Scene di caccia nel triangolo strategico Usa-Pakistan-Cina
di Alberto Negri - 24/08/2017
Fonte: ilsole24ore
Perché gli Usa minacciano di tagliare gli aiuti al Pakistan? L’accusa a Islamabad di sostenere i jihadisti non è nuova, ma è solo una parte della storia. Eppure per decenni il Pakistan è stato considerato dagli Stati Uniti come il maggiore alleato fuori dalla Nato. «Questo è un pezzo del muro di Berlino caduto nell’89, gli americani me lo hanno inviato con un biglietto: è anche merito suo, generale, se è caduto»: l’ex capo dei servizi pakistani Hamid Gul me lo mostrò durante un’intervista dopo l’11 settembre 2001. Il Pakistan aveva avuto un ruolo centrale nell’organizzare in Afghanistan la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin.
Ma i pakistani furono anche coloro che sostennero l’avanzata su Kabul dei talebani del mullah Omar per aprire un corridoio strategico ed economico tra Pakistan e Asia centrale. L’operazione fu lanciata quando Benazir Bhutto, poi uccisa nel 2007 da un attentato, era premier, dal 1993 al ’96: considerata nell’iconografia la donna che voleva cambiare il Pakistan, nei fatti si adeguava alla Realpolitik di un Paese dove hanno quasi sempre dominato le forze armate che gestiscono, più o meno direttamente, anche il 40-50% dell’economia. Chiusa dall’India, con cui è in un conflitto perenne e inestricabile in Kashmir, Islamabad ha sempre considerato l’Afghanistan una parte irrinunciabile della sua “profondità strategica”.
Per questo il gioco dei pakistani nella guerra al terrorismo e ai jihadisti è sempre stato ambiguo. Bin Laden è stato ucciso ad Abbottabad, il mullah Omar è morto in un ospedale di Karachi. I gruppi radicali sono stati manovrati in funzione anti-indiana nel Kashmir e per tenere un piede dentro l’Afghanistan. Sono tutte cose che gli americani conoscono perfettamente: il Pakistan è vittima del terrorismo ma anche uno degli sponsor dei gruppi islamisti, peraltro generosamente finanziati dall’Arabia Saudita che ha puntato a diffondere nel mondo musulmano la sua versione wahabita dell’Islam.
Ma oggi quello che rende ancora più acuta la tensione tra Washington e Islamabad è la presenza cinese. La Cina ha investito 50 miliardi di dollari nel progetto di corridoio sino-pakistano che ha il suo terminale nel porto di Gwadar, un crocevia tra Medio Oriente, Sud-Est asiatico e Asia centrale in grado di garantire un percorso più breve ai rifornimenti energetici cinesi. Oltre 15 mila soldati pakistani sono schierati per proteggere i cantieri cinesi dagli attentati.
Il Pakistan rappresenta un partner strategico fondamentale per la Cina, che negli ultimi anni ha aumentato il proprio coinvolgimento nel Paese nonostante il peggioramento dello scenario di sicurezza pakistano.
Più gli interessi nazionali si proiettano oltre i confini cinesi, più diventa difficile mantenere la rigida aderenza al principio di non interferenza per Pechino, che ha iniziato a mostrare verso questa dottrina un approccio sempre più pragmatico. L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua difesa dell’economia statunitense sotto il motto “America First” non ha fatto altro che aggiungere tensioni.
Nei progetti infrastrutturali della Nuova Via della Seta la Cina si è impegnata a iniettare 900 miliardi di dollari: un rischio finanziario ma anche geopolitico perché molti di questi piani riguardano aree da alta instabilità e incidono su equilibri strategici apparentemente consolidati.
Qual è la posta in gioco? Ci sono tre potenze nucleari, Cina, India e Pakistan più una quarta, gli Usa insediati in Afghanistan che si disputano con la Russia l’influenza tra Asia orientale e centrale e Subcontinente indiano attraverso le vie commerciali, energetiche e marittime.
Gli americani non vinceranno mai la guerra afghana, così come mai nessuna potenza l’ha vinta prima di loro. Ma la vittoria ha un valore assai relativo: l’importante per Washington è continuare a restare in Afghanistan. Se i pakistani possono destabilizzare Kabul con gli attentati dei talebani o della rete Haqqani, gli americani possono fare lo stesso nei confronti di Islamabad e tenere una pistola puntata contro gli investimenti cinesi nel corridoio del Pakistan. È lo stesso metodo che ha usato Pechino sostenendo il regime della Corea del Nord in East Asia.
Così vanno le cose tra le potenze che manovrano gli attori locali: qualcuno di questi ogni tanto va fuori controllo, abbatte come Bin Laden le Due Torri a New York oppure ispira ai jihadisti gli attentati nelle città europee o come l’ineffabile Kim Jong-un minaccia una guerra nucleare. Ma sono “danni collaterali”: la partita strategica è un’altra, il predominio globale.