Come tutti si aspettavano, il referendum ungherese svoltosi ieri, 2 ottobre 2016, vertente sulle quote migranti imposte dall’Unione Europea, ha dato un esito abbastanza scontato: alla domanda “Vuoi che l’Unione europea abbia il diritto di disporre il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?”, gli ungheresi hanno risposto No.
Per il 98% dei votanti dovrebbe essere il Parlamento ungherese ad avere l’ultima parola sugli ingressi nel Paese. Il 2% si è detto, invece, favorevole affinché sia l’Unione Europea a stabilire le quote e a gestire il flusso dell’immigrazione.
Un referendum che faceva presumere sin dall’inizio un esito scontato. Tuttavia il voto di ieri ha riservato comunque una sorpresa: hanno partecipato al voto soltanto il 43% circa degli aventi diritto. Questo ha dato modo alla propaganda europeista di denunciare l’invalidità del voto, in quanto, secondo la legge ungherese, un referendum per essere valido deve ottenere un’affluenza superiore al 50%.
In effetti, la Costituzione Ungherese, all’art.8, sembrerebbe dar ragione a questa lettura del voto referendario. Il testo dell’articolo, infatti, recita:
Referendum popolare
Articolo 8(1) L’Assemblea Nazionale ordina un referendum popolare per iniziativa di almeno
duecentomila cittadini elettori. L’Assemblea Nazionale può ordinare un referendum popolare per iniziativa del Presidente della Repubblica, del Governo o di centomila elettori. Il risultato di un referendum valido e di successo è vincolante per l’Assemblea Nazionale.
(2) Il soggetto del referendum popolare può essere una questione di competenza dell’Assemblea Nazionale.
(3) Non può essere tenuto un referendum popolare:
a) su questioni riguardanti modifiche della Legge Fondamentale;
b) sui contenuti della Legge Finanziaria, sulla legge attuativa, sulle tasse centrali, sulle imposte, sui contributi, sulla dogana, sulle condizioni centrali dei tributi locali;
c) sul contenuto delle leggi elettorali per i deputati all’Assemblea Nazionale, per i deputati e sindaci comunali e per i deputati al Parlamento Europeo;
d) sugli obblighi provenienti dai trattati internazionali;
e) sulle questioni riguardanti la formazione di organi gli incarichi a persone di competenza dell’Assemblea Nazionale;
f) sullo scioglimento dell’Assemblea Nazionale;
g) sullo scioglimento del corpo rappresentativo;
h) sulla dichiarazione dello stato di guerra, proclamazione dello stato straordinario e dello stato di emergenza, come dello stato di protezione preventiva e sul suo prolungamento;
i) sulle questioni riguardanti la partecipazione nelle azioni militari;
j) sulla pratica dell’amnistia.
(4) Il referendum nazionale è valido se più della metà dei cittadini elettori ha espresso il suo voto valido, e ha successo se la metà degli elettori che hanno espresso voto valido ha dato la stessa
risposta sulla questione posta.
La Costituzione ungherese parla di referendum popolare e stabilisce un quorum per la sua validità che lo rende vincolante. Ma il referendum sulle quote migranti è un referendum consultivo e se è tale, non è vincolante per definizione. La decisione finale spetta comunque al governo ungherese, che certamente non si impegnerà a favore di chi ha votato per il Sì. D’altronde, il Primo Ministro Viktor Orbán ha già annunciato che il governo terrà conto della consultazione a prescindere dal quorum.
Sbaglia inoltre chi afferma che, se il 43% degli ungheresi hanno votato per il No, allora il 57% degli stessi che si sono voluti astenere sono favorevoli al Sì: il fronte dell’astensione non è composto soltanto dai partiti europeisti, come il Partito Socialista Ungherese, ma anche dal Movimento per un’Ungheria Migliore, meglio conosciuto come Jobbik, un movimento di estrema destra anti-immigrazionista e anti-europeista che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto il 20,22% dei voti, conquistando 23 seggi in Parlamento. Pur essendo contro le quote imposte dalla UE, Jobbik ha ritenuto opportuno non partecipare al referendum per non rafforzare la leadership interna di Orbàn e del suo partito, Fidesz. Il fronte anti-immigrazionista, in realtà, è maggioritario in Ungheria e trova consensi dall’estrema destra fino alla sinistra comunista.
In ultima analisi, c’è da dire che il tema europeo non riscuote mai un’alta partecipazione in Ungheria: nel 2003, quando ci fu il referendum per l’ingresso del Paese magiaro nell’Unione Europea, l’affluenza si attestò al 45,79% (i Sì vinsero con l’83,76%). Inoltre, alle ultime elezioni europee del 2014, l’affluenza fu bassissima: solo il 28,97% degli ungheresi si presentò alle urne. Tutta un’altra situazione rispetto alle elezioni politiche dove vota più del 60% degli aventi diritto.
Per cui il referendum tenutosi ieri in Ungheria non ha nulla di irregolare. Il Parlamento ungherese avrà sempre l’ultima parola sull’immigrazione e accoglierà migranti solo alle condizioni che esso imporrà. La questione del quorum è irrilevante e potrà avere ripercussioni soltanto nella politica interna ungherese, in quanto Viktor Orbàn non è riuscito ad ottenere quel rafforzamento di leadership che sperava potesse arrivargli da un plebiscito.
Ma il problema della questione migranti non nasce certamente in Ungheria. Forse sarebbe il caso per l’Unione Europea di rivedere la sua politica dell’accoglienza basata soltanto sulle quote e sugli accordi con la Turchia, che si è dimostrata fallimentare.
Forse sarebbe il caso di cambiare atteggiamento e di trovare soluzioni alternative. La stessa Ungheria si è dimostrata abbastanza sensibile sul tema dei rifugiati, soprattutto quelli di confessione cristiana, arrivando ad istituire un ufficio ministeriale in difesa dei cristiani perseguitati. Lo stesso nostro Premier, Matteo Renzi, dopo il vertice UE di Bratislava si lamentò del fatto che il documento finale parlava solo di Turchia e non diceva nulla dell’Africa, minacciando anche di andare a concludere accordi bilaterali con i Paesi africani senza l’avvallo dell’Unione Europea.
Forse è chiedere troppo a questa Unione Europea senza alcun coraggio, di cercare di risolvere i problemi in Medioriente e in Africa direttamente alla radice. Tuttavia non ci vorrebbe poi molto a spostare i centri di accoglienza e di identificazione direttamente nel Nordafrica, o addirittura su piattaforme nel Mediterraneo, così da vagliare lì direttamente gli ingressi e portare in Europa solo i meritevoli d’asilo, evitandogli ulteriori patimenti e le morti in mare (sarebbe la scelta migliore, visto che chi ottiene lo status di rifugiato è solo il 20% circa del totale degli arrivi). Invece, tutto il peso “dell’accoglienza” viene scaricato sui Paesi di confine, Grecia e Italia in testa, che sono costretti a mantenere anche chi non merita di rimanere, causando problemi al bilancio statale che deve già rispettare regole assurde, alimentando quindi i problemi interni e la guerra fra poveri e andando ad arricchire soltanto chi fa business sulla pelle delle persone che emigrano.
Basterebbe poco, ma il poco non lo si vuole fare. Ecco perché l’Unione Europea ha fallito.