Se gli Usa sostengono i jihadisti per fermare l’ascesa della Russia
di Giovanni Giacalone - 30/08/2017
Fonte: Gli occhi della guerra
La deriva radicale di matrice islamista transnazionale iniziata negli anni ’80 vedrà il susseguirsi di una serie di aperture e chiusure di fronti tra loro collegate e con dei chiari comun denominatori: il medesimo filone islamista riciclato in salse diverse, la medesima regia e strategia, il medesimo nemico slavofono/russo e i suoi alleati.
Vale la pena ricordare quanto dichiarato nel lontano 1999 da Alexander Zinoviev, scrittore e dissidente sovietico espulso dall’Urss: “La caduta del comunismo è stata trasformata nella caduta della Russia, una catastrofe deliberatamente pianificata dall’Occidente. Dico questo perché un tempo io stesso ero parte di piani che, dietro il pretesto di combattere un’ideologia, preparavano in realtà la morte della Russia…” (Le Figaro, 24 luglio 1999). In poche parole, qual miglior proxy dell’estremismo islamista per contrastare il nemico russo senza dover utilizzare truppe sul campo? Ma andiamo con ordine.
Il 6 dicembre 1993 il quotidiano The Independent pubblicava un pezzo firmato dal noto giornalista Robert Fisk dal titolo “Guerriero anti-sovietico mette il proprio esercito sulla strada della pace: il businessman saudita che reclutava mujahideen ora li utilizza per progetti di costruzione su vasta scala in Sudan. Robert Fisk l’ha incontrato ad Almatig”.
Ebbene sì, trattavasi di Osama Bin Laden, quello che sarebbe poi diventato “lo sceicco del terrore”, il nemico numero uno di Washington, il simbolo assoluto del male.
Un’intervista nel quale Bin Laden appare come benefattore/guerriero coraggioso e altruista che dopo aver combattuto e inviato migliaia di volontari jihadisti (egiziani, algerini, libanesi, kuwaitiani, turchi, tunisini) in Afghanistan, finita la guerra è ritornato alla sua attività di costruttore.
Nell’intervista Bin Laden dichiara di essersi unito alla jihad afghana perché arrabbiato per l’invasione sovietica, aggiungendo poi che né lui e neanche i suoi “confratelli” avevano prove di un coinvolgimento americano nella guerra afghano-sovietica.
Evidentemente Osama Bin Laden non era al corrente dell’oramai ben nota “Operazione Ciclone”, programma di armamento dei mujahideen afghani durante il conflitto afghano-sovietico. Un’operazione durata ben dieci anni (dal 1979 al 1989), tra le più lunghe e costose mai operate dalla Cia, con un fondo iniziale di $20–30 milioni di dollari all’anno nel 1980 fino a raggiungere i 630 milioni all’anno nel 1987.
Chissà, forse Bin Laden non era al corrente nemmeno dell’esistenza dell’al-Kifah Refugee Center di Brooklyn a New York, costituito nel 1986 come ramo della Maktab al-Khidamat (Mak), quest’ultima però fondata nel 1984 proprio da Osama Bin Laden e dal suo “maestro” Abdullah Azzam per raccogliere fondi e reclutare mujahideen.
Precursore di al-Qaeda, il Mak, ebbe un ruolo fondamentale nel creare la rete di raccolta fondi e di reclutamento che sostenne poi i qaedisti dagli anni ’90 in poi.
Nel 1993 il centro “al-Kifah” di Brooklyn veniva chiuso per sospetta complicità nell’attentato al World Trade Center del febbraio 1993. Tra gli accusati per l’attacco spiccava il nome di Omar Abdel Rahman, meglio noto come lo “sceicco cieco”, ex mujahideen in Afghanistan, leader spirituale della Gamaa al-Islamiyya egiziana.
Lo “sceicco cieco” riusciva a entrare negli Usa con un visto turistico rilasciato dall’ambasciata statunitense di Khartoum nonostante che fosse nella lista nera (terror list watch) del Dipartimento di Stato Usa.
Tornando al centro “al-Kifah”, nonostante la chiusura a Brooklyn, il gruppo rimaneva curiosamente attivo a Zagabria, con un ufficio aperto nel 1991, ben dopo la fine del conflitto afghano. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra di Bosnia.
Bosnia e Kosovo: stesso nemico, stesso obiettivo
Nel marzo del 1992 scoppiava la guerra in Bosnia, un sanguinoso conflitto caratterizzato da agghiaccianti atrocità commesse da tutte le parti in lotta, che avrebbe visto fronteggiarsi prevalentemente fazioni serbe di religione ortodossa contro i bosniaci musulmani e con un coinvolgimento anche della parte croata.
Se il conflitto inizialmente era legato a motivazioni etnico-nazionali, con odi ancestrali latenti, limitati e soffocati per decenni dal regime titino, poco dopo il conflitto avrebbe assunto sempre di più caratteristiche di stampo religioso.
Non solo, ma c’era un aspetto troppo spesso dimenticato e cioè il fatto che la Serbia, slava e ortodossa, veniva vista come la “lunga mano di Mosca” nei Balcani, in contrapposizione a Croazia e Slovenia che da subito avevano guardato a Ovest. In mezzo c’era la Bosnia, regione musulmana ma composta da musulmani moderati, con una visione della religione più etno-nazionale, con una spinta sufi e decisamente non belligerante. Un contesto non esattamente dei migliori per combattere i serbi, meglio armati anche a causa del fatto che Belgrado era in possesso della stragrande maggioranza dell’arsenale bellico dell’ex Repubblica Socialista di Jugoslavia.
Servivano degli input, uno politico e l’altro militare e se il primo sarebbe giunto grazie all’ex presidente bosniaco Alija Izetbegovic, legato ai Fratelli Musulmani e da sempre pronto a far entrare in Bosnia tagliagole arabi, il secondo vedeva in primis il coinvolgimento di jihadisti arabi, non a caso ex mujahideen della lotta afghana anti-sovietica che confluivano in Bosnia per dar vita all’unità “el-Mudzahid”, con base a Zenica. Una milizia di tagliagole resisi autori di crimini non soltanto contro i serbi ma anche contro quei bosniaci che non condividevano ideologia e metodi.
Vienna, Zagabria e Milano (tramite il Centro Culturale Islamico guidato dall’allora imam Anwar Shaban) diventeranno i punti di riferimento per il rifornimento del jihad in Bosnia e nel Paese balcanico passeranno elementi di spicco di al-Qaeda.
Osama Bin Laden veniva avvistato nella sala d’attesa dell’ufficio di Alija Izetbegovic niente meno che da Renate Flottau, corrispondente per i Balcani del quotidiano Der Spigel. Ayman al-Zawahiri veniva segnalato in Bosnia, nella zona di Maglaj, già nel 1992 per poi dirigere le operazioni da Khartoum servendosi di Ong di copertura, come illustrato sia da John Schindler che dall’intelligence egiziana. Il fratello di al-Zawahiri, Muhammad, negli anni ’90 aveva lavorato presso la International Islamic Relief Organization in Albania, Croazia e Bosnia. Tra i jihadisti attivi in Bosnia figuravano anche Khalid Sheikh Muhammad, “principale architetto degli attacchi dell’11 settembre”, secondo la relativa Commissione d’Inchiesta; Kemal Mustafa Kemal “Abu Hamza”, ex imam della moschea radicale di Finnsbury Park a Londra.
Lo stesso Anwar Shaban si recava in Bosnia per sfuggire all’arresto delle autorità italiane e moriva in un agguato dell’Hvo croato il 14 dicembre 1995, pochi giorni dopo la firma degli accordi di Dayton che ponevano fine al conflitto.
La guerra in Kosovo
Come illustra Germana Leoni von Dohnanyi, nel saggio Some call it peace, Yossef Bodansky rivelava che il conflitto in Kosovo non era altro che la diretta emanazione di quello in Bosnia nonché un piano concepito dal governo di Sarajevo e dai suoi alleati per lanciare una rivolta armata contro la Serbia, iniziato nel 1995 col dispiegamento di veterani albanesi e “mujahideen”.
Tra questi veterani albanesi pare vi fossero anche membri della guardia pretoriana che proteggeva il presidente bosniaco Alija Izetbegovic, formata da circa tremila uomini e denominata “Divisione Handzar”, un sinistro richiamo a vecchie e tristemente note formazioni locali della Seconda Guerra Mondiale.
Assieme agli “indipendentisti nazionalisti” dell’UCK veniva segnalata la presenza di mujahideen arabi veterani di Bosnia (sauditi, afghani, pakistani, bosniaci, macedoni, ceceni, yemeniti) e persino dei contractors legati alla Military Professional Resources Inc. con sede in Virginia.
L’ex ambasciatore in Jugoslavia, James Bisset affermava: “Già nel 1998 la Cia assisteva le britanniche Sas nell’armare e addestrare in Albania i membri dell’Uck allo scopo di fomentare una ribellione in Kosovo” (Leoni Von Dohnanyi, p.97. Bisset, We Create a Monster, Toronto Star, 31-07-2001). E ancora: “Molti membri dell’Uck sono stati spediti in Afghanistan per essere addestrati nei campi terroristi”. (Leoni Von Dohanyi ibid).
Altro elemento di interesse, l’Uck figurava nella lista nera delle organizzazioni terroriste del Dipartimento di Stato americano, ma come per miracolo venivano improvvisamente promossi in “freedom fighters” e a quel punto si trasformavano in un legittimo alleato in chiave anti-serba e quindi anti-Mosca. Un “miracolo” che avremmo visto ripetersi anche in Siria con la formazione qaedista “Jabhat al-Nusra” in chiave anti-Assad e quindi anti-russa.
Il susseguirsi del conflitto è ben noto e gli abitanti di Belgrado lo ricordano molto bene, tanto che ancora oggi nella capitale serba sono visibili i segni dell’aggressione Nato. Non dimentichiamo inoltre della segnalazione, durante il breve conflitto macedone nel 2001, di un’unità di jihadisti arabi nota come “unità Imran Elezi”, composta da circa un centinaio di uomini e attiva nelle zone di Kumanovo, Tetovo e Skopje.
Il conflitto siriano
Inizialmente la guerra civile siriana scoppiata nel 2011 era apparsa a molti come un fattore endogeno ma ben presto i fatti avrebbero mostrato ben altre dinamiche. Alleato storico di Mosca e pezzo essenziale di quell’”asse sciita” che collega l’Iran al Libano, la Siria era target primario per la destabilizzazione del nemico storico dell’Occidente, a prescindere che si chiamasse Russia o Unione Sovietica.
Presto ci si sarebbe resi conto che in Siria confluivano gli interessi di tutti: sauditi e qatarioti in chiave anti-sciita; israeliani in chiave anti-Hizbullah/Iran; turchi in chiave anti-Assad e anti-curda e ovviamente della Nato e di Washington in chiave anti russa.
I jihadisti dal canto loro vedevano nella destabilizzazione dei territori siriani ed iracheni una ghiotta occasione per dar vita a uno Stato islamico utilizzando le formazioni jihadiste irachene formatesi dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein.
Vi è però un aspetto che spesso sfugge all’attenzione dei media e cioè il fatto che una delle formazioni jihadiste più pericolose e composta da reduci di conflitti recenti era formata proprio da elementi provenienti dai Balcani, jihadisti kosovari, albanesi e bosniaci.
Il Kosovo risulta essere il Paese con il più alto numero di jihadisti partiti dai Balcani, 319 secondo le ultime stime ma c’è chi ipotizza 340, di cui circa 150 rientrati in patria ed anche quello che avrebbe fornito il maggior numero di foreign fighters in rapporto alla popolazione. Sarebbe interessante conoscere il background di questi volontari kosovari e in particolare se hanno o meno preso in qualche modo parte ai conflitti balcanici tra il 92 e inizio 2000.
Figura di riferimento del jihadismo balcanico e kosovaro in Siria è Lavdrim Muhaxheri, noto anche come ”il macellaio” e a capo delle milizie balcaniche dell’Isis, presumibilmente ucciso lo scorso giugno.
Strano personaggio Muhaxheri: plausibili legami con l’Uck, fino al 2010 aveva lavorato per la Kfor a Camp Bondsteel, nella città kosovara di Ferzaj; in seguito veniva promosso e trasferito in un campo della Nato in Afghanistan dove restava per due anni e dove improvvisamente si radicalizzava.
Interessante la testimonianza di alcuni suoi amici e familiari che affermavano come Lavdrim non era mai stato particolarmente religioso prima di rientrare dall’Afghanistan.
Nel 2012 Muhaxheri rientrava in Kosovo dove fondava un’associazione islamica a Kacanik per poi andare a combattere in Siria con i jihadisti e veniva segnalato prima con Jabhat al-Nusra e poi con l’Isis.
Nel contempo dal Kosovo giungevano segnalazioni inquietanti su “campi di addestramento” come il “Kampet e Zeza”, segnalato da alcuni media albanesi, o come quello individuato nel 2012 sulle montagne nei pressi di Rastelica, entrambi definiti dalle autorità kosovare come “campeggi islamici” dove non sarebbero state trovate armi.
In un’intervista di giugno 2016 il sindaco di Kaçanik, Besim Ilazi, denunciava la presenza, nelle boscaglie appena fuori della cittadina, di luoghi di ritrovo dei jihadisti, con tanto di guardie armate che precludono l’accesso ai non autorizzati.
Lunga è inoltre la lista di predicatori jihadisti kosovari radicali come Mazllam Mazllami, Shukri Aliu, Rexhep Memishi, Zeqirja Qazimi, Shefqet Krasniqi, e Ridvan Haqifi.
Mosca e Damasco sconfiggono l’Isis. E adesso?
Con l’intervento militare russo in Siria e il passaggio della Turchia sotto l’asse Mosca-Damasco l’esito del conflitto è rapidamente e drasticamente mutato.
I russi sono infatti riusciti in pochi mesi a raggiungere quell’obiettivo che la “Coalizione” guidata da Washington non è riuscita a conseguire in anni di operazioni e cioè quello di distruggere l’Isis, il cosiddetto “Stato islamico”.
Il cambio di linea di Ankara è risultato fondamentale in quanto la Turchia, se prima svolgeva un ruolo di primo piano nel far transitare jihadisti e armamenti ai jihadisti anti-Assad (che si trattasse di gruppi qaedisti o Isis, tutto ampiamente documentato), l’allineamento con Mosca ha di fatto soffocato i rifornimenti ai jihadisti e l’offensiva russa e curda ha fatto il resto.
A questo punto però è fondamentale porsi una domanda, dove confluiranno i jihadisti utilizzati nel conflitto siriano e iracheno? Si aprirà un nuovo fronte? Dove? Probabilmente non bisognerà attendere molto per rendersene conto.