Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Rinasce il Mediterraneo ma chi ne profitterà?

Rinasce il Mediterraneo ma chi ne profitterà?

di Giorgio Vitangeli - 09/01/2025

Rinasce il Mediterraneo ma chi ne profitterà?

Fonte: Italicum

La posizione geografica dell’Italia è tornata ad avere un grande ruolo strategico, anche in economia, ma di tale potenzialità,  non abbiamo ancora piena coscienza

I sussulti ed i venti di guerra che ad ondate scuotono il Mediterraneo non devono trarre in inganno: il Mediterraneo sta rinascendo. E’, questa rinascita, un moto irrefrenabile e crescente che ha il suo vettore nell’Est e nel Sud-Est asiatico, e quindi nell’Oceano Indo-Pacifico. Com’era. d’altronde, nei secoli passati, al tempo del suo antico splendore. Allora erano le spezie, la seta, le materie prime (legname, lana, pelli,grano) che fluivano dall’Oriente al Mediterraneo, e di qui in tutta l’Europa. E quei traffici fecero la ricchezza delle Repubbliche marinare italiane. Oggi è dalla Cina e dal Sud-Est asiatico che affluiscono verso l’Europa manufatti d’ogni genere, e materie prime (soprattutto petrolio) dai Paesi del Golfo Persico. Un flusso cui si aggiungequello crescente proveniente dall’India. E l’interscambio tra quei Paesi e l’Europa ha nel Mediterraneo il suo diretto e naturale punto d’arrivo.
Il declino di quel liberismo senza freni che ha caratterizzato questi ultimi decenni, il possibile emergere in futuro di blocchi economici separati e contrapposti, gli ostacoli posti al commercio con la Cina dagli Stati Uniti, che ora temono l’emergere della potenza dell’antico “Celeste Impero”, potranno forse frenare questa tendenza, ma non potranno arrestarla.  Dunque: la rinascita economica del Mediterraneo, quale mare ove confluisce una quota sempre più rilevante del commercio internazionale è ormai un dato di fatto.  Ma chi sarà a profittarne maggiormente?
Quando il Mediterraneo
era tornato “mare nostrum”
Nei secoli d’oro delle Repubbliche marinare italiane furono soprattutto le navi di Genova e di Venezia, ma prima anche di Pisa e Amalfi a dettar legge nel Mediterraneo. e quelle di Ragusa di Dalmazia, cioè le quattro Repubbliche marinare italiane e la quinta sottaciuta e dimenticata, di cui s’è perso pure il nome (oggi si chiama Dubrovnik ed è una piccola cittadina croata che vive di turismo, e del fascino che ancora riverberano le mura e gli edifici dell’antica Repubblica marinara). Ma è pur vero che  quella supremazia dei traffici del Mediterraneo a poco a poco sfuggì a Genova, e soprattutto a Venezia, e la causa non fu soltanto il declino del “mare nostrum” dopo la scoperta dell’America e dopo che il portoghese Vasco da Gama cinque o sei anni dopo, doppiò il Capo di Buona Speranza,  aprendo una nuova rotta verso le favolose Indie Orientali, da cui originava il ricchissimo commercio delle spezie. Sono vicende dei secoli passati, ma è bene ricordarle e meditarle, perché costituiscono ancora un insegnamento ed un monito per il presente.
Il famoso storico francese Fernand Braudelin un suo bellissimo libro dedicato tutto al Mediterraneo (“Il Mediterraneo”- lo spazio e la storia- gli uomini e la tradizione - edito in Francia nel 1985 e pubblicato nel 1987 in Italia da Bompiani), afferma che Genova e Venezia erano riuscite a superare la crisi seguita a quei due eventi epocali. Genova infatti divenne il maggior centro finanziario dell’intera Europa   intercettando il  flussodi argento  che dall’America giungeva alla Spagna, e che la Spagna doveva trasferire in Olanda, per pagare il soldo e le spese dell’esercito spagnolo, che per lunghi anni combatté nei Paesi Bassi.  La via dell’Atlantico e del Mare del Nord era infatti insicura, infestata com’era dai pirati inglesi ed olandesi per i quali quell’argento era preda agognata. Venezia invece, poiché il consumo di spezie in Europa in pochi anni era quasi raddoppiato, poté ricostituire in buona parte le basi del suo commercio con l’Oriente.
Ma allora perché all’inizio del Seicento si è verificato quel rallentamento negli scambi del Mediterraneo sulle lunghe distanze che tanto nocque alla prosperità delle città italiane che sul commercio marittimo fondavano il loro benessere?
L’arrivo dei “nordici”: una storia
di violenze disonestà, complicità
Secondo Braudel la migliore spiegazione l’ha fornita Richard Rapp, un giovane storico (lo era quarant’anni fa, poi è diventato professore di storia economica alla State University of New York, ed ha pubblicato una ponderosa storia economica dell’Europa nonché un volume dedicato proprio alla decadenza economica di Venezia nel XVII° secolo). Ebbene, secondo il professor Rapp si verificò allora una conquista del Mediterraneo da parte dei nordici, cioè delle marinerie inglesi ed anche olandesi; una conquista attuata “con i mezzi dell’astuzia, della forza e della violenza, nonché sfruttando le differenze economiche”.Braudel aderisce a questa tesi, e la rafforza e la chiosa. “Le navi dei paesi protestanti – scrive infatti nel libro già citato - arriveranno a dettar legge in un Mediterraneo…a poco a poco esse riescono a far propri i traffici principali…Le navi olandesi trasportano dalla Spagna a Livorno le balle di lana che perverranno a Venezia via terra, alimentando la sua “Arte della lana”; altre conquiste riguardano il commercio dell’uva passa, l’olio di Djerba o delle Puglie, nonché il prestigioso commercio del Levante. I nordici portano legno, catrame, tavolame vario, grano, segale, tonnellate di aringhe, stagno, piombo, e presto anche i loro manufatti, spesso semplici contraffazioni dei prodotti di Venezia o di altre città italiane, cianfrusaglie con falsi marchi italiani che sembrano autentici (il che ricorda qualcosa: niente di nuovo sotto il sole n.d.r.)….A tali attività  si devono aggiungere la pirateria e le intese con Algeri e con i turchi, fonti di tutta una serie di violenze, di disonestà, di complicità (in particolare a Livorno). Il commercio e l’industria inglesi e dei Paesi Bassi si sono così alimentati delle spoglie e delle ricchezze accumulate dal vecchio Mediterraneo. Vi furono conquista, saccheggio, furto. E non mancherà il blocco operato a distanza nel momento in cui gli olandesi si sostituiscono ai portoghesi in Insulandia e nell’Oceano Indiano”. I primiinfatti ”lasciavano passare le merci dirette al Mediterraneo, mentre i secondi facevano buona guardia …almeno per il pepe e le spezie”.Che secondo le testimonianze dei marsigliesi verso il 1620 “non arrivano più nel Mediterraneo percorrendo le antiche rotte del Mar Rosso, ma attraverso l’Atlantico e Gibilterra, portati da navi olandesi. E così, conclude Braudel,  “Il Mediterraneo è stato da un lato aggredito direttamente, e dall’altro aggirato per sottrarre agli abitanti delle sue sponde i traffici più redditizi. E a questi ultimi, da allora, il mare non è mai stato restituito”.
Il che, detto per inciso, fu una delle cause, se non la principale, dell’ingresso dell’Italia nell’ultimo conflitto mondiale. Per rompere quei vincoli che ci rendevano “prigionieri del nostro mar”, come diceva allora una nostra canzone di guerra.
Una grande flotta,
cantieri e porti
Ma torniamo alle nostre gloriose repubbliche marinare, perché la loro storia ha ancora qualcosa da insegnarci. Se guardiamo alle radici della loro potenza vediamo infatti che essa si basava su alcuni precisi fattori: un porto di base adeguato, una grande flotta mercantile, ed in particolare, per Venezia, un grande cantiere in grado di adeguare e potenziare rapidamente quella flotta. Ed infine, ed è questo il dato più importante, un avventuroso spirito imprenditoriale nell’attività mercantile, di cui Marco Polo è un indimenticabile esempio.
Flotte poderose: le caracche genovesi del Quattrocento, nota ancora Braudel, raggiungono a volta le 1000 o addirittura le 1500 tonnellate di stazza: sono i giganti del mediterraneo. Ed i velieri da carico di Ragusa arrivano a loro volta nel Cinquecento fino alle mille tonnellate e sono tra le maggiori navi da trasporto di quell’epoca. Oltreché dalla capacità delle loro stive, ad imporle, non solo nel Mediterraneo, sono anche i bassi salari degli equipaggi, formati probabilmente anche o soprattutto da slavi dell’entroterra “ragusizzati”. E questa competitività fece allora della flotta ragusea, cioè di una piccola città e di una Repubblica estesa su un palmo di territorio, una delle maggiori flotte mercantili d’Europa.
Quanto a Venezia,che giunse invece a dominare oltre all’Adriatico tutto il Mediterraneo Orientale,  la radice strutturale della sua potenza marinara, oltreché nel porto e nella flotta mercantile, era in un’altra poderosa struttura: il suo Arsenale, cioè il cantiere ove si costruivano le navi. Esso è stato, nella sua epoca d’oro, il maggior complesso produttivo europeo dell’epoca preindustriale: in piena attività vi lavoravano giornalmente da 1500 a 2000 persone al giorno, con punte di 5000. E di lì uscivano non solo le grandi navi mercantili dai cui traffici Venezia traeva la sua ricchezza, ma anche le navi da guerrache garantivano la potenza della Repubblica “Serenissima”. Nell’Arsenale si fabbricavano non solo le navi mercantili, con tutte le relative attrezzature (remi, corde, vele, ecc.), ma anche i cannoni di cui le navi da guerra erano dotate.  C’è da aggiungere che l’Arsenale di Venezia, citato anche da Dante nella Divina Commedia, può considerarsi il primo grande impianto industriale pubblico d’Europa.  Esso infatti era retto da un’apposita Magistratura, di cui facevano parte i “Provveditori dell’Arsenale”. E quindi da un Organo istituzionale denominato “Reggimento dell’Arsenale”.
Flotta, porti, cantieri
nell’Italia di oggi
Se la disponibilità di porti sicuri ed adeguatamente attrezzati, di una considerevole flotta, di cantieri in grado di rinnovarla ed all’occorrenza espanderla, e anzitutto un ardimentoso spirito d’impresa di alcuni mercanti o uomini di mare sono le precondizioni necessarie ad una nazione per ricoprire il ruolo di protagonista nel commercio internazionale via mare, vediamo quale è, sotto questi aspetti, la situazione odierna dell’Italia, e cominciamo dalla flotta mercantile.
Ancora negli anni del dopoguerra, per lungo tempo a compensare gli squilibri della nostra bilancia commerciale ed a riportare in attivo la bilancia dei pagamenti erano due voci: le rimesse degli emigranti ed i “noli” incassati dalla nostra flotta mercantile. Oggi a spedire denaro alle famiglie non sono più gli emigrati italiani, ma gli stranieri immigrati in Italia. E quanto ai noli, anche questa voce da tempo è divenuta passiva, e per somme considerevoli. Lo scorso anno, cioè nel 2023, secondo una indagine condotta dalla Banca d’Italia il passivo ha sfiorato i dieci miliardi di euro, e l’anno prima aveva toccato il massimo storico di 14 miliardi. Ma è dal 2002 che il saldo del costo del trasporto merci via mare è per l’Italia costantemente passivo, mentre la quota dei vettori italiani sul nostro import-export complessivo è scesa da circa il 24% del 2002 al 13,9% del 2022. In vent’anni abbiamo perso dunque il 10%. Ad avvantaggiarsene sono stati gli armatori di altri Paesi mediterranei, ed in particolare i greci ed i turchi.
C’è da considerare peraltro che la marina mercantile è segmentata e specializzata secondo alcune categorie di navi, in relazione alle merci trasportate, ed alle modalità di trasporto. Si parla così di navi porta containers,  navi da trasporto “bulk solido” (granaglia, minerali, concimi, ecc. e “bulk liquido” (petrolio, liquidi chimici, ecc.); navi “general cargo” che caricano merci solide di vario tipo ed infine navi “Ro-ro”, che trasportano veicoli, automobili e camion,  ed anche macchinari ed impianti: Ebbene: nell’import-export italiano via mare gli armatori italiani conservano ancora una prevalenza (60%) nel “Ro-ro”, mentrenel settore “bulk” e  nel “general cargo”  prevalgono greci e turchi. Nel settore infine delle navi porta-containers, incredibilmente, la prevalenza è della Svizzera, che non ha notoriamente neppure un metro di costa marina. Una anomalia questa che sottende la storia quasi incredibile di Gianluigi Aponte, nato nel 1940 a Sant’Agnello, a un passo da Sorrento, ma con moglie svizzera e divenuto poi cittadino svizzero. Gianluigi Aponte era negli anni sessanta del secolo scorso il giovane capitano di un traghetto che faceva la spola tra Napoli e Capri. In uno di questi viaggi conobbe una passeggera, che poi diverrà sua moglie. Cominciò l’attività di armatore nel 1970, con una sola nave di seconda mano. Oggi la società MSC fondata da lui e da sua moglie con sede a Ginevra supera complessivamente i sei milioni di tonnellate, ed è ancora di loro completa proprietà. Con una flotta di oltre 800 navi porta-containers e più di centomila dipendenti è oggi la prima società al mondo in questo settore.
Quanto alla flotta mercantile italiana ufficiale, essa attualmente conta appena9 navi portacontainers. Più in generale, secondo le ultime rilevazioni disponibili, tenendo conto solo delle navi di oltre mille tonnellate di stazza, la flotta mercantile italiana conta 1.353 navi, di cui 120 petroliere, 116 “general cargo”, 48 portarinfuse, cioè navi “bulk solido”, ed infine oltre mille navi di tipologia non specificata.Che siano troppo poche lo dimostra la nostra bilancia, considerevolmente passiva per i noli, ma il declino della nostra marina mercantile appare evidente anche esaminando la più recente evoluzione della flotta. Le statistiche, per la verità, non sono perfettamente confrontabili, a seconda che si consideri il tonnellaggio o il numero di navi, includendo magari anche le navi passeggeri, i traghetti, i rimorchiatori, oppure solo le navi da trasporto merci che battono bandiera italiana, o anche quelle che battono bandiera estera, ma la cui proprietà è riconducibile ad armatori italiani. Ma vediamo i numeri: al 1 gennaio 2011 secondo il Lloyd Register of Shipping la flotta mercantile battente bandiera italiana era all’undicesimo posto nel mondo per tonnellaggio ed al tredicesimo per Paesi proprietari.  Cinque anni dopo secondo i dati di Confitarma (l’Associazione degli armatori italiani) la flotta mercantile italiana, pur includendovi di tutto e di più (navi da carico secco e liquido, navi miste, navi da crociera, traghetti, aliscafi, rimorchiatori, navi appoggio, altri tipi di navi, e navi battenti bandiera straniera, ma riconducibili ad armatori italiani, ma senza comprendervi la MSC svizzera), era scesa al quattordicesimo posto nella classifica mondiale. Infine secondo la valutazione del World Factbook della CIA di cinque anni or sono la flotta mercantile italiana per tonnellaggio di portata lorda (che è il dato più importante) è al ventunesimo posto nel mondo.Una posizione umiliante ed incongrua per una Nazione la cui economia non molti anni or sono era la sesta del mondo, e che trae dall’export dei suoi prodotti larga parte della sua vitalità. E non consola il fatto che sia un italiano trasferitosi in Svizzera ad avere la più grande flotta porta containers del mondo; semmai è motivo di rimpianto, perché vuol dire che Aponte ha avuto in Svizzera la possibilità che in Italia non aveva di sviluppare le sue grandi capacità imprenditoriali. E così a dominare i mari nelle classifiche mondiali sono altre flotte.
I porti ed i cantieri
Alcune note sintetiche infine per quanto riguarda la situazione italiana quanto a porti ed a cantieri navali. Per i primi l’Italia sconta decenni di trascuratezza, della cui gravità solo in questi ultimi anni i governi hanno cominciato a rendersi conto. E la arretratezza delle strutture portali e delle connessioni logistiche si è accompagnata a quella della regolamentazione legislativa. Basti pensare che il testo unico su porti, spiagge e fari del 1885 (il cui regolamento è stato approvato nel 1904) è rimasto in vigore per più di cento anni.  Si è dovuti attendere infatti il 1994 per avere una nuova legge, che ha lasciato sostanzialmente invariati alcuni aspetti di quella precedente, apportando solo alcune innovazioni. La prima è quella di una nuova classificazione dei porti, divisi in due categorie: la prima e quella dei porti rilevanti per la difesa e la sicurezza dello Stato; la seconda quella dei porti con funzioni commerciali, industriali, petrolifere, di servizio passeggeri, pescherecce, turistiche e di diporto. Questa seconda categoria è suddivisa a sua volta in tre classi: la prima è quella dei porti con rilevanza economica internazionale; la seconda quella dei porti con rilevanza nazionale, ed infine la terza è quella dei porti di rilevanza regionale o interregionale.
Altra forte innovazione della legge del 1994 è stata l’istituzione nei maggiori porti delle Autorità di sistema portuale (attualmente 15 che hanno la “governance” di 57 porti nazionali), enti di diritto pubblico dotati di autonomia organizzativa, finanziaria e decisionale, cui spetta tra l’altro la manutenzione ordinaria e straordinaria dei porti.
Tale riorganizzazioneha stabilito inoltre che siano di competenza regionale alcune funzioni nei porti di terza classe. Ulteriori competenze sono state attribuite poi alle Regioni da leggi  del 1972, del 1977 e del 1997 (la cosiddetta “legge Bassanini”), tra cui l’escavazione dei fondali nei porti ove non è istituita l’Autorità portuale (ben 120 circa) con il conseguente smantellamento del Servizio Escavazione Porti  del Ministero dei Trasporti.
Inutile sottolineare la confusione di ruoli ed i conflitti tra Stato e Regioni che tale assetto ha finito col determinare in vari settori di attività non chiaramente definiti dalle varie leggi.
La recente istituzione del Ministero delle politiche del Mare dovrebbe finalmente fare chiarezza e dare un assetto più organico a tutta questa materia, riportandola ad un’ottica unitaria. Ed in effetti si è cominciato a parlare di una necessaria riforma delle leggi sui porti.In una recentissima riunione del Comitato Interministeriale, per le politiche del mare tenutasi il 18 dicembre scorso a Palazzo Chigi e presieduta dal ministro Nello Musumeci, il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Edoardo Rixi ha preannunciato l’intenzione del governo di creare una società a controllo pubblico (53%), ma quotata in Borsa (modello delle società dell’Iri, dunque) che dovrebbe gestire gli investimenti nei porti e rappresentare il sistema portuale italiano a livello internazionale.
Ma è abbastanza recente, cioè di qualche mese fa, una sconcertante dichiarazione del vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani il quale sosteneva l’opportunità di privatizzare i porti.  Sconcertante non solo  per questa sorta di rigurgito della sciagurata politica di  privatizzazione generalizzata delle industrie pubbliche, ma anche perché tutte  le banchine dei porti sono già  state date in concessione a privati, e per giunta in  totale  mancanza di una logica di sistema, e non di rado, come nel caso clamoroso della piattaforma logistica del porto di Trieste a  società straniere (in questo caso  la società tedesca HHLA-Hamburgen Hafen und Logistik) con quota di maggioranza assoluta (50,01%) e con durata sino al 2052, che la HHLA ha già chiesto di estendere sino al 2064.  Intanto in quasi tutti i porti italiani, sia quelli grandi che nei minori, sono in atto o sono programmati lavori di miglioramento strutturale: si allungano dighe foranee, si creano nuove banchine e si ingrandiscono quelle esistenti, si forniscono di elettricità, si dragano i fondali, si creano moli e spazi per le grandi navi porta container, si attuano migliori collegamenti con le strutture logistiche ferroviarie o stradali, si disegnano piani per un migliore rapporto tra le zone porto e il fronte città. Molti di questi interventi sono solo nella fase progettuale, ma per molti altri i lavori sono in corso. Insomma, qualcosa di nuovo ha cominciato a muoversi.
Resta da dire della nostra industria cantieristica. E qui, finalmente, il quadro appare già largamente positivo. E’ quasi un miracolo, che ha due nomi: quello della Fincantieri e quello di Giuseppe Bono, che ne è stato l’amministratore per venti anni, dal 2002 sino a maggio del 2022.
La Fincantieri, società a maggioranza assoluta pubblica (il 71,32% è in mano alla Cassa Depositi e Prestiti) è oggi il più importante Gruppo cantieristico d’Europa, ed il quarto nel mondo.E’ forte di ben venti grandi Cantieri, sparsi in tutto il mondo, ed ha la sua sede a Trieste.
Abbiamo detto che è frutto di due miracoli. Il primo è quello della sua nascita, che è conseguenza di una grande crisi mondiale, quella del 1929 che portò al collasso i grandi cantieri privati italiani, che vennero assorbiti dall’Iri, che poi li riunì nella Fincantieri. E dai suoi cantieri uscirono da allora le più famose navi  della marina mercantile e di quella militare italiana e le più eleganti e prestigiose navi da crociera, per le quali Fincantieri è leader mondiale, con una quota di mercato del 25%,  costruendo inoltre navi di vario tipo, sia civili che militari, vendute in tutto il mondo.
Il secondo miracolo, come accennato, lo ha fatto Giuseppe Bono. Calabrese, nato a Pizzoni, un paesino della provincia di Vibo Valentia dopo una carriera manageriale maturata quasi interamente in industrie pubbliche, fu chiamato al vertice di Fincantieri in un momento difficile per il Gruppo, e lo ha guidato per vent’anni, riportandolo al successo e facendone, come già detto, il primo d’Europa.
Il che, detto per inciso, smentisce clamorosamente due pregiudizi tanto radicati quanto sciocchi. Il primo è che il Meridione non sia terra di grandi imprenditori e manager. Ebbene, nel settore armatoriale il più grande imprenditore italiano è Gianluigi Aponte, nato in Campania. Nel settore della cantieristica, il maggiore è stato Giuseppe Bono, nato in Calabria, che ha smentito anche l’altro pregiudizio, che le industrie pubbliche siano carrozzoni rette da “boiardi” che dilapidano il denaro pubblico.Il successo della Fincantieri continua con il nuovo amministratore delegato Pier Roberto Folgiero, come testimonia anche, in questi giorni di fine dicembre in cui scriviamo, l’exploit del titolo in Borsa.
Da questa lunga panoramica, che ha abbracciato secoli della nostra storia sul mare, credo si possano trarre una constatazione ed un monito. La prima è che, malgrado tutto, gli strumenti (e gli uomini…) per tornare ad essere protagonista sul mare, non solo Mediterraneo, l’Italia li ha: deve solo prenderne piena coscienza, affinarli, semplificarli, modernizzarli, ove necessario, e sviluppare, anche tra i giovani e dalle scuole, una “cultura del mare”.
La seconda è che bisogna controllare bene la politica delle concessioni delle banchine alle società private. Ben gestita, può essere una leva di sviluppo internazionale, ma lasciata al cosiddetto “mercato”, alle  differenti iniziative delle singole Autorità portuali, senza una disciplina di sistema, può voler dire affidare ad interessi stranieri nostri asset strategici.  Ed allora della rinascita del Mediterraneo a beneficiare più che l’Italia sarebbero altri Paesi. Eppure il passato qualcosa ci dovrebbe avere insegnato. Le navi, è vero, sono cambiate, e ancora cambieranno, ma il mare no. E le spinte geopolitiche che da esso irradiano e su esso convergono sono sempre  quelle.