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Stampa: il vizio d’origine c’è, e si vede

di Francesco Lamendola - 14/11/2018

Stampa: il vizio d’origine c’è, e si vede

Fonte: Accademia nuova Italia

Davanti all’asservimento sempre più evidente e sempre più sfacciato dell’informazione pubblica in Italia, e specialmente della stampa, che si accompagna al suo fin troppo logico declino (chi ha ancora voglia di spendere un euro e venti centesimi per compare un giornale pieno di balle, false notizie e propaganda mascherata?), viene spontaneo chiedersi come si sia potuti scendere tanto in basso e come abbia avuto inizio questa deriva. La risposta è molto semplice: è sempre stato così e questa deriva non è che la logica tappa finale di un processo che inizia con la nascita stessa della stampa e dell’informazione “libera” e “democratica”, cioè dal 1945. Non vogliamo certo dire, con ciò, che le cose andassero meglio sotto il Ventennio; diciamo semplicemente che la sudditanza della stampa al potere politico, nel periodo dal 1925 al 1945 (per gli ultimi due anni, limitatamente al Nord Italia) era esplicita e senza finzioni, mentre poi si è preteso di spacciare per, indipendente, libera e pluralista una stampa sempre più asservita ai poteri forti. La cosa è particolarmente evidente quando i giornalisti sono chiamati, o si chiamano da se stessi, a fare il punto sulla libertà dell’informazione in Italia, cioè a darsi la pagella: non solo non vi è mai un’ombra di autocritica, ma essi arrivano al punto di scambiarsi il favore di citazioni, interviste, ecc., per supportarsi gli uni gli altri, e questo nonostante le ferocissime inimicizie che li dividono sul piano personale, quasi sempre per motivi di carriera o di tipo ancor più privato. Come tutte le corporazioni, i panni sporchi vogliono lavarli in casa loro. Pertanto, l’immagine che vogliono dare di se stessi è quella di chi è al servizio dell’informazione, al servizio della libertà dei cittadini, e quindi di chi è benemerito della democrazia; e cosa potremmo fare senza di loro?, saremmo persi, come dei pulcini nella stoppa. Se, poi, si tratta di una riflessione in forma di saggio, se si tratta di un libro che vuol dire una parola di verità sull’informazione, allora è particolarmente interessante vedere come se la dicono e  come se la raccontano questi signori della stampa “libera” e “democratica”.

Per non andare indietro nel tempo fino al 1945, fermiamoci agli  anni ’70, cioè agli anni decisivi per l’avvento del nuovo potere finanziario e per il graduale, ma totale asservimento dell’informazione nei suoi confronti, che ha salvato, però – questo è altrettanto importante – le apparenze e la facciata di un pluralismo e di una indipendenza tanto più sbandierati a parole, quanto più smentiti nei fatti. Facciamo riferimento, per esempio, al saggio di Paolo Murialdi intitolato La stampa italiana del dopoguerra, 1943-1972 (Bari, Laterza, 1973): un grosso volume di quasi 650 pagine. Già il titolo crea qualche sensazione di disagio: la Seconda guerra mondiale finisce nel 1945, non nel 1943; parlare di dopoguerra a partire dal 1943 equivale a negare, implicitamente, che la guerra sia durata per altri due anni, e che si sia caratterizzata, nell’Italia centro-settentrionale, come una vera e propria guerra civile (anche se nessuno degli storici ufficiali l’ha mai chiamata così fin verso la fine del millennio). Ora, Paolo Murialdi, genovese, classe 1919 (è mancato nel 2006), sa molto bene che le cose sono andate altrimenti, dal momento che è stato partigiano nell’Oltrepò pavese, poi grande amico di Giorgio Bocca e in seguito ha fatto una brillante carriera giornalistica, arrivando a ricoprire la carica di presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, nel 1974, cioè subito dopo aver pubblicato il libro in questione. Che sia stato un  riconoscimento per i sui meriti di storico del giornalismo italiano, oltre che di redattore presso alcune delle maggiori testare giornalistiche italiane, da Milano-Sera a L’Avanti!, e dall’Umanità al Corriere della Sera? In tal caso, più che mai ci aspettiamo di trovare, in quelle centinaia di pagine dedicate alla storia della stampa italiana fra il 1943 e il 1972, un’ampia, documentata e, almeno a livello di intenzioni, serena e obiettiva ricostruzione del passaggio da una stampa asservita al Partito Nazionale Fascista a una stampa che si è presentata, fin dall’inizio, come libera e democratica.

Una maniera quasi infallibile per farsi un’idea dell’obiettività di un libro, specialmente di una ricostruzione storica, è quella di verificare, nell’indice dei nomi, se vi compaiono anche i nomi di quelli che stavamo dall’altra parte; e anche, naturalmente – ma questa è già un fase successiva - se vi ricevono un trattamento abbastanza sereno in sede di giudizio storico, o se vengono citati solo per scaricare su di essi tutte le colpe del Male, in modo da far risaltare ancor più i meriti di quelli che, invece, sono stati dalla parte del Bene. Nel caso specifico, ci sembra che i capitoli più interessanti dovrebbero essere quelli iniziali, nei quali si illustra come sia nata la libera stampa del dopoguerra, dopo l’esperienza della dittatura. E ce lo aspettiamo con tanta più ragione da un giornalista del Nord Italia, che nel Nord Italia ha fatto la sua carriera, sin da prima della guerra (nel 1939 lavorava al Secolo XIX di Genova), e che il passaggio dall’uno all’altro regime lo ha visto da vicino, anzi, lo ha vissuto in prima persona, combattendo tra le file partigiane. Dunque, per prima cosa siamo andati a vedere cosa egli dice dei due giornali più significativi della fase di transizione dall’epoca fascista a quella post-fascista (o antifascista, come recita la vulgata resistenziale): i settimanali Italia e Civiltà, fondata a Firenze da Barna Occhini nel 1944, e Crociata Italica di don Tullio Calcagno. Al primo collaborarono firme come quelle di Ardengo Soffici, Giovanni Gentile, Giotto Dainelli, oltre a un giovanissimo Giovanni Spadolini, e già questi nomi dovrebbero meritargli un posto di tutto rispetto non solo nella storia dell’informazione, ma anche in quella della cultura italiana; il secondo, che ebbe il sostegno di Roberto Farinacci e i finanziamenti del Ministero della Cultura Popolare, fu il giornale più venduto nell’Italia centro-settentrionale, raggiungendo una tiratura-record fra le 100 e le 150 mila copie. Ebbene: silenzio totale nel libro di Paolo Murialdi, sia sui due settimanali, sia sui loro fondatori. Come se non fossero mai esistiti.

Sconcertati ma non vinti, abbiamo insistito nella nostra ricerca e abbiamo passato al setaccio tutte le centinaia di nomi presenti nell’indice. Abbiamo trovato qualche riga dedicata a Concetto Pettinato, ma solo in relazione al processo che subì, a guerra finita, nel quadro dell’epurazione; eppure era stato un giornalista di tutto rispetto, cronista di guerra già al tempo del primo conflitto mondiale, e autore di almeno quindici volumi di testimonianze, ricordi e riflessioni (cfr. i nostri articoli: Una pagina al giorno: i giorni di Lublino nel 1914, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 19/12/2008 e sul sito dell’Accademia Nuova Italia il’11/12/2007; e Una pagina al giorno: Sono buoni gli Inglesi?, pubblicati sui due siti, rispettivamente il 21/12/2008 e il 22/11/17). Stesso discorso per Ermanno Amicucci, l’ultimo direttore del Corriere della Sera prima della caduta del fascismo, per Ezio Maria Gray, per Bruno Spampanato e per Orio Vergani. Di loro si ricordano solo le vicende legate ai processi dell’immediato dopoguerra; della loro qualità giornalistica, se hanno fatto bene o male il loro mestiere di giornalisti, nulla; evidentemente, si dà per scontato che dovevano essere stati per forza dei fascisti duri e puri e degli spregiatori della verità. Invano abbiamo cercato, nel libro, il nome di Mario Appelius, il giornalista radiofonico più famoso dell’epoca fascista, autore di una quantità impressionante di articoli e anche di una ventina di popolarissimi libri di viaggio (cfr. il nostro articolo Una pagina al giorno: “L’ultima vergine” di Mario Appelius, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/03/2008 e poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 05/01/2018). Evidentemente, il suo celeberrimo Dio stramaledica gli inglesi! gli è costato caro, come pure le sue reiterate denunce del complotto demo-pluto-giudaico-massonico: neppur degno di essere nominato. Di Leo Longanesi, pochi e brevissimi cenni. Un po’ di più su Indro Montanelli, ma si sa, Montanelli, benché fascista, come quasi tutti i giornalisti italiani del Ventennio, si era riscattato alla fine ed era pure stato arrestato dai tedeschi.

Ma insomma chi furono i più grandi giornalisti italiani dell’ultimo periodo del  fascismo e degli inizi della storia democratica e repubblicana? Senza ombra di dubbio, e sfidiamo chiunque a confutarci, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini; i quali non furono semplicemente dei giornalisti, ma degli intellettuali completi, degli scrittori e dei pensatori di primo piano; ma che, in ogni caso, diedero anche un grosso contributo alla storia della carta stampata, come fondatori e animatori di prestigiosissime riviste culturali. E continuarono a scrivere anche dopo la guerra, venendo molto apprezzati pure all’estero (specie Prezzolini, negli Stati Uniti d’America), senza mai sottrarsi al dibattito intellettuale, civile, morale. Insomma, entrambi hanno tutte le carte in regola affinché chi si occupa di storia della stampa italiana, chi vuole scrivere un saggio di 650 pagine sulla stampa italiana nel dopoguerra, parli anche di loro e riconosca il debito che la cultura e il giornalismo italiani hanno nei loro confronti, indipendentemente dai contenuti specifici del loro pensiero. Sì o no? Qui non stiamo lambiccando opinioni personali, stiamo parlando di fatti. Sono stati, Papini e Prezzolini, due figure di primissimo piano sia nella cultura, sia nel giornalismo italiano del XX secolo, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, sì o no? Innegabilmente, incontestabilmente, sì. Ebbene: vediamo cosa dice di loro Paolo Murialdi. È presto detto: non dice niente. Zero. Non li nomina neppure, neanche in una noticina a pie’ di pagina.

A questo punto, ci è passata la voglia di tentare ancora. A che scopo? Una storia della stampa italiana che parte dal 1943 (ripetiamo: non dal 1945; c’è una bella differenza) e non nomina né Papini, né Prezzolini, né Barna Occhini, né Tullio Calcagno, né Mario Appelius, che razza di storia sarà mai? Un concentrato di faziosità spudorate, e nient’altro. Sarebbe come pretendere di fare una storia del cinema italiano senza neanche nominare Alessandro Blasetti o Goffredo Alessandrini; o voler scrivere una storia del ciclismo italiano e poi astenersi dal fare i nomi di Binda e Guerra. Ma stiamo scherzando? Ma si può essere così sfacciatamente di parte, così supremamente indifferenti al richiamo al senso storico, che dovrebbe far mettere da un lato i giudizi personali, in nome del servizio che si vuol rendere alla verità? Evidentemente si può. E questi signori hanno fatto il bello e il cattivo tempo per settant’anni; e oggi continuano a farlo, cioè continuano a farlo i loro degni eredi: ancor più faziosi e ancor più sfrontati, se pure ciò fosse possibile. Con ciò non vogliamo dire che oggi non ci son più dei giornalisti liberi in Italia; ma che il sistema dell’informazione, sia della televisione e della radio che della carta stampata, è completamente infeudato al potere finanziario e, di riflesso, a quello politico. Perciò i giornalisti liberi o restano a spasso, senza una tesata o una rete nazionale che li voglia, oppure si riducono a scrivere su fogli marginali, o a postare i loro articoli in rete, su qualche sito o qualche blog coraggioso e davvero indipendente, oppure a postare i loro video autoprodotti, perché il circuito della grande stampa non li vuole, la televisione li ignora addirittura. Ne tollera giusto due o tre, il minimo sindacale (e anche qualcosa meno del minimo), per sostenere la spudorata finzione del pluralismo e della par condicio: scelti fra i meno imbarazzanti, i meno fastidiosi e perciò i meno intransigenti.

Se la cultura italiana, in generale, è afflitta dal male di un provincialismo cronico, più che mai venato di esterofilia e di auto-denigrazione sistematica dei valori nazionali, la stampa, da parte sua, riflette quella speciale forma di provincialismo, particolarmente esecrabile e penosa, che si manifesta nell’autocelebrazione sistematica e nella rimozione di tutto ciò che potrebbe darle ombra. Il che è tipico della stampa di regime, cioè di quella finzione di libera informazione, che tuttavia non inganna nessuno, propria dei regimi totalitari. Conclusione: viviamo in un regime totalitario? Assolutamente sì. Obiezione: ma come è possibile che ciò accada, se viviamo in un sistema di garanzie democratiche? Risposta: perché questo è il totalitarismo più sottile e più implacabile che la modernità abbia prodotto: il totalitarismo democratico. Un totalitarismo che nega di essere tale, che lo dissimula in tutte le maniere, che impone per legge il culto della democrazia nei suoi aspetti esteriori e inoffensivi, ma ne distrugge la sostanza: la libera rappresentanza dei cittadini. E come mai, allora, la stampa celebra continuamente il valore del pluralismo, l’importanza delle differenze? Esattamente per la stessa ragione per cui invoca la conquista di sempre nuovi diritti da parte dei cittadini: per farsi un alibi e poter agire con maggior comodità in senso esattamente contrario. Il pluralismo rimedicati da quei signori è, per esempio, la possibilità di scegliere fra venti o trenta giornali diversi, che dicono più o meno le stesse cose e nella stessa prospettiva, per la semplice ragione che appartengono, direttamente o indirettamente agli stessi tre o quattro padroni, i quali a loro volta son d’accordo fra di loro, per quanto possano avere dei conti da regolare sul piano degli affari. Quanto alla celebrazione della diversità, si faccia caso che essa viene brandita come una clava per abbattere le ultime resistenze degli ultimi uomini liberi, non per amore della giustizia: infatti, di solito, la diversità serve a instaurare nuove forme di dominio, da parte di alcune minoranze rispetto alla società nel suo insieme. È la logica delle lobby; e quando le lobby si mettono d’accordo, si muovono in regime di monopolio: dietro la facciata della democrazia e del libero mercato. Ma guarda un po’ che cose strane si scoprono, se si va a guardare cosa c’è sotto il tappeto del salotto buono. Vuoi vedere che, alla fine, Mario Appelius aveva messo il dito sulla piaga giusta?...