio 2006, quando il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi mi ha consegnato la Medaglia d’Oro al Valore concessa alla memoria di Norma per il nobile comportamento davanti agli aguzzini e per il rifiuto di collaborare col nemico, e mi ha chiesto se fossi contenta, gli risposi ringraziando, ma rammentando che aspettavo da troppo tempo, senza che nessuno si fosse mai ricordato dei nostri infoibati.
Dobbiamo dire grazie alle forze armate tedesche, se a seguito della loro temporanea occupazione dell’Istria siamo riusciti a recuperare i resti di alcune vittime, ma la gran parte è ancora laggiù: io non so ancora e non saprò mai dove sia finita la maggior parte dei miei parenti scomparsi assieme a Norma. Le foibe sono custodi del nostro dramma sconosciuto.
Bisogna informare meglio, anche sulla consueta versione secondo cui il martirio istriano avrebbe avuto luogo a causa esclusiva dei partigiani slavi di Tito. In realtà, loro occuparono subito qualche centro maggiore, all’indomani dell’8 settembre 1943, ma in quelli minori furono i partigiani locali – nostri concittadini italiani! – a scatenarsi: venivano di notte a farci alzare ed a sparare sopra i letti, ed anche gli assassini di mia sorella erano compaesani comunisti, che ricordo benissimo uno per uno. Costoro hanno persino la pensione dell’INPS, compresi i superstiti del gruppo che aveva torturato ed infoibato Norma. Infatti, la legislazione italiana del dopoguerra ha stabilito che era sufficiente aver prestato servizio, sia pure per pochi giorni, in forza all’Italia, per avere diritto alla pensione: cosa tanto più paradossale, visto che a noi, invece, nulla è stato dato. Personalmente, ho ricevuto un’autentica miseria solo come indennizzo per i beni «abbandonati» e, quindi, un’ulteriore beffa.
Questa è la nostra storia, tanto tragica che non mi sento di perdonare: del resto, come è stato detto, «soltanto i morti hanno il diritto di perdonare, mentre i vivi hanno il dovere di ricordare». Questo è l’obbligo morale che lascio in eredità alla mia famiglia ed al nostro popolo”.