Stati Uniti: ritorno al protezionismo?
di Giacomo Gabellini - 21/01/2017
Fonte: L'Indro
Perché Trump intende rilanciare questo modello, che gli USA sembrano aver dimenticato
Donald Trump si insedia oggi, ma sono giorni che va rivendicando i primi successi da presidente. All’inizio di gennaio, il tycoon newyorkese ha salutato con entusiasmo la decisione della Ford di non costruire un impianto da 1,6 miliardi di dollari in Messico in favore di un investimento da 700 milioni per il potenziamento di uno stabilimento in Michigan, Stato-cardine della Rust-Belt rivelatosi fondamentale a coronare con successo la rincorsa del candidato repubblicano verso la Casa Bianca. Più di 500 posti di lavoro statunitensi creati in cambio di qualche migliaio previsti in Messico.
Quasi contemporaneamente, l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, ha annunciato che investirà 1 miliardo per l’allargamento di un impianto produttivo in Ohio «nell’interesse degli Stati Uniti». Un commento che gli è valso la gratitudine del presidente.
I dettagli su come Trump sia riuscito a convincere i due giganti delle quattro ruote a rivedere le proprie scelte strategiche non sono chiari, ma dalle indiscrezioni è emerso che durante alcuni colloqui con i vertici della società il presidente avrebbe alternato lusinghe, come la promessa di sussidi a carico dei contribuenti del Michigan, a velate minacce, la più consistente delle quali è quella di applicare forti dazi sui loro prodotti fabbricati all’estero.
Un concetto che lo stesso Trump aveva spiegato molto bene attraverso una serie di tweet in cui si legge che «ogni impresa che si trasferisce dal nostro Paese verso un altro licenziando i propri dipendenti, costruendo nuove fabbriche all’estero e rivendendo poi i propri prodotti negli Usa senza subire alcuna conseguenza, sbaglia! Presto introdurrò una tassa del 35% sulle merci prodotte dalle aziende che intendono rivendere dentro i nostri confini».
Stesso stratagemma è stato impiegato nei confronti di General Motors, alla quale Trump ha indirizzato un calibratissimo tweet alla vigilia dell’apertura del Salone dell’Auto di Detroit: «General Motors sta distribuendo ai concessionari Usa il modello Chevy Cruze fabbricato in Messico senza pagare dazi. Decida se produrre negli Stati Uniti o pagare una pesante tassa doganale».
L’azienda è stata costretta a difendersi, affermando in maniera piuttosto imbarazzata che in realtà il grosso della produzione di Chevy Cruze avviene in Ohio e solo una parte minoritaria è stata spostata in Messico, dove rimarrà nonostante le pressioni del governo.
Quello di General Motors è per il momento l’unico rifiuto di una grande azienda di allinearsi alle richieste del nuovo presidente, che non manca di rivendicare l’accordo raggiunto con United Technologies per la conservazione di 1.100 posti di lavoro in uno stabilimento dell’Indiana dopo che l’impresa aveva deciso di delocalizzare la produzione Messico, dove avrebbe retribuito i dipendenti 3 dollari l’ora anziché tra i 20 e i 26. La United Technologies macina parte rilevante degli utili grazie ai lucrosi contratti con il Pentagono, che Trump avrà con ogni probabilità minacciato di non rinnovare nel caso in cui la società avesse ultimato il trasferimento della produzione in Messico. La compagnia di telecomunicazioni Sprint, fiutata l’aria che tira, ha deciso anch’essa di consolidare la propria posizione negli Stati Uniti annunciando migliaia di assunzioni dopo una telefonata tra Trump e il detentore della quota di controllo della società. E così tante altre imprese non necessariamente statunitensi (Samsung, Lvmh) hanno rinunciato ai loro piani di trasferire la produzioni al di fuori degli Stati Uniti.
L’amministratore delegato di Ford Mark Fields ha dichiarato di aver modificato il ruolino di marcia prestabilito in previsione dell’abbassamento della coporate tax dal 35 al 15%, promesso da Trump in campagna elettorale, chiarendo però che l’applicazione di un’imposta doganale del 35% sulle merci prodotte da società statunitensi al di fuori dei confini nazionali rischia di mettere in ginocchio l’intera industria manifatturiera statunitense. Sulla stessa linea si è schierato il ‘Wall Street Journal‘, il quale ha espresso l’opinione che il governo debba continuare a lasciare le imprese libere di massimizzare i propri profitti e che «gli Stati Uniti non prospereranno obbligando le società ad effettuare investimenti anti-economici». Ma l’approccio diretto di Trump suscita una certa irrequietudine non solo tra gli ambienti ultra-liberisti di Wall Street, ma anche in seno allo stesso Partito Repubblicano, che considera il dirigismo statale alla stregua di una blasfemia o quantomeno un vilipendio dei principi dello ‘Stato minimo’ attorno a cui ruota l’universo libertario del Tea Party.
Ciononostante, Trump si propone di conseguire obiettivi ancora più ambiziosi, consistenti nello smantellamento degli accordi di libero scambio come il Nafta, ritenuti i principali responsabili della scomparsa di milioni di posti di lavoro dagli Stati Uniti, in favore di accordi bilaterali con i vari Paesi da modellare a seconda delle esigenze reciproche. E qui la frattura non solo con il Congresso, ma anche e soprattutto con il suo stesso partito di appartenenza rischia di approfondirsi ed allargarsi ulteriormente.
Eppure, il protezionismo è il modello attraverso cui Paesi come Germania e Stati Uniti hanno avuto modo di consacrare la loro prorompente ascesa a grandi potenze industriali nel XIX Secolo. Gli Usa in particolare hanno difeso la propria produzione interna dalla concorrenza del polo dominante britannico mediante dazi doganali, incentivi allo sviluppo dei locali comparti manifatturieri, violazione dei diritti di proprietà intellettuale (che oggi santificano), ripubblicazione di opere di autori stranieri senza permesso, depredazione dei brevetti, ecc. Pur di consolidare questo processo di affermazione economica e geopolitica attraverso l’imposizione a tutto il Paese della logica industriale vigente al nord, fu combattuta una sanguinosa guerra civile culminata con la sconfitta del sud agricolo e latifondista che premeva per la revoca dei dazi e il mantenimento di un approccio mercantilista in quanto traeva i propri guadagni soprattutto dal commercio del cotone con la Gran Bretagna. Solo una volta capitalizzato questo vantaggio gli Stati Uniti si sono trasformati in alfieri del libero commercio, nella convinzione che nessun altro Paese fosse in grado di concorrere con loro.
Non stupisce quindi che il protezionismo venga rispolverato negli Usa proprio nel momento in cui una grande nazione come la Cina sta rapidamente colmando il divario. Il punto è che la Repubblica Popolare Cinese non sta affrontando questa sfida chiudendosi in se stessa, ma aprendosi in maniera selettiva ai vari attori economici esterni sulla base delle priorità dello sviluppo dell’economia nazionale. In questo modo, Pechino ha avuto modo di trasformare la propria frontiera in un filtro qualitativo in grado di impermeabilizzare il Paese dalle tendenze esterne che intralciano lo sviluppo interno e lasciar entrare invece quelle che lo agevolano. Il mega-progetto della Via della Seta, consistente in una sterminata rete infrastrutturale volta a collegare l’intera Eurasia per favorire i commerci entro questo immenso spazio geografico, risponde in pieno a questo scopo.
Inoltre, come spiega l’economista francese Jacques Sapir, «storicamente i grandi periodi di crescita delle economie hanno coinciso con periodi di protezionismo, come in Europa dal 1945 agli anni ’80. Nei fatti, con l’apertura integrale delle economie si constata una diminuzione della crescita – diminuzione della crescita, certo, ma non diminuzione dei profitti. In realtà, il libero scambio permette di mantenere molto elevati i tassi di profitto mentre la crescita diminuisce. Si ritiene comunemente che questi profitti si debbano trasformare in investimenti. Più profitti oggi è la garanzia di più investimenti domani e di più occupazione dopodomani. Ma questa ‘garanzia’ è del tutto illusoria: i profitti di oggi possono dissiparsi in attività speculative o in spese improduttive che non hanno alcun impatto sull’investimento o sull’impiego. Di conseguenza, questo giustifica le politiche protezioniste, che passino per i diritti di dogana, per le misure di regolamentazione, per le norme sociali o ambientali, o ancora per un forte deprezzamento del tasso di cambio della moneta nazionale. In realtà l’apertura delle economie alla concorrenza nazionale produce effetti benefici soltanto se questa concorrenza è ‘giusta’, vale a dire se coinvolge progetti imprenditoriali e non meccanismi di dumping salariale, sociale o fiscale. Questa è dunque la lezione che la politica attuale di Donald Trump di ci ricorda. Ecco perché conviene prestarvi attenzione».