Scandalo derivati: quel che nessuno ha mai osato chiedere a Ciampi
di Salvatore Recupero - 18/09/2016
Fonte: Il Primato Nazionale
Quella che ci lasciamo alle spalle è stata una settimana piena di eventi. Il quattordici settembre, l’inchiesta sulla gestione dei derivati tra il 2011 e il 2012 arriva ad un punto di svolta: la Morgan Stanley finisce sul banco degli imputati. La procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti ha chiesto ai banchieri americani di comparire insieme a quattro dirigenti del ministero dell’Economia, dopo il danno erariale subito dall’Italia per 4,1 miliardi di euro. Due giorni dopo viene a mancare il presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Per uno strano gioco del destino queste vicende si intrecciano tra di loro. Per capire meglio quanto detto è bene ricostruire, in maniera approfondita, l’inchiesta della Corte dei Conti. Secondo la Procura nei contratti che regolavano questi derivati c’è una clausola capestro che i funzionari del Tesoro non avrebbero dovuto accettare. Il termine tecnico è Ate (Additional termination events). Secondo i pm “Questa postilla, una volta attivata, imponeva alla Stato di chiudere tutta l’esposizione verso quella banca dall’oggi al domani. In particolare, la Morgan Stanley poteva chiedere all’Italia la chiusura di tutte le posizioni debitorie qualora l’esposizione creditizia avesse superato un limite prestabilito”. Per essere chiari è come se la banca che ha concesso un mutuo potesse richiedere l’intera restituzione del debito in sola tranche. Oggi sul banco degli imputati sono finiti quattro dirigenti di via XX Settembre: Maria Cannata, oggi direttore del Debito, il suo predecessore Vincenzo La Via, Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro poi arrivato a Morgan Stanley e Vittorio Grilli, ex dg del Tesoro.
Il punto, però, è un altro. Chi nel 1994 ha sottoscritto quel contratto capestro? Riavvolgiamo il nastro della storia. Correva l’anno 1994, fino a maggio a Palazzo Chigi c’era l’ex governatore di via Nazionale Carlo Azeglio Ciampi, mentre il ministero del Tesoro è guidato da Piero Barucci, banchiere fiorentino. Poi arriva Silvio Berlusconi. Al Tesoro Lamberto Dini, fino all’anno prima direttore generale di Banca d’Italia. L’uomo chiave, però è Mario Draghi (attuale presidente della Bce) che ricopriva il ruolo di direttore generale del Tesoro. Inoltre poi lo stesso Ciampi ritornerà al Tesoro durante il governo Prodi, solo due anni dopo. Possibile che l’economista toscano, il supertecnico non si accorto di ciò che era passato sotto i suoi occhi? Difficile da credere.
La pessima gestione dei derivati è costata all’erario ben ventiquattro miliardi di euro dal 1994 fino al 2012. Questo è quanto ha rilevato circa quattro anni fa l’agenzia giornalistica Bloomberg. È una cifra che per intenderci è pari a due manovre finanziarie. Certo, le colpe non possono ricadere solo su Ciampi ma di certo lui è stato un protagonista di quegli anni. Nella relazione presentata dai pm della Corte dei conti aveva rilevato come i comportamenti del ministero a volte sembravano volti “unicamente e senza un valido motivo, a favorire le banche”. Più chiaro di così. Rimane un mistero, però: perché tanto silenzio su questa storia? La Gabanelli ha parlato di derivati ma la figura del banchiere toscano non è mai stata sfiorata. Se allo scandalo dei derivati aggiungiamo la cessione della nostra sovranità e dell’industria di Stato, proprio non si riesce a capire il processo di beatificazione a reti unificate dell’illustre livornese. Comunque, in fondo, una cosa bisogna ammetterla: Ciampi ha lasciato una grande vuoto. Anzi, una voragine grande come il nostro debito pubblico.