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Stiamo sottovalutando il male

di Francesco Lamendola - 20/11/2017

Stiamo sottovalutando il male

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Se dovessimo sintetizzare in una formula brevissima, lapidaria, il problema più urgente, più grave, più diffuso nella nostra società, un problema etico che si trasforma immediatamente, sul piano pratico, in un problema di ordinata e civile convivenza, o anche di pura e semplice sopravvivenza, senza esitare diremmo: la sottovalutazione del male. La nostra società sottovaluta il male, perché la nostra cultura ci culla in un senso di fiducia puramente illusorio.
Ci capita continuamente, parlando con le persone, e specialmente con i giovani, di fare questa constatazione: è come se la società contemporanea avesse smarrito gli anticorpi nei confronti del male; o meglio, è come se avesse voluto sbarazzarsene deliberatamente, gettandoli nel cestino della carta straccia, convinta di non averne più bisogno. Gli uomini moderni, e specialmente i giovani, sono convinti di avere in sé abbastanza coscienza e abbastanza volontà per distinguere il bene dal male e per sapersi regolare di conseguenza. Sono altresì certi, certissimi, di potersi esporre impunemente agli influssi del male, senza risentirne alcuna seria conseguenza. Se si discute con un ragazzo di sedici, diciassette anni, si scopre che egli, pur ammettendo di aver trascorso, fin da bambino, e di trascorrere tuttora, molte ore con i videogiochi, e pur riconoscendo che si tratta, in gran parte, di giochi violenti, a base di omicidi e crudeltà, è perfettamente convinto che la cosa non ha e non avrà alcuna influenza su di lui, sulla sua lucidità, sul suo senso morale, sul suo modo di porsi di fronte agli altri nel corso della vita. Senza batter ciglio, vi dirà, magari lievemente infastidito, che non c’è niente di strano nel giocare, fin da piccoli o piccolissimi, in quella maniera, e che ore di visione quotidiana (alla televisione) o di esercizio in proprio, e sia pure virtuale (sul computer o al telefonino) della violenza più becera, gli scorrono sopra senza sortire alcun effetto, senza minimamente influenzarlo in senso negativo nelle sue relazioni interpersonali; che egli non è un violento, né lo sarà mai, e che è del tutto capace di controllarsi, di rispettare il prossimo, di ottemperare alle leggi, eccetera. Nei confronti dei suoi genitori, che lo hanno lasciato passare così il suo tempo libero, avrà parole di stima e di gratitudine; e per il papà o la mamma che se ne sono andati di casa, sfasciando la famiglia (situazione, ormai, sempre più frequente, al punto da prefigurare la “normalità” dei prossimi anni), raramente avrà parole di biasimo, vi dirà che ognuno deve fare la sua vita e che, in fondo, ci sono tantissimi modi di ”essere famiglia”. Se gli parlerete dei molti casi, anche di cronaca nera, i quali dimostrano come vi sia una relazione fra certi stili di vita privi di valori, da un lato, e certi comportamenti aggressivi e violenti, dall’altro, lui risponderà negando in partenza tale relazione e rifiutando un simile accostamento: dirà che i casi aberranti ci sono sempre stati, ma che non dimostrano nulla, perché moltissime persone, in fondo, continuano a vivere in maniera sana, mostrando bontà, delicatezza, attenzione verso il prossimo. Né molto diversi sono i discorsi di tantissimi adulti: in fondo le cose non vanno così male, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce, ma la società, a ben guardare, è sana; e, quanto ai giovani, bisogna aver fiducia in loro, sono più svegli e maturi di quel che non sembri, eccetera. Insomma, una mano lava l’altra: i figli “assolvono” i genitori, e questi giustificano i figli e si mostrano assai ottimisti circa la loro capacità di crescere in maniera autonoma, retta e onesta.
In sintesi: quasi tutti, giovani e adulti, a nostro avviso, stanno commettendo un errore gravissimo, la sottovalutazione del male. Alcuni lo fanno per auto-giustificarsi; altri, per rimuovere ciò che non possono modificare, facendo di necessità virtù; altri ancora, perché sono ben decisi a non mettersi in discussione, e perché incapaci di autocritica e di un sincero e approfondito esame di se stessi. A parole, sono tutti molto fiduciosi nella capacità umana di vivere in maniera etica, pur trascurando o disprezzando i pre-requisiti essenziali, come quello di non esporsi volontariamente all’influsso prolungato dei cattivi esempi, a cominciare da quelli provenienti dalla tecnologia informatica. Dicono che non bisogna demonizzare la tecnica, né colpevolizzare quanti la usano (e magari ne abusano). Sono anche capaci di dispiegare una notevole dialettica proprio per sostenere questa loro tesi: che un bambino può immergersi per ore, tutti i giorni, nei programmi televisivi o nei giochi infornatici violenti, e non riportarne alcun danno; una dialettica che non possiedono allorché si tratta di svolgere un ragionamento su qualsiasi altro oggetto, non diciamo di tipo filosofico, ma anche solo di carattere vagamente culturale, storico, artistico o scientifico, e persino di tipo puramente pratico. Come un giocatore di tennis, che sviluppa in maniera abnorme la muscolatura di un braccio solo, così essi sembrano allenati a sostenere con grinta e decisione la difesa ad oltranza dei loro modi di vivere e di fare, laddove non saprebbero spiegare quale differenza essenziale ci sia fra un grattacielo e una cattedrale, o fra Topolino e la Divina Commedia, o fra un gabinetto e la Gioconda. Alla base del loro modo di ragionare c’è, di solito inconscia, una rocciosa certezza: che l’uomo è buono, o, in ogni caso, che è capacissimo di sviluppare la sua parte migliore, da sé, con la sua intelligenza e volontà, con le sue sole forze; talmente capace, da potersi prendere il lusso di lasciarsi sollecitare da continui modelli ed esempi negativi, senza risentirne minimamente; talmente sicuro, da non dover prendere alcuna precauzione contro impulsi o tendenze che, già presenti in lui, potrebbero prendergli la mano, e trascinarlo dove lui non avrebbe mai creduto di poter andare, o a fare cose che non avrebbe mai sospettato di poter fare.
L’idea che l’uomo sia originariamente buono è una solenne sciocchezza che deriva da Rousseau, e, prima ancora, da Pelagio. L’idea che egli sia talmente intelligente e capace di sapersi controllare a piacere, indipendentemente dal modo in cui vive e dagli ambienti che frequenta, o dalle cose che fa, è un’idea tardo rinascimentale, deriva da Bacone più che da Erasmo. Le due idee, sommandosi, producono il tipico accecamento dell’uomo contemporaneo, così follemente sicuro di sé, così arrogante e superbo, da non ammettere di poter fare il male: l’accecamento dell’uomo che si sente un dio, che si crede Dio. A ciò si aggiunga l’altra idea, che parte da Socrate, secondo la quale basta sapere quale sia il bene, per non potersi trattenere dal cercarlo e dal farlo; idea largamente penetrata, come materiale di risulta, nella civiltà moderna, figlia di una rivolta radicale contro la tradizione: e si avrà un quadro abbastanza completo di questo accecamento. Infine, si aggiunga che l’uomo contemporaneo è talmente immerso nella ricerca esasperata dell’utile e del piacevole, da sapersi inventare tutti i sofismi che gli consentano di giustificare i suoi comportamenti sbagliati e gli permettano di razionalizzare ciò che non è, in alcun modo, razionalizzabile: ossia la profonda irragionevolezza del modo di vivere proprio della modernità. E così facendo, egli è il peggior nemico di se stesso: perché nessun nemico esterno sarebbe così abile, così tenace, così instancabile nel nascondergli i sintomi del suo malessere e le cause della sua instabilità. In un certo senso, somiglia a un fumatore accanito, affetto da un tumore ai polmoni, il quale non sia assolutamente disposto ad ammettere che vi è una relazione tra il suo fumare e la sua malattia; oppure ad un uomo che si ostini a frequentare una località contaminata dalle radiazioni nucleari, e che dica non esservi ragione di preoccuparsi, perché basta prendere alcune semplici precauzioni e il pericolo scompare, oppure non è, comunque, un pericolo più grave che in qualsiasi altra situazione, visto che le radiazioni potrebbero esserci ovunque, anche a nostra insaputa. Sono solo sofismi da quattro soldi, evidentemente; pure, l’uomo contemporaneo è bravissimo a fabbricarsi sofismi di questo genere, al solo scopo di poter restare tranquillo nel pantano, di poter seguitare a vivere in maniera pericolosa e disgraziata, soprattutto in maniera ingiusta. Ma, per capirlo, o anche solo per sospettarlo, bisogna avere la nozione della giustizia, nel suo senso più ampio e profondo, intesa soprattutto come giustizia morale; ed egli non ce l’ha, non l’ha mai avuta, anche perché nessuno si è preso la briga d’insegnargliela, a cominciare dai suoi cari genitori. L’uomo contemporaneo è un cieco gonfio di superbia, impazzito per la sindrome di onnipotenza, che lo ha reso letteralmente schizofrenico: da un lato ritiene di poter esercitare un dominio e un controllo su ogni cosa, e non c’è nulla che gli sembri capace di resistergli, dall’altro lato è soggetto a frequenti e repentine crisi di sfiducia, di panico, di angoscia, di auto-disprezzo, di desiderio di morte. I grattacieli, queste moderne Torri di Babele, sono il simbolo di una tale hybris, di una tale perdita della misura e del limite; ma sono anche il simbolo della fragilità, perché, quanto più sono alti, tanto più sono precari e vulnerabili, e tanto più catastrofico sarà il loro eventuale crollo.
C’è, in medicina, una malattia, fortunatamente rara, chiamata CIPA, acronimo che sta per Congenital Intensivity to Pain with Anhidrosis, che consiste nell’assenza di percezioni tattili e nella anidrosi, cioè assenza di sudorazione, per cui chi ne è affetto non avverte né il caldo, né il freddo, né il dolore relativo. Una persona del genere, pertanto, rischia di congelare o di abbrustolirsi senza rendersene conto. Ebbene: ci pare che la malattia morale dell’uomo contemporaneo tenda a manifestarsi sempre più come insensibilità al bene e al male, e, in particolare, come incapacità di vedere, di percepire e di temere il male. Ma il male, purtroppo, c’è: c’è fuori di noi e c’è, anche, dentro di noi; c’è nella dimensione naturale, e c’è nella dimensione soprannaturale; ci sono varie forme di male, e c’è pure il Male con la maiuscola, il Male assoluto, che coincide con una persona precisa, lo spirito del Male. Ignorare tutto questo è il mezzo più sicuro per cadere sotto il suo potere; e la schiavitù più terribile, come è noto e come sa chiunque sia capace di una sia pur minima riflessione in proposito, è quella che viene subita, ma non percepita come tale: la schiavitù dello schiavo che si crede libero, che non vede le proprie catene, non perché sia così spirituale da considerarle impotenti a impedire l’esercizio della sua libertà interiore, ma semplicemente perché è così sciocco da non vederle affatto, da non vederle in senso fisico. E quando ci si trova in quello stadio, non c’è più nulla da fare; come non c’è nulla da fare quando si è dormienti, e  ci si crede desti e consapevoli, o quando si è sprofondati nella menzogna, e ci si ritiene le persone più sincere e leali del mondo, credendoci veramente. Qualunque richiamo, qualunque esortazione, qualunque avvertimento risulteranno perfettamente inutili: non si può risvegliare colui che dorme, se il suo sonno consiste nel credersi già sveglio; e non si può salvare il pazzo che sta sfidando la morte, se la sua pazzia consiste nel non vedere il pericolo che incombe su di lui. Perché si metta in atto un tentativo di salvezza, bisogna innanzitutto essere consapevoli che il pericolo c’è, che esiste, e che è anche abbastanza vicino; se no, tutto ciò che potranno fare o dire gli altri non servirà assolutamente a nulla. Chi vuole perdersi, si perderà; per salvarsi, è necessario esser capaci di vedere le cose come sono, e non come a noi piace credere che siamo, magari per scusare la nostra pigrizia.
L’uomo contemporaneo, pur così disincantato e perfino cinico, crede ancora, in realtà, alle favole: strano paradosso, ma vero. Quelle di Socrate, di Pelagio, di Rousseau, e soprattutto quelle, veramente micidiali, di Francesco Bacone. E non sono, ahimè, favole buone: sono favole cattive, tali da trascinare nell’abisso colui che vi presta fede. L’uomo non è buono: questo è il punto; non è un angelo, non è un essere intenzionato a fare sempre il bene. Non è neppure una creatura malvagia; ma, piuttosto, una mescolanza di male e di bene, per cui vive come sospeso su un abisso. Basta una spinta, ed egli può “cadere” sia nel bene, che nel male: tuttavia, mentre la scelta del male è facile e, spesso, allettante, quella del bene è una scelta in salita, che comporta rinunce e sacrifici. Ora, rinunce e sacrifici sono possibili a un’anima allenata e, soprattutto, educata e guidata verso il bene; per cui è estremamente importante che, nella formazione della personalità, sin dalla più tenera infanzia, i genitori e gli adulti facciano il possibile per favorire l’acquisizione dei valori morali e per proteggere il bambino dagli esempi cattivi. Se mancano queste condizioni, e il bambino viene lasciato esposto agli influssi malefici, sarà la parte malvagia della sua personalità a venire a galla, non la buona. È strano, ma pare che una cosa tanto evidente sia stata persa di vista da moltissimi adulti; cesserà di apparire strana, tuttavia, riflettendo che la società odierna, nel complesso, pare abbia abdicato alla sua funzione educante, e il rapporto fra i genitori e i bambini sembra che si stia risolvendo in una specie di bancomat permanente, dove i genitori pagano e comprano tutto ciò che i figli, sotto l’influsso del consumismo, chiedono, mentre, da parte loro, rinunciano a chiedere ai figli qualsiasi cosa, anche il rispetto dei doveri più elementari, a scuola e in famiglia. Il che è il modo migliore per far sì che i ragazzi entrino nella vita totalmente immaturi e impreparati ad assumersi qualunque seria responsabilità. Una particolare nota di biasimo, se così si può dire, spetta alla sola istituzione che, fra tutte, avrebbe gli strumenti per far riflettere le persone, e specialmente i giovani, sul tema del bene e del male: la Chiesa cattolica. Da quando la teologia antropocentrica si è insinuata in essa e una neochiesa modernista si è sostituita, grado a grado, alla vera Chiesa, si è deliberatamente minimizzato il problema del male, si è smesso di parlare del peccato e del giudizio, e si è dato a credere che tutto può essere perdonato da Dio, con o senza pentimento. Il che è falso…