Sfruttamento del lavoro femminile?
di Marino Badiale - 28/12/2020
Fonte: Badiale & Tringale
1. Questo articolo prosegue e completa l’analisi svolta in un precedente intervento [1]. Il tema, qui e nel testo citato, è la discussione della tesi femminista secondo la quale il lavoro di cura, svolto perlopiù da donne, è un lavoro elargito gratuitamente e rappresenta la base oggettiva che giustifica la nozione di sfruttamento delle donne da parte degli uomini. Nell’articolo citato ho criticato la tesi del lavoro di cura come lavoro gratuito: ho argomentato che il lavoro femminile di cura della famiglia è in realtà lavoro pagato, non in termini monetari ma direttamente con beni e servizi. Non ritornerò su questo punto, che qui do per acquisito, rimandando al testo citato chi sia interessato alle mie argomentazioni.
La necessità di una ulteriore indagine è dovuta all’osservazione seguente: il fatto che il lavoro femminile di cura sia pagato, non implica che non vi sia sfruttamento. Basti pensare alla condizione operaia secondo i marxisti: la forza-lavoro degli operai è sicuramente pagata dal salario, e possiamo supporre, come fa Marx, che sia pagata correttamente al suo valore: ma l’analisi marxiana ci mostra che, anche in queste condizioni, vi è sfruttamento, nel senso che il detentore del capitale si appropria del plusvalore prodotto dal lavoratore senza fornire un equivalente. In analogia con questo esempio, si potrebbe allora sostenere che, anche se il lavoro femminile di cura è pagato, vi può essere una qualche forma di sfruttamento.
2. Per discutere il tema, iniziamo a circoscriverlo. A questo scopo, è utile la seguente osservazione: per poter parlare di sfruttamento mi sembra necessario che lo sfruttato sia in una situazione nella quale non ha libertà di scelta. Se lo sfruttato ha la possibilità di scegliere una situazione diversa da quella in cui si attua lo sfruttamento, senza pericoli per sé ed essendo in condizioni di vivere decentemente nella nuova situazione, mi sembra difficile parlare di sfruttamento, perché se rimane nella situazione di partenza la sua è una libera scelta. Pensiamo a uno schiavo o un servo feudale che hanno la possibilità concreta di abbandonare il padrone schiavista o il signore feudale, senza temere ritorsioni, e di trovare una sistemazione indipendente in cui vivere decentemente senza essere sfruttati: in una situazione del genere mi sembra difficile parlare di sfruttamento, e anzi appare dubbio che si possano ancora usare termini come “schiavitù” o “servitù”.
Se questo è chiaro, appare allora evidente che non si può parlare di “sfruttamento del lavoro casalingo” per quelle donne che, nel mondo contemporaneo, hanno un lavoro che permette di vivere da sole e godono dei diritti individuali garantiti nei paesi occidentali: se restano in un rapporto di coppia nel quale elargiscono lavoro di cura, questa è evidentemente una loro libera scelta, visto che in ogni momento hanno la possibilità di andarsene e di vivere da sole.
La questione dello sfruttamento del lavoro casalingo va allora ristretta, nel mondo contemporaneo, alle casalinghe in senso proprio, cioè alle donne che si dedicano interamente al lavoro di cura della famiglia e di conseguenza non hanno autonomia economica. Una tale mancanza di autonomia economica era naturalmente la condizione di quasi tutte le donne nelle società premoderne e all’inizio dell’età moderna. L’analisi che segue sarà allora concentrata sul lavoro nell’ambito famigliare nelle situazioni in cui le donne non hanno autonomia economica e non hanno quindi la libertà di allontanarsi da una situazione sfavorevole. Il riferimento principale sarà alla famiglia tradizionale (donna a casa dedita per un tempo significativo al lavoro di cura, uomo dedito al lavoro esterno) nei paesi occidentali, pensando soprattutto al medioevo e alla prima età moderna.
In via preliminare, osserviamo che stiamo discutendo la nozione di sfruttamento del lavoro di cura svolto dalle donne nella famiglia tradizionale. In molti casi, nelle famiglie tradizionali, le donne hanno svolto, oltre al lavoro di cura, anche lavoro direttamente produttivo: pensiamo alle contadine che si occupano di una parte dei lavori agricoli, o alle operaie delle fabbriche tessili della prima rivoluzione industriale. Ovviamente in queste situazioni le donne erano sfruttate, ma lo erano “in quanto lavoratrici”, alla pari degli uomini, non “in quanto donne”. Qui ci stiamo occupando non di questo tipo di sfruttamento, ma del tema specifico dello sfruttamento del lavoro di cura.
3. Cosa intendiamo per “sfruttamento”? Intendiamo l’appropriazione del surplus produttivo da parte di chi ha il potere per farlo. L’attività produttiva degli esseri umani genera un surplus, cioè una quantità di prodotto che oltrepassa ciò che è necessario a riprodurre le condizioni della produzione stessa (fra le quali ovviamente la vita dei produttori). Questo surplus rappresenta la base materiale indispensabile all’esistenza di ogni società. Le classi dominanti sono le classi che possono disporre del surplus produttivo impiegandolo per la gestione del proprio potere, oltre che, ovviamente, per il proprio consumo. Il surplus di cui si appropriano le classi dominanti è in certi casi immediatamente visibile: sono i carri che portano via dal villaggio il tributo dovuto all’imperatore, sono le giornate che il servo feudale deve trascorrere lavorando sui campi del signore invece che per il proprio sostentamento. Nel caso del modo di produzione capitalistico, come è noto, il surplus prende la forma del plusvalore e non è immediatamente percepibile, tanto che è stata necessaria la complessa analisi marxiana per disvelare gli arcani della produzione capitalistica.
Un eventuale “sfruttamento” del lavoro di cura delle donne non sembra assomigliare a nessuno di questi casi ben noti: non vi è un surplus immediatamente percepibile, e non vi è uno scambio di merci e di denaro su cui si possa basare un’analisi nei termini marxiani di valore e plusvalore. La stessa varietà degli esempi possibili di “sfruttamento” mostra però che tale nozione si applica a tipi di rapporti sociali molto diversi fra loro, e si potrebbe quindi ipotizzare che lo sfruttamento del lavoro di cura sia un’altra forma particolare, magari non chiaramente discernibile ad uno sguardo superficiale. Mi sembra però che si possano individuare due condizioni che si accompagnano ad ogni forma di sfruttamento, in mancanza delle quali sembra difficile poter usare tale nozione. In primo luogo, in molti tipi di società lo sfruttatore è esterno alla sfera della produzione, e la produzione procede senza nessun contributo da parte dello sfruttatore stesso; detto altrimenti, il ceto dei lavoratori è autonomo e capace di proseguire nell’attività produttiva in assenza dei ceti dominanti. Si pensi al signore feudale che è impegnato in una vita che non ha nulla a che fare con la produzione materiale. In altri casi vi è un coinvolgimento nella produzione da parte dello sfruttatore: si pensi ai ceti dirigenti delle società modellate sul “modo di produzione asiatico” [2], che forniscono un contributo di conoscenze importante per la produzione agricola (per esempio di tipo astronomico, relative alla scansione dei tempi agricoli, o ingegneristico, relativo alla gestione complessa di risorse come i grandi fiumi). In questo caso, mi sembra che il segnale di una situazione di sfruttamento non possa che essere la presenza di una forte differenza di livello di vita: per poter parlare di sfruttamento da parte di un ceto sociale che in qualche modo partecipa alla produzione, deve essere evidente, visibile, la superiorità del livello di vita di cui gode tale ceto sociale, rispetto ai lavoratori sfruttati. La tesi che sostengo qui è allora che condizione necessaria per poter parlare di sfruttamento è la presenza di almeno una delle due situazioni appena elencate [3]. Indicando questi due “segnali” di una situazione di sfruttamento non intendo esaurire tutte le possibili caratteristiche di una tale situazione, non intendo darne una definizione universale. Voglio solamente dire che, se mancano entrambe queste caratteristiche, mi sembra difficile parlare di “sfruttamento”: se abbiamo un ceto sociale che fornisce un contributo indispensabile alla produzione, e ha un livello di vita sostanzialmente analogo a quello degli altri lavoratori, non vedo in che modo sia possibile, per il rapporto fra tale gruppo e gli altri lavoratori, parlare di “sfruttatori” e “sfruttati”.
Se tutto questo è chiaro, possiamo provare ad esaminare la situazione della famiglia tradizionale: in essa vediamo che le due componenti, uomo e donna, svolgono lavori diversi, ma entrambi indispensabili alla sopravvivenza della famiglia stessa. Manca quindi il primo carattere che abbiamo appena individuato, quello della estraneità rispetto alla produzione, da parte degli sfruttatori, e dell’autonomia produttiva da parte degli sfruttati. D’altra parte, se guardiamo i livelli di vita materiale, è del tutto ovvio che non ci sono nette differenze: all’interno della famiglia tradizionale marito e moglie mangiano gli stessi cibi, oppure fanno entrambi la fame, si scaldano allo stesso fuoco, oppure patiscono entrambi il freddo, dormono nello stesso letto. In sostanza, nei rapporti interni alla famiglia tradizionale mancano i due aspetti che abbiamo individuato come caratteristici affinché si possa parlare di sfruttamento.
4. Mi sembra di poter concludere, da quanto fin qui argomentato, che il lavoro di cura femminile nella famiglia tradizionale non è sfruttato dall’uomo, cioè dal partner (marito o altro) della donna che fornisce il lavoro di cura. Ci si può però chiedere se esso sia sfruttato da qualcun altro. Su questo punto mi sembra interessante la riflessione del femminismo di ispirazione marxista, secondo la quale il lavoro casalingo aiuta a tenere basso il prezzo della forza-lavoro maschile, cioè il salario, e di questo ovviamente approfitta il capitalista. In questa forma la tesi mi sembra poco convincente, ma d’altra parte credo che essa contenga uno spunto interessante, che cercherò di sviluppare. Provo adesso ad argomentare questi due punti.
Da una parte, la tesi femminista sopra citata mi sembra erronea, almeno nella forma appena enunciata. Si tratta di quanto ho già espresso nell’intervento citato nella nota [1], quindi non mi soffermo molto su questo punto: la moglie casalinga dell’operaio vive grazie al salario del marito, che deve quindi essere sufficiente a mantenere marito e moglie. In altri termini, il capitalista paga per il lavoratore e anche per la moglie, quindi non ha nessun particolare risparmio derivato dal lavoro casalingo.
Cerco adesso di esprimere quello che mi sembra possa essere una modifica interessante di questa tesi. Essa suggerisce che il lavoro di cura femminile può essere considerato un contributo alla produzione, in quanto è indispensabile alla riproduzione della capacità lavorativa dell’uomo. Anche in questa forma, la tesi mostra lati criticabili, almeno in relazione al problema dello sfruttamento: il fatto che l’uomo sia sfruttato (per esempio dal capitalista) non implica di per sé che lo sia anche la donna che fornisce il lavoro di cura. Basti pensare, per esempio, al fatto che anche i negozianti che vendono alla famiglia operaia cibo e bevande contribuiscono alla riproduzione della forza-lavoro, ma nessuno si sognerebbe di dire che essi sono sfruttati dal capitalista che sfrutta gli operai. Questo esempio indica però abbastanza chiaramente una differenza: da una parte operaio e negoziante sono due individui isolati e indipendenti, e infatti la loro relazione è mediata dalla compravendita monetaria; dall’altra, la relazione fra marito e moglie è totalmente diversa. Marito e moglie formano una comunità, la famiglia, che rappresenta una scelta di vita comune, e quindi condividono fortune e sfortune: se il marito ha un aumento di stipendio anche la moglie ne gode, se il marito ha un incidente sul lavoro che lo rende invalido è l’intera famiglia a finire in miseria. Nei due casi, il negoziante di cui sopra nota al più un piccolo aumento o una piccola diminuzione nelle vendite, e forse neanche quello. La famiglia tradizionale è una comunità di vita, e risponde in maniera solidale alle vicende della vita.
La riformulazione della tesi femminista potrebbe allora essere la seguente: nel caso di una comunità come quella della famiglia tradizionale, non è il lavoro dell’uomo di per sé ad essere sfruttato, né quello della donna, ma è il lavoro della famiglia, che nel caso dell’uomo è lavoro direttamente svolto nella produzione, nel caso della donna è lavoro indispensabile alla riproduzione della capacità di lavoro del marito o compagno. È interessante osservare che in questa formulazione la tesi non si applica solo alla famiglia tradizionale all’interno del modo di produzione capitalistico (famiglia operaia tradizionale sfruttata dal capitalista) ma anche alla famiglia di servi feudali sfruttata dal signore feudale, anche alla famiglia contadina che nelle società antiche deve fornire tributi al potere centrale; in definitiva, si applica ad ogni tipo di organizzazione sociale nella quale la famiglia, in una forma o nell’altra, sia lo schema sociale di base nella quale sono organizzati gli sfruttati (questo esclude in generale gli schiavi, che formano famiglie in maniera molto aleatoria a seconda dei tempi e delle situazioni).
Ci sono alcune conseguenze interessanti di questa tesi. Infatti, essa ci dice che il lavoro di cura femminile è sfruttato non direttamente ma in maniera mediata: è sfruttato tramite la mediazione dello sfruttamento del lavoro produttivo dell’uomo. Ma allora, se il lavoro maschile non è sfruttato, non lo è nemmeno quello femminile. Cioè, se l’uomo è in una situazione sociale nella quale il suo lavoro non subisce sfruttamento (il che può succedere per esempio nel caso di un artigiano indipendente o di un libero professionista), allora non subisce sfruttamento neanche il lavoro femminile di cura che la moglie svolge nei suoi confronti. Ma c’è di più. Se il lavoro dell’uomo è quello di uno sfruttatore, cosa dobbiamo pensare del lavoro femminile di cura da parte della moglie dello sfruttatore? Abbiamo detto che il ruolo fondamentale del lavoro di cura femminile è quello di riprodurre la capacità maschile di dedicarsi alla propria attività. Ma se l’attività in questione è quella di uno sfruttatore, il lavoro di cura femminile contribuisce a questa attività, cioè allo sfruttamento. E poiché la moglie dello sfruttatore ricava dall’attività del marito evidenti vantaggi materiali, mi sembra possibile concludere che il suo lavoro è quello di una sfruttatrice. Il lavoro di cura della moglie dello sfruttato è, con la mediazione del lavoro del marito, il lavoro di una sfruttata. Il lavoro di cura della moglie dello sfruttatore è, con la mediazione del lavoro del marito, il lavoro di una sfruttatrice. Ne consegue che il lavoro di cura femminile non è, di per sé, né sfruttato né sfruttatore: la sua natura, in questo senso, è subordinata alla situazione sociale della famiglia. Non c’è dunque nessuna analogia fra il lavoro di cura delle donne nelle diverse situazioni sociali, e viene meno la tesi che il lavoro di cura femminile sia una condizione sociale oggettiva che unifica le donne in quanto sfruttate dagli uomini. Esso non è una base su cui fondare una solidarietà fra donne. Almeno finché si considera esclusivamente il lavoro di cura femminile, da quanto argomentato appare che la solidarietà femminile è una ideologia mistificante che occulta il reale sfruttamento di uomini e donne dei ceti subalterni da parte di uomini e donne dei ceti dominanti.
Note
[1] http://www.badiale-tringali.it/2020/12/il-lavoro-non-pagato-delle-donne.html
[2] Il “modo di produzione asiatico” è una nozione che in Marx intende essenzialmente descrivere le specificità di società come quelle dell’antica India o dell’antica Cina, ma che è poi stato esteso a casi come quello dell’antica Mesopotamia, dell’antico Egitto o di alcune società precolombiane. Si tratta di una nozione sulla quale si è sviluppato fra marxisti un dibattito intermittente ma complessivamente di grande interesse. Un testo che riassume il dibattito fino agli ‘60 è: G.Sofri, Il modo di produzione asiatico, Einaudi 1969. Il manuale di storia antica di Massimo Bontempelli (con E.Bruni) applica tale nozione in modo illuminante: M.Bontempelli, E.Bruni, Il senso della storia antica, Trevisini, s.d.
[3] Non è rilevante discutere qui eventuali condizioni sufficienti.