Se anche “Via col vento” diventa arma di scontro sociale, gli USA sono disperati. E molto pericolosi
di Mauro Bottarelli - 29/08/2017
Fonte: Rischio Calcolato
Di quanto sta succedendo nelle strade dell’America profonda riceviamo soltanto echi. Occorrono la grande mobilitazione, gli schieramenti contrapposti, la violenza, il morto, affinché la strisciante guerra civile americana arrivi sui nostri schermi e venga impressa sulle pagine dei nostri quotidiani. Il problema è che nella vita reale, i sintomi di una malattia che sta traducendosi nel classico incidente in attesa di accadere, aumentano esponenzialmente. Sia di numero che di gravità. Questo che vedete nella foto
è il mitico Orpheum Theatre di Memphis, un vero monumento della cultura statunitense. Bene, nella rassegna estiva del 2018 non ci sarà più in programmazione “Via col vento”, il capolavoro del 1939 basato sul libro di Margaret Mitchell: sapete perché? A detta della direzione artistica del teatro, “il film non è sensibile a livello di tematiche razziali”. Ma, si è affrettato a sottolineare Brett Batterson, presidente dell’Orpheum Theatre Group, “la decisione è stata presa prima dei fatti di Charlottesville”. Come dire, eravamo coglioni anche prima di quanto accaduto in Virginia. E sapete da cosa è stata motivata la decisione? I commenti sui social media, stranamente divenuti veementi contro il film proprio quest’anno: detto fatto, l’anno prossimo – per la prima volta dopo 34 anni di fila – “Via col vento” non sarà in programmazione all’interno della “Summer Movie Series”, rassegna estiva dedicata ai capolavori immortali e ai grandi classici della filmografia statunitense. Grazie al cielo, questo tweet
ci mostra come i cervelli non siano andati completamente in pappa in Tennessee ma rimane il fatto, inquietante, del comitato artistico di uno dei principali teatri d’America che si piega, nelle sue deliberazioni, ai deliri social dei gruppi cosiddetti Antifa e anti-razzisti. Siamo alla mutazione genetica: il buonismo, superata la sua “fase evolutiva” attraverso il politicamente corretto, adesso opera attraverso minaccia e violenza per diventare soggetto sociale oligarchico.
Per carità, ai tempi dello streaming, di Netflix e dei dvd non si può parlare di censura verso il film ma è un dato di fatto simbolico: nell’America della calda estate 2017, basta un gruppo di fanatici per tramutare un classico della filmografia mondiale in un pericoloso film di istigazione razziale, in qualcosa da bandire come le statue del generale Lee. L’America liberal sta impazzendo. Quanto mancherà al fatto che un manipolo di fanatici chieda la distruzione di “Happy days”, perché nella Milwaukee degli anni ’50 c’erano pochi protagonisti neri? E quanto manca alla censura in radio delle canzoni, magari “Born in the USA” di Bruce Springsteen, dove compare il verso “to go and kill the yellow man”?
Il virus liberal è andato fuori controllo, l’antrace del politically correct è sfuggita al dosaggio dell’esperimento e ora vede scene come quelle registrate ieri al campus di Berkeley, storica università californiana e simbolo della contestazione contro la guerra in Vietnam e per i diritti civili, divenuta di colpo roccaforte di black bloc che impongono la loro legge “del bene contro il male” a colpi di bastoni, pietre, molotov e volti travisati. Con il beneplacito di tutta l’intellighenzia del Paese e con somma gioia del complesso bellico-industriale, il quale da un clima di guerra civile ormai nemmeno più latente ha tutto da guadagnare, FEMA in testa. O, quantomeno, a livello di preparazione psicologica della gente. Perché qualcosa sta per succedere. Succederà a breve.
Questo grafico
ci mostra l’andamento storico dei tassi di approvazione dei vari presidenti americani, dal minimo di Truman al massimo di George W. Bush, fino all’attuale livello di Donald Trump: Truman detiene, almeno per ora, ancora adesso il minimo record, 22% toccato nel 2499mo giorno alla Casa Bianca, mentre Bush è ancora ancora al suo 89% nel 267mo giorno di presidenza, massimo record. Donald Trump, nel suo 212mo giorno a Pennsylvania Avenue, è al 37% di supporto. Ma guardate l’andamento del grafico: sarà solo statistica ma un picco all’insù ora è atteso. E che picco. Il tycoon newyorchese è agli sgoccioli, per via giudiziaria con il Russiagate e l’impeachment o per via politica per la crisi sul tetto di debito e la conseguente reazione negativa di Wall Street? Oppure Donald Trump cambierà registro e diventerà il cavallo di razza del Deep State, guadagnandosi sul campo i galloni di campione del warfare?
Di certo, l’America sta bruciando dall’interno e intende esportare quel fuoco. Stamattina il test nucleare nordcoreano che ha sorvolato con un missile balistico il Giappone ha spaventato davvero i mercati, spedendo il cross euro/dollaro sopra 1,20, un livello psicologico importante: l’export USA gode. Il complesso bellico-industriale, più di tutti. Le carte coperte di Mario Draghi a Jackson Hole avevano evitato la rottura di quel cross, ci ha pensato PyongYang a mettere nei guai la BCE in vista del board di settembre, dove una parola chiara sul tapering del QE, a questo punto, dovrà essere espressa. Ci sono molti modi di esportare disordine, gli USA stanno mettendoli in campo – uno dopo l’altro, scientificamente – tutti.
E attenzione, perché da ieri – stranamente – i media italiani più attenti alle esigenze geopolitiche USA hanno cominciato la loro campagna di terrorismo mediatico rispetto alle esercitazioni militari russe denominate Zapad 2017 che cominceranno a metà settembre: “Prove generali di avanzata?”, si chiedeva retoricamente il “Corriere”, incurante del ridicolo e inebriato dallo spirito del Russiagate. Qualcuno è pronto a sacrificare vite NATO in nome di un bene superiore, ovvero la sopravvivenza dell’Impero? Possono sembrare un’immagine e una prospettiva apocalittiche ma non lo sono, se in ballo c’è – ad esempio – una quisquiglia come il mantenimento del dollaro come valuta benchmark a livello globale, status che proprio Russia e Cina stanno minando, accordo commerciale dopo accordo. Questo grafico,
poi, ci mostra il costo ad oggi della campagna afghana degli USA, oltre 1 trilione di dollari. Campagna che, come tutti sanno, ora sta per vivere una nuova stagione, forte di altri 5mila uomini che andranno a dare man forte ai circa 8500 già boots on the ground nel Paese. Stranamente, da un paio di settimane gli attentati a Kabul stanno crescendo esponenzialmente. Così come la dipendenza da oppiacei degli americani, veri e propri zombie. Già, perché socialmente gli Stati Uniti stanno polarizzandosi sempre di più: contestatori in piazza in nome dell’antirazzismo iconoclasta o chiusi in casa, strafatti di anti-dolorifici e psicofarmaci, rassegnati al loro destino di nuovi proletari. La situazione perfetta, il caos prodromico all’arrivo dell’uomo della Provvidenza, come ci mostrava il grafico della Gallup riguardo al supporto presidenziale.
L’Impero, troppo presto dato per morto, quasi certamente è pronto alla zampata, al colpo di coda. Lui o chi per lui, nella più classica delle azioni proxy. Nessun telegiornale o sito, infatti, ha ripreso con abbastanza enfasi quanto pubblicato ieri da “La Stampa”, l’house organ italiano del Dipartimento di Stato. Ovvero, la minaccia di Israele: se l’Iran si espanderà troppo in Siria, Tel Aviv colpirà il palazzo presidenziale di Assad. Pantomima? Probabile, visto che Putin e Netanyahu si sono incontrati a Sochi non più tardi della scorsa settimana ma, proprio per questo, un segnale chiaro che qualcosa sta attendendo di accadere. E gli scenari aperti sono tanti, troppi. Gli USA sono pronti alla riscossa, alla mossa che spiazza. Sottovalutarli, visto l’ottimo lavoro di destabilizzazione interna che stanno compiendo, sarebbe un errore fatale.