Romolo e Remo, ovvero l'importanza sacra del confine
di Diego Fusaro - 20/07/2023
Fonte: Diego Fusaro
Pur con qualche differenza di sfumatura, Tito Livio e Plutarco raccontano la storia fratricida di Romolo e Remo. Il primo, nell'atto di fondazione di Roma, è incaricato di tracciare con l'aratro il solco della nuova città, seguendo il rito etrusco. Degnamente abbigliato per l'evento sacro, Romolo prepara l'aratro con un vomere di bronzo e lo attacca al giogo, unendolo ad un toro all'esterno e ad una vacca all'interno, entrambi completamente bianchi. Tenendo stretto il timone dell'attrezzo inclinato, in modo che la terra scavata sia rivolta verso l'interno, traccia abilmente il solco primigenio in senso antiorario. L'urbs si costruisce sulla base del confine sacro, che ne perimetra lo spazio, distinguendolo dall'altra parte di sé.
Remo, uscito sconfitto dalla disputa augurale, cerca di ostacolare le operazioni beffandosi del fratello: “Finalmente”, racconta Plutarco, “attraversò il fossato, ma cadde, abbattuto proprio in quel punto, secondo alcuni dallo stesso Romolo , secondo altri da un compagno di Romolo di nome Celere. Anche Tito Livio riferisce direttamente le parole pronunciate da Romolo al culmine della sua ira, dopo aver commesso un fratricidio: "D'ora in poi, chiunque osi scavalcare le mie mura così morirà".
Il mito pone, a suo modo, una possibile soluzione ante litteram al dilemma di Antigone formulato da Hegel. Per Romolo non ci sono dubbi: la legge dell'urbs prevale sul vincolo etico familiare, soprattutto quando quest'ultimo viola la giusta misura, invece di rispettarla. Ma, soprattutto, la narrazione mitologica parla della sacralità della frontiera come limite che definisce un'identità – in questo caso l'identità politica e culturale di Roma – delimitandola e differenziandola da ciò che non è. Senza confine non può esserci identità, che è il fondamento stesso dell'esistenza della differenza, che presuppone sempre la pluralità di identità non coincidenti e, quindi, separate l'una dall'altra. A sua volta, senza identità non può esserci nemmeno relazione, che è, per sua essenza, una relazione tra identità con limiti precisi. Questi ultimi segnano la fine dell'uno e l'inizio dell'altro, nonché la possibilità di un nesso relazionale, diverso da quello derivato dall'abuso dell'uno a danno dell'altro che si verifica quando ne perpetra l'invasione.
La civiltà dei mercati senza confini dà luogo a un'invasione permanente che non mira certo a favorire il rapporto tra i diversi, nemmeno sotto forma di dialogo. Ciò, come suggerisce inequivocabilmente la parola greca (διάλογος), implica sempre una distanza e, quindi, una netta soglia che separa i dialoganti, che altro non sono che identità diverse poste in un rapporto di amicizia mediato dal linguaggio. Al contrario, l'invasione del mercato, che è l'imperialismo del neutro indifferenziato, aspira a produrre la soppressione delle differenze e delle identità, così che tutto cada nell'abisso dell'identico e dell'omologato globalmente. A rigor di termini, la stessa globalizzazione potrebbe benissimo essere concepita come la neutralizzazione delle differenze e delle identità, e come il transito dell'intero pianeta verso il neutro globale, senza confini materiali o immateriali, nazionali o identitari. È la vendetta post mortem di Remus e della sua spinta all'invasione, alla neutralizzazione dei limiti che rendono un'identità diversa dall'altra.
In questo senso vale per il nesso esistente tra identità e differenze quanto abbiamo spiegato in altre occasioni in relazione al nesso tra stati nazionali e internazionalismo. Il rapporto amichevole dell'internazionalismo presuppone l'esistenza di Stati nazionali sovrani, liberati dai loro impulsi nazionalisti in senso regressivo: la soppressione degli Stati nazionali sovrani non porta all'internazionalismo, ma allo spazio aperto reificato del globalismo di mercato, che è l'unificazione di il mondo all'insegna dell'economia di mercato, liberato dai limiti della politica sovranista.
Allo stesso modo, è un puro non sequitur pensare di poter favorire il dialogo tra i diversi dissolvendo le identità. Sotto questa premessa sorge solo la monotonia dell'indistinto, che si dà come omologazione consumistica delle identità e, congiuntamente, come trionfo planetario del Pensiero Unico come unico pensiero ammesso. Il diverso che non accetta di disidentificarsi e di omogeneizzarsi con l'altro di sé, viene dichiarato, sic et simpliciter, illegittimo e pericoloso. E come tale viene trattato, viene neutralizzato e rieducato fino all'indifferenziazione. Pertanto, anche in questo caso, non prevale questo dialogo tra i diversi, che presuppone sempre che i diversi siano diversi e che abbiano una loro specifica identità. D'altra parte, la stessa cosa trionfa su scala globale: lo stesso linguaggio, lo stesso pensiero, lo stesso modo di essere e di produrre, di vivere e di relazionarsi con gli altri.
Sul piano delle identità, come nel caso degli Stati-nazione, vale anche l'individuazione di due poli astrattamente opposti e concretamente complementari. Nazionalismo regressivo e globalismo di mercato si realizzano l'uno nell'altro: il nazionalismo regressivo, che ha in sé la spinta ad attaccare l'altro in nome proprio, si realizza nel globalismo. Quest'ultima è la fase finale del nazionalismo, poiché coincide con la sottomissione dell'intero pianeta sotto il dominio dell'unica nazione trionfante, la cui moneta è il dollaro e la cui lingua è l'inglese di Wall Street. Il nazionalismo si compie nel globalismo, che lo presuppone.
Non è diverso il legame che si può stabilire tra l'identitarismo regressivo e il cosmopolitismo antiidentitario. Il primo aspira a negare l'identità dell'altro, e quindi la differenza, attraverso l'universale imposizione del proprio. La seconda coincide con la malefica universalizzazione di un'identità che in realtà non è tale perché non ammette differenza e quindi, come Remus, non rispetta la frontiera che, separandosi dall'altro, definisce ciò che è proprio. L'identitarismo regressivo si compie nel cosmopolitismo antiidentitario, che lo presuppone; e che ha in comune con la prima la negazione del diritto alla differenza, soppresso in nome dell'imperialismo stesso della particolarità.
E questo, come sappiamo, è un altro nome dell'ideologia, che è “astratta volontà dell'universale” e concreto trionfo del particolare. Ma l'universale, nel suo senso autentico, non è mai la parte che si impone come universale, è invece ciò che esiste come universale concreto, che non annulla le particolarità ma si realizza in esse e da esse. Ciò consente di affermare, ancora una volta, che l'identità può esistere solo in presenza della differenza e che, di conseguenza, essa si dà per definizione, declinata al plurale, come nesso tra identità diverse.
Il compito della cultura, che è indubbiamente anche e non secondariamente quello di educare all'identità, può dirsi realizzato con successo solo quando produce rispetto per le differenze e per la conseguente connessione che si genera tra differenza e identità. Niente, insomma, di più siderealmente distante sia dal meschino identitarismo tribale, che nega l'altro in nome di se stesso, sia dal “vuoto finale” del cosmopolitismo anti-identitario, che vende la fantasia di favorire il dialogo tra i diversi negando la loro identità e, quindi, la premessa stessa di ogni dialogo. Cultura è, in senso proprio, educare all'identità e, quindi, all'autocoscienza – ben inteso che ciò è possibile solo se contemporaneamente si educa al riconoscimento della differenza.
Quest'ultima non deve essere interpretata né come una sgradita sopravvivenza dell'estraneo, che deve essere resa identica e quindi neutralizzata, né come una realtà strana, con la quale ogni confronto è impossibile a priori. La differenza chiede, au contraire, di essere pensata spinozianamente, come uno dei diversi attributi dell'unica sostanza, differenziata in se stessa - un attributo che, quindi, non deve essere negato in nome dell'identità indifferenziata, ma valorizzato nel suo essere come una diversa manifestazione della sostanza stessa. Da cui deve derivare allora la necessità di un'educazione alla polifonia e alla differenza, che può essere riconosciuta e apprezzata solo se si possiede una propria identità.
In antitesi alle prospettive dell'identitarismo regressivo e del cosmopolitismo antiidentitario, l'umanità esiste come singola collettività; se si vuole, anche come Unità articolata e come Totalità differenziata, come pluralità di identità e differenze, in cui l'unità del genere umano si esprime in molteplici forme. Amare veramente l'umanità significa, allora, amare le differenze e le identità che la compongono, soprattutto dall'amore per la propria identità culturale, per il proprio popolo, per la propria lingua, per il proprio territorio. Significa rispettare il confine come simbolo di identità e di giusta misura, e quindi come barriera contro l'invasione, contro la disidentificazione e contro l'illimitato.