Solo un Dio ci può salvare
di Giorgio Agamben - 30/03/2025
Fonte: Quodlibet
La brusca affermazione di Heidegger nell’intervista allo «Spiegel» del 1976: «Solo un Dio ci può salvare» ha sempre suscitato perplessità. Per intenderla è innanzitutto necessario restituirla al suo contesto. Heidegger ha appena parlato del dominio planetario della tecnica che nulla sembra in grado di governare. La filosofia e le altre potenze spirituali – la poesia, la religione, le arti, la politica – hanno perduto la capacità di scuotere o comunque di orientare la vita dei popoli dell’Occidente.
Di qui l’amara diagnosi che esse «non possono produrre alcun cambiamento immediato dell’attuale stato del mondo» e l’inevitabile conseguenza secondo cui «solo un Dio ci può salvare». Che in questione sia qui tutt’altro che una profezia millenaristica è confermato subito dopo dalla precisazione che dobbiamo prepararci non solo «per l’apparizione di un Dio», ma anche e piuttosto «per l’assenza di un Dio nel suo tramonto, per il fatto che noi andiamo a fondo davanti al Dio assente».
Va da sé che la diagnosi di Heidegger non ha perduto oggi nulla della sua attualità, è, anzi, se possibile, ancora più inconfutabile e vera. L’umanità ha rinunciato al rango decisivo dei problemi spirituali e ha creato una sfera speciale in cui confinarli: la cultura. L’arte, la poesia, filosofia e le altre potenze spirituali, quando non sono semplicemente spente e esaurite, sono confinate nei musei e in istituzioni culturali di ogni specie, dove sopravvivono come svaghi e distrazioni più o meno interessante dalla noia dell’esistenza (e spesso non meno noiose).
Come dobbiamo allora intendere l’amara diagnosi del filosofo? In che senso «solo un Dio ci può salvare»? Da quasi due secoli – da quando Hegel e Nietzsche ne hanno dichiarato la morte, l’Occidente ha perduto il suo dio. Ma ciò che abbiamo perduto è solo un dio a cui sia possibile dare un nome e un’identità. La morte di Dio è, in verità, la perdita dei nomi divini («mancano i nomi divini», lamentava Hölderlin).
Al di là dei nomi, resta la cosa più importante: il divino. Finché saremo capaci di percepire come divini un fiore, un volto, un uccello, un gesto o un filo d’erba, potremo fare a meno di un Dio che è possibile nominare. Ci basta il divino, l’aggettivo c’importa più del sostantivo. Non «un Dio» – piuttosto: «solo il divino ci può salvare».