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Sei “sì” per una “giustizia giusta”

di Stefano De Rosa - 18/07/2021

Sei “sì” per una “giustizia giusta”

Fonte: Italicum

La sfida referendaria aperta da Partito Radicale e Lega è un’occasione imperdibile per ricondurre un distorto potere giudiziario nell’alveo costituzionale e per rimuovere sacche di consociativismo eversivo. Dal 2 luglio firmiamo i quesiti per poi, nel 2022, correre alle urne per saldare azione politica e volontà popolare e porre termine a trent’anni di follia giacobina
Il Settecento illuminista, con alcune delle sue massime espressioni, almeno nominalmente, irrompe nelle cronache italiane della tarda primavera 2021. Da una parte, le utopie di Rousseau vengono espunte – se non dai libri di storia e di filosofia – almeno dalla politica politicienne: il divorzio dell’omonima associazione dal M5S contribuisce a rendere meno opaca una delle più inquietanti vicende che ha gravemente screditato il quadro sociale e parlamentare dell’ultimo decennio e a porre fine a quello sconcertante finanziamento obbligatorio a favore di un’associazione privata imposto ogni mese – vero e proprio taglieggiamento – ai parlamentari pentastellati e pagato indirettamente dal contribuente italiano.
Dall’altra, gli insegnamenti di Montesquieu che, grazie ai sei referendum sulla giustizia depositati unitariamente in Cassazione lo scorso 3 giugno da Partito Radicale e Lega, possono sperare di vedere difesa quella separazione delle funzioni essenziali dello Stato (esecutiva, legislativa e giudiziaria) tratteggiata nell’Esprit des lois, ma da trent’anni calpestata dall’aggressione della Magistratura militante e dallo speculare arretramento di una politica incapace di fronteggiarla. È su questa iniziativa di democrazia diretta prevista dall’art. 75 della Costituzione – da non confondere con la moderna degenerata accezione rousseauiana – che intendiamo prendere le mosse per le nostre riflessioni. Ma un passo indietro è necessario.

IL “SISTEMA” PALAMARA
Ad inizio anno, il caso editoriale è stato rappresentato dall’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, intitolato “Il Sistema”. Nel libro, l’ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm getta luce sulle ombre dei meccanismi segreti che sovrintendono al mercato delle nomine e alle negoziazioni delle carriere dei magistrati. Così come sulle alchimie e sugli intrighi nei palazzi del potere giudiziario italiano posti in essere per promuovere inchieste o insabbiarne altre, pilotare accanimenti investigativi, processi, sentenze di assoluzione o di condanna e per compiacere un certo modo di gestire la giustizia a senso unico (quello – per dirla con Palamara – dell’egemonia culturale della sinistra giudiziaria) distorcendone, attraverso lo strapotere correntizio del sindacato delle toghe, equilibrio ed imparzialità.
L’installazione nel maggio del 2019 di un virus informatico, il cosiddetto trojan, da parte della Procura di Perugia nel cellulare dell’ex zar delle nomine, nell’ambito di un’indagine avviata su di lui nel dicembre 2017, fa emergere il “sistema” che regola il funzionamento e le connessioni tra Magistratura e politica. Un “metodo” – fatto di relazioni, frequentazioni, promozioni, trasferimenti, siluramenti – del quale Palamara per una dozzina di anni è stato l’indiscusso riconosciuto regista e che relegava le audizioni del Csm a semplici pro forma.
Salvo poi, una volta rese pubbliche le intercettazioni di mail, chat e colloqui telefonici compromettenti, ritrovarsi solo, disconosciuto da tutti, soprattutto – ovviamente – dai suoi numerosi ed autorevoli beneficiati. Unico ed utile capro espiatorio, modello Craxi. Perché al “sistema”, dal di dentro, non ci si può opporre. Un libro che non determina il grave discredito del quale oggi soffre la Magistratura; ma che contribuisce almeno a spiegarlo e giustificarlo, e a far prendere coscienza ai lettori e all’opinione pubblica dell’allontanamento dal modello orizzontale, diffuso dell’ordine giudiziario tratteggiato in Costituzione e dell’approdo a quello verticale, gerarchico, centralizzato (e forse eversivo) del quale l’ufficio del pubblico ministero rappresenta la pericolosa sintesi.
Un sistema, dunque, distorto basato sul potere asimmetrico delle Procure, unico caso al mondo di ufficio privo di responsabilità, in cui il pm (peraltro capo della polizia giudiziaria) gode di indipendenza, autonomia ed inamovibilità, ma finisce per non rispondere a nessuno del suo operato. Non ha responsabilità, ma ha un enorme potere. “Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e con i colori della giustizia”. Con tale significativa citazione di Montesquieu si chiude il clamoroso caso editoriale che ha aperto questo 2021.
Non deve stupire, allora, che l’8 giugno scorso la Procura generale della Cassazione abbia chiesto al Csm la conferma della radiazione di Luca Palamara dalla Magistratura. Un processo per connivenze con la politica concluso nell’ottobre 2020 a tempo di record (si parlò di “turbo-processo”), con sentenza di condanna “già scritta” e votazione “bulgara”, nel quale – sia detto per inciso – non furono ammessi 133 testi indicati dall’autore del “Sistema”. Testimonianze che, se rilasciate, avrebbero determinato la cacciata di molti giudici e soprattutto pm nominati e promossi in tutti i gangli delle strutture giudiziarie con un metodo superficialmente denominato dal giornalismo collaborazionista al servizio delle Procure “metodo-Palamara”.

UNA POLITICA SOTTO RICATTO
Il clima che ha incrinato irreversibilmente il rapporto fiduciario tra Magistratura ed opinione pubblica è stato esasperato dalle vicende tratteggiate nel libro; tuttavia l’incontrollabilità del potere giudiziario risale semmai al funesto triennio 1992-94, l’era di “mani pulite”, e al frutto politico più velenoso che quell’epoca lasciò in eredità: la legge costituzionale n. 3/1993 che abrogò l’istituto dell’improcedibilità contro i parlamentari, senza la previa autorizzazione a procedere. La nuova formulazione dell’art. 68 della Costituzione fu l’atto di sottomissione di una politica fragile che in quell’inferno giustizialista non ebbe la forza di opporsi allo strapotere giudiziario e che con quella norma sottoscrisse la sua abdicazione alla piena sovranità. Da allora i rapporti di forza non hanno fatto che sbilanciarsi ulteriormente.
Difficile, quindi, pensare che le storture all’interno della Magistratura e dei suoi organi di vertice possano essere corrette da una autoriforma o da un intervento del Parlamento. Ancor meno ipotizzabile che improbabili risoluzioni di un potere politico impotente (dal 2018, per giunta, in larga parte succube del fascino delle toghe) o di quello giudiziario possano produrre benefici al popolo. Tuttavia la Magistratura vive, come detto, periodi di sbandamento e di crisi di fiducia. Ne costituiscono significativi esempi alcuni recenti echi delle cronache come la recente diffusione dei verbali secretati dell’interrogatorio dell’avvocato Amara sulla presunta loggia “Ungheria”; o il persistente strapotere esercitato dalle correnti nell’Anm.
O, ancora, la clamorosa richiesta di informazioni inoltrata dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo al governo italiano sulle modalità con le quali la Cassazione nel 2013 condannò Berlusconi, sul relativo godimento di un equo processo e sull’imparzialità del giudice che l’ha condannato. Lecito per la CEDU è il sospetto che i giudici non sarebbero stati imparziali, non avrebbero applicato la legge, ma avrebbero espresso il giudizio basandosi sulle loro convinzioni politiche essendo – come sostenuto dallo stesso Palamara – condizionati da certi ambienti della Magistratura associata a fini di favore politico.
L’unica concreta e credibile riforma della giustizia può allora giungere, sebbene circoscritta ad alcuni particolari aspetti ordinamentali, attraverso l’altra modalità legislativa prevista dal Costituente, lo strumento referendario. Proprio in un momento, dunque, nel quale il tessuto delle toghe inizia a palesare qualche scucitura è politicamente propizio ed opportuno sollevare il velo della credibilità e del prestigio di un sistema giudiziario corroso. E farlo tramite una poderosa campagna di informazione su temi specifici e di sensibilizzazione delle coscienze durante i tre mesi estivi – dal 2 luglio al 30 settembre – di raccolta delle firme sui sei quesiti referendari che i rappresentanti di Lega e Partito Radicale hanno meritoriamente depositato in Cassazione. Questi, in sintesi, i relativi contenuti.

I SEI QUESITI
Il primo riguarda le elezioni del Csm e lo strapotere dell’associazionismo. Per tagliare le unghie alle degenerazioni correntizie è necessario modificare i criteri per l’elezione dei magistrati a Palazzo de’ Marescialli. Le regole vigenti prevedono, per chi voglia candidarsi, la raccolta di un numero di firme tra le 25 e le 50; un obiettivo facilmente conseguibile soltanto con l’appoggio determinante di una corrente. Il quesito referendario vuole abrogare il vincolo delle firme e così colpire la patologia correntizia.
Il secondo attiene alla responsabilità diretta dei magistrati. Il successo del quesito permetterebbe al cittadino leso da una sentenza errata di chiamare in giudizio direttamente il magistrato e così, dopo trentacinque anni, riparare alla beffa del cosiddetto “referendum-Tortora” sostenuto e vinto nel novembre 1987 con l’80,21% di Sì (e il 65,11% dei votanti), ma aggirato da una successiva legge (la n. 117/1988, o legge Vassalli) la quale sotto forti pressioni della Magistratura al Parlamento delegittimò il voto popolare prevedendo la responsabilità diretta dello Stato e solo quella indiretta del magistrato.
Il terzo si occupa della equa valutazione dei magistrati. Nel Consiglio direttivo della Cassazione e nei Consigli giudiziari (i piccoli Csm nei distretti), dove si valuta la professionalità delle toghe, oggi non possono prendere parte avvocati e professori universitari; l’intento del referendum è quello di prevederne invece la partecipazione. Una riforma che consentirebbe di esprimere una valutazione di professionalità e qualità anche in relazione all’esito e alla tenuta dei processi nei gradi successivi. Il numero esorbitante di innocenti in galera, il numero di procedimenti che si chiude perché “il fatto non sussiste” e la contestuale percentuale, pari a circa il 99%, di valutazioni positive conferite alle toghe dimostrano che la matematica mal si coniuga alla meritocrazia e alla trasparenza, ma spesso all’appartenenza alla lobby correntizia più attrezzata.
Il quarto, cruciale, riguarda la separazione delle carriere tra giudici e pm e l’instaurazione di due distinti Csm, uno per la funzione giudicante, l’altro per quella requirente. Qui ad entrare in gioco è addirittura la terzietà del giudice, così come sancita dal principio costituzionale dell’equo processo (art. 111). Intercettazioni, sequestri, misure cautelari, rinvii a giudizio sono provvedimenti disposti dai pm, ma chi li convalida è un giudice. Il libro-confessione di Palamara ha chiarito che le Procure hanno acquisito una connotazione politica e rispondono ad interessi extra-istituzionali. Gli inquirenti ormai scelgono le indagini da fare e quelle da insabbiare. Il rapporto tra richieste dei pm e relativi accoglimenti da parte di gip o gup dimostra che la loro funzione di controllo giurisdizionale delle indagini semplicemente non esiste, con percentuali che sfiorano il 100%.
La spiegazione potrebbe, forse, risiedere nel fatto che le sedi nelle quali si esprime l’indirizzo politico del potere giudiziario (Csm, Consigli giudiziari, Anm) ed in cui, molto prosaicamente, interessi, trasferimenti e promozioni dei togati trovano le loro stanze di compensazione, risultano egemonizzate numericamente dal partito dei pm. Non a caso negli ultimi trent’anni l’Anm è stata pressoché sempre presieduta da un pubblico ministero. Quindi è proprio la mancanza di autonomia (e di terzietà) del giudice a pregiudicare l’attendibilità delle sentenze e a costituire un pericoloso vulnus di equilibrio democratico dei poteri e di garanzia dei cittadini al quale il quesito referendario intende porre rimedio.
Il quinto intende limitare gli abusi della custodia cautelare, per evitare che il carcere preventivo si trasformi in un ingiusto anticipo della pena; una prassi che viola il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Occorre, cioè, superare il giustizialismo manettaro di Travaglio & Davigo, per il quale gli innocenti sono colpevoli non ancora scoperti.
Il sesto quesito auspica l’abolizione parziale del decreto Severino, norma che, in caso di condanna per determinati reati, prevede la sanzione accessoria della incandidabilità a parlamentare, consigliere o presidente regionale, sindaco o amministratore locale; se abrogata, cesserebbe l’automatismo della pena (filiazione differita, ma sempre in linea diretta della stagione giacobina intrapresa trent’anni fa), che invece sarebbe affidata alla decisione, caso per caso, del giudice.

LE CRITICHE PRETESTUOSE
Due sono state – e costituiscono tuttora – le principali direttive di critica che dallo scorso inverno hanno accompagnato la partenza mediatica di questa complessa iniziativa referendaria: da una parte la frammentarietà degli argomenti e l’asserita sovrapposizione ad un tragitto di riforme intrapreso dal nuovo corso avviato a Via Arenula. Dall’altra lo scetticismo suscitato dall’impegno della Lega giudicato opportunista.
Sul primo punto siamo convinti che i referendum non possano costituire un intralcio al riformismo giudiziario del governo. Stante la composizione parlamentare scaturita dal voto politico del 2018, non è per nulla scontato che le riforme promosse dal neo ministro della Giustizia possano vedere la luce, considerando la persistente natura giustizialista del M5S non scalfita dalla recente parziale conversione garantista del ministro degli Affari Esteri. Ben venga allora il fecondo stimolo di una seria e qualificata campagna referendaria, o per meglio dire l’avvio di un processo popolare sostitutivo e non ausiliario del potere legislativo.
Sull’altro rilievo, ci permettiamo di osservare che da un punto di vista costituzionale il referendum, quale fonte di diritto, rappresenta la “seconda scheda” a disposizione del popolo per esercitare la sua sovranità, per farsi a suo modo legislatore. Stigmatizzare la condivisione del fronte referendario tra Lega e Partito Radicale dimostra di ignorare che simili iniziative sono per loro natura trasversali. È la stessa logica binaria che consiglia, anzi impone, il superamento delle appartenenze politiche. Ed è la storia del referendum che lo insegna. Fornirne una lettura viziata dalla geografia politico-parlamentare o ideologica è riconoscersi prigionieri di quella presunta superiorità morale che ha condotto alle disfunzioni narrate da Palamara.
A proposito di alterità morale, da stigmatizzare, semmai, è la posizione del Partito democratico che nel recente dibattito interno ha registrato una presa di posizione davvero sconcertante del suo segretario, per il quale i referendum sarebbero solo “un modo per fare lotta politica”. Una ipotesi che al Nazareno evidentemente si guardano bene dal praticare, preferendo agire da fiancheggiatori delle toghe. D’altra parte, il Pd – partito-stato, partito-apparato, partito-poltronificio, partito-garante delle burocrazie europee, presidio politico dell’insegnamento gramsciano sull’egemonia culturale – è il riferimento parlamentare della Magistratura militante, quello cioè dove maggiormente si registra il fenomeno delle cosiddette porte girevoli tra politica e giustizia. Sarà solo una coincidenza o propaganda della controrivoluzione.

UN POTERE MINACCIOSO DA COMBATTERE
La gravissima minaccia del presidente dell’Anm di considerare i referendum radical-leghisti una intollerabile valutazione del gradimento dell’operato della Magistratura e la relativa invocazione di una “ferma reazione” della stessa Associazione non solo tradiscono il timore per il giudizio del popolo sul verminaio raccontato nel libro, ma mostrano – fatto forse ancora più grave – di misconoscere che il referendum costituisce un bilanciamento istituzionale del potere del Parlamento voluto dall’Assemblea Costituente. La Magistratura organizzata che invoca la mobilitazione contro la volontà popolare: a questo potere totalitario è ridotto il sistema giudiziario italiano. Chissà se il Presidente della Repubblica, a capo anche del Csm, sentirà il dovere di intervenire in difesa della Costituzione.
Non sembri un paradosso, ma il porsi – con questi referendum – in posizione dialettica rispetto alle istituzioni rappresentative consentirà all’elettore di correggere a favore della politica un potere sbilanciato verso una certa Magistratura ricattatoria e priva di controlli e di riconciliare così volontà popolare e azione politica. Ponendo fine a trent’anni di giacobinismo giudiziario, abbandonando la costituzione reale e tornando a quella scritta.
Ha sostenuto recentemente Marco Della Luna (centroitalicum.com, 31.5.2021): “[…] la legalità è soggettiva: una mera opinio legalitatis et legitimitatis, fabbricata dalla narrazione unica dei mass media. Non esiste un diritto oggettivo, un diritto in sé. Il diritto si riduce a legalità percepita o fatta percepire, alle regole inculcate: è soggettivo. La distinzione tra potentia e potestas è illusoria. Vediamo confermato il giusrealismo sul giuspositivismo e sul giusnaturalismo: al di là delle leggi apparenti, il diritto effettivo è l’insieme delle regole di fatto osservate e dei fattuali rapporti di forza, non solo materiale e legale, ma anche comunicativa e propagandistica, compreso l’uso del terrore”.
Sottoscrivendo i quesiti e poi votandoli alle urne, nella speranza che nel frattempo non vengano strumentalmente falcidiati dal vaglio di costituzionalità della Consulta (chi, in tema di referendum sulla giustizia, se ciò accadesse, oserà rilevare un potenziale conflitto di interessi?), il corso degli eventi può essere invertito.