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Ripensare il socialismo. (II parte)

di Gennaro Scala - 19/07/2019

Ripensare il socialismo. (II parte)

Fonte: Appello al Popolo

Ci sarebbe un enorme lavoro intellettuale da fare relativo al bilancio storico del precedente movimento socialista, che non è affatto fallimentare, basti pensare alle lotte di liberazione anti-coloniali e allo stato sociale del dopoguerra, tuttavia esso è incorso una serie di errori politici e teorici che hanno causato la chiusura di un ciclo di lotte. Inoltre, il socialismo, nella versione estrema del comunismo ha sfruttato delle motivazioni religiose di derivazione ebraico-cristiana (il nuovo paradiso in terra, l’analisi migliore a mio parere è quella di Karl Löwith, tra i tanti che hanno sottolineato questo rapporto con l’eredità religiosa) che se all’inizio hanno spinto all’azione successivamente hanno provocato la disillusione. Se oggi non si “crede” nella lotta politica è anche perché in passato si è creduto in modo sbagliato in essa.
Potremmo iniziare col definire molto genericamente cosa intendiamo per socialismo. Con esso intendiamo tutte quelle misure atte a garantire una vita dignitosa, un ruolo sociale, la sanità, l’istruzione, gli strumenti per il tempo libero alle classi popolari. Un un tale approccio non è a priori rivoluzionario, ma non esclude una tale prassi qualora le classi dominanti di una determinata nazione fossero irrimediabilmente ostili nei confronti delle classi inferiori.
Conserviamo il nome socialismo innanzitutto per indicare una parentela con il vecchio movimento operaio anche se si tratta di un rapporto di discontinuità in quanto le organizzazioni sorte dal vecchio movimento operaio sono tutte in stato di avanzata decadenza e non è possibile collegarsi a nessuna di esse. Il nome socialismo indica una filiazione con il vecchio movimento, ma il suo nuovo contenuto è tutto da ricostruire.
Tanto sono convinto di conservare il nome socialismo, tanto sono restio a conservare il nome di sinistra. I nomi sono convenzioni, quindi non hanno valore in sé ma per ciò che indicano, tuttavia definirsi “semplicemente di sinistra” senza ulteriori specificazioni comporta sempre il rischio del “gioco di specchi”, poiché esiste una sinistra in quanto esiste una destra, ci si definisce di sinistra in quanto non si è di destra, e viceversa. Al contrario definirsi socialisti e porsi nel solco della storia del movimento operaio definisce con chiarezza la propria posizione politica.
Il socialismo non è un progetto di ingegneria sociale che gli “uomini di buona volontà” devono realizzare, ma dipende dalla capacità di inserirsi nei processi storici e indirizzarli verso determinate direzioni. Evitando però la pretesa di voler governare la storia, obiettivo al di fuori della capacità tanto dei singoli quanto dei gruppi organizzati, seppur in posizione dominante. Le dinamiche sociali essendo il frutto dell’interazione fra gli esseri umani, collocata su una scala che va dalla cooperazione al conflitto, non possono essere mai ridotte alla volontà singola, o anche del singolo gruppo.
Inserirsi nella dinamica storica, cercare di capire i fattori che determinano la trasformazione sociale in questo sicuramente da seguire il metodo marxiano, tuttavia la teoria marxiana della trasformazione sociale si è dimostrata insufficiente, si sono dimostrati errati sia la sola lotta di classe come solo “motore della storia”, sia il concetto secondo cui lo sviluppo della produzione entrerebbe in contraddizione con determinati rapporti produttivi per cui diventa necessario ad un certo punto far saltare l’involucro capitalista per realizzare un’ulteriore sviluppo della produzione, come è esposto in Per la critica dell’economia politica (1859). Inoltre, lo stato e il sistema politico non possono essere visti come meri epifenomeni dei rapporti di produzione, in quanto lo stato è essenziale per organizzare e dare forma a tali rapporti di produzione.
È stato sempre nell’ambito del marxismo che Perry Anderson analizzando storicamente la nascita dello “stato assoluto” ha messo in luce come il conflitto inter-statuale sia stato un potente fattore di trasformazione sociale interno agli stati stessi. Partendo proprio da queste acquisizioni di Anderson, la sociologia storica di Charles Tilly, sulla base dello studio della storia dell’Europa moderna, ha individuato i fattori della concentrazione dei capitali e della concentrazione dei mezzi di coercizione, quali i due principali fattori il cui intreccio determina la dinamica sociale all’interno dello stato moderno. Sono tutte acquisizioni frutto della ricerca storica e dell’analisi sociologia che dovrebbero uscire dall’ambito strettamente accademico in cui sono state elaborate, per giungere al piano dell’elaborazione teorica e politica.
A mio parere, la “sociologia storica” suddetta ha elaborato una teoria più comprensiva della trasformazione sociale che tiene conto non solo della lotta di classe ma anche del conflitto tra gli stati, essa inoltra ha cercato di integrare questi due conflitti in un modello unico. Per fare un esempio: il comportamento delle classi dominanti italiane non lo si comprende se non lo si relaziona al rapporto tra Stati (Usa e Stati europei) che poi da significato al rapporto con i propri dominati, in particolare ad es. tra le classi dominanti italiane ha prevalso un orientamento disposto a svendere le condizioni di vita delle classi popolari e anche l’apparato industriale in favore di un accordo che prevedeva la subordinazione dell’Italia ad un certo euro-atlantismo. Quindi non basta la sola analisi dei rapporti tra dominanti e dominati ma bisogna analizzare anche come determinati dominanti si relazionano ai dominanti di altre nazioni.
La sociologia storica ha sviluppato una teoria che parte dall’analisi della dinamica e dello sviluppo dell’Europa moderna. Questo a mio parere è il metodo giusto: teoria basata sui fatti storici che poi vengono utilizzati elaborare una teoria della trasformazione sociale. E all’interno di queste dinamiche si devono inserire i partiti organizzazioni future che vogliono promuovere le trasformazioni socialiste.
Per quanto riguarda la conflittualità inter-statuale Zhok osserva: “Anche la conflittualità tra stati non è caratteristica specifica del sistema capitalistico, ma assume in esso tratti peculiari. Tra stati la conflittualità storica precapitalistica è legata a istanze di conquista territoriale e assorbimento di altre popolazioni (talvolta come assimilazione talaltra come subordinazione). La conflittualità tra stati nel capitalismo è invece un conflitto tra apparati industriali che si servono delle istituzioni politiche per ottenere vantaggi comparativi sul piano economico, e che vogliono restare in un rapporto di estraneità nei confronti dei ‘vinti’, senza né ‘conquistarli’ né ‘assimilarli’, ma semplicemente sfruttandoli. In questo contesto l’utilizzo delle armi può essere minimizzato, venendo sostituito spesso da sistemi di vincoli legali e finanziari che chiamano in causa la guerra guerreggiata solo in casi limite, creando tuttavia forme crescenti di ostilità reciproca e disprezzo (senza neppure il rispetto riconosciuto alla forza del conquistatore militare).”
Ritengo tali osservazioni particolarmente interessanti, in effetti l’imperialismo capitalistico è un novum, ha avuto una dinamica diversa da quelli dei principali imperi storici, è stato a-territoriale, tendenzialmente senza limiti, e l’obiettivo è stato principalmente quello di sfruttare i territori assoggettati senza includerli, seppure in forma subordinata, all’interno di un’entità statuale unica. Ciò è il globalismo. Tuttavia l’epoca del globalismo oggi è terminata. Come scriveva Marx la storia procede dal “lato cattivo”, l’espansionismo globale europeo ha stravolto il mondo, è stata una delle più imponenti trasformazioni subite dall’umanità nella sua storia, seppur non è stata solo opera dell’Europa o dell’Occidente, per restare solo all’aspetto tecnico, carta e polvere da sparo, non sono state inventate in Europa. In ogni caso, se l’Europa e poi l’Occidente hanno fatto da traino, le altre civiltà terrestri, sembrano oggi sostanzialmente aver raggiunto l’Occidente.
Io credo che il movimento storico del futuro sarà quindi in direzione opposta alla globalizzazione, e il socialismo del futuro andrà pensato in termini opposti rispetto a Marx che lo pensava come un compimento della globalizzazione e lo chiamava comunismo. Per questo affermavo in un mio precedente scritto sul rapporto tra Marx e il globalismo, l’obiettivo del comunismo va decisamente abbandonato, quale utopia globalista nata in determinate condizioni storiche.
Se ci sarà un ordine futuro sarà un ordine multipolare, con la Terra divisa in grandi zone occupate delle civiltà eredi delle grandi civiltà storiche. I rapporti tra queste civiltà si regoleranno nel solito modo, attraverso il conflitto, oggi diventato multiforme (economico, tecnologico, culturale attraverso il soft power, nonché attraverso la lotta sotterranea di “specialisti della violenza”), se il conflitto continuerà come sempre nella storia degli uomini, esso non dovrà mai diventare scontro di civiltà (clash of civilizations). Evitare lo scontro di civiltà sarà l’unico grande compito universale a cui chiamare tutti gli esseri umani, chi agirà contro questo valore universale sarà effettivamente un nemico dell’umanità, per il resto continueranno la competizione per le aree di influenza, la competizione di carattere tecnico, per la diffusione della propria cultura, ecc.
Il socialismo di domani sarà ri-territorializzante rispetto al globalismo, mirerà alla riscoperta delle proprie radici culturali, a radicare di nuovo il singolo all’interno della propria classe di appartenenza, del proprio stato e della propria civiltà di appartenenza. Non significherà chiusura verso le altre culture, ma se vogliamo che ci sia effettivo scambio culturale bisogna che le identità culturali ri-vivano, altrimenti non vi sarà nulla da scambiare.
Per questo saranno indispensabili organizzazioni che includono il singolo nella propria classe sociale e attraverso questa al proprio stato. Una società coesa, priva di masse escluse dalla società sarà un fattore di forza. Gli stati che non sapranno effettuare tali misure, subiranno la disgregazione, e quindi l’assoggettamento e anche inclusione all’interno di altri stati. L’Unione Europea è oggi un tale fattore di disgregazione, poiché l’egemonia tedesca comporta la devastazione economica e sociale degli altri stati europei, ed è da combattere in nome di un’alleanza tra nazioni sovrane.
Andrea Zhok non ha affrontato solo le questioni politiche ed economiche relative ad un “nuovo socialismo”, particolarmente interessante ho trovato il modo in cui accenna alla questione filosofica e religiosa strettamente connessa al “nuovo socialismo”: “Nello stesso ordine di idee, deve essere chiaro che il socialismo non supporta un’ontologia materialista, più di quanto né supporti una idealista; non supporta una visione ateistica, più di quanto né sostenga una teistica.”