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Sul deep state

di Enrico Tomaselli - 02/03/2025

Sul deep state

Fonte: Giubbe rosse

Si parla sempre più spesso di deep state, ed io stesso faccio spesso ricorso a questa espressione. Se ne fa in genere uso per designare una caratteristica tipica del sistema di potere statunitense, ma – anche se in effetti è qui più che altrove che se ne può ragionevolmente parlare – in realtà non si tratta di una realtà circoscritta agli states; recentemente ho scritto un testo in cui, ad esempio, parlavo di un deep state europeo.
Per quanto possa sembrare strano, il termine ha origine in Turchia; fu l’ex primo ministro di sinistra Mustafa Bülent Ecevit a coniare l’espressione (in turco, derin devlet), con riferimento alla rete di potere laico-militare costituitasi intorno a Kemal Ataturk, e poi sopravvissuta alla sua morte.
La definizione attuale di ciò che è il deep state non è però univoca. Secondo Wikipedia [1], “si intende a livello politico l’insieme di quegli organismi, legali o no, che grazie ai loro poteri economici o militari o strategici condizionano l’agenda degli obiettivi pubblici, di nascosto e a prescindere dalle strategie politiche degli Stati del mondo, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica. Detto anche ‘Stato dentro lo Stato’, è costituito da lobby e reti nascoste, segrete, coperte, di potere in grado di agire anche contro le pubbliche istituzioni note.”
Questa definizione a mio avviso, però, rischia di risultare fuorviante, in particolare in riferimento alla situazione per eccellenza, cioè gli Stati Uniti. L’immagine che ne risulta, infatti ricorda molto da vicino quella a noi ben nota di servizi deviati (con riferimento ai numerosi episodi in cui i servizi segreti italiani hanno agito al di fuori e contro quella che era la linea politica ufficiale dello stato). Un’immagine che tende a separare e contrapporre – appunto – lo stato profondo e lo stato ufficiale. Questo tipo di interpretazione però ha due grossi difetti: il primo, più evidente, è proprio quello di operare una distinzione tra questi due livelli, dipingendoli come separati e addirittura possibilmente conflittuali; il secondo è rappresentare il deep state come uno stato e come occulto. Entrambe le cose non sono vere.
Cominciamo col dire che tutti gli elementi che vanno a costituire il deep state – e poi vedremo quali sono – hanno una pubblica visibilità; magari non vanno in tv ad ogni telegiornale, ma si tratta di persone ed organismi noti, che esprimono pubblicamente le proprie idee ed i propri orientamenti. Ovviamente, tanto per dire, il grande pubblico non legge i report di centinaia di pagine elaborati nei think tank, ma sono comunque facilmente reperibili. E, cosa più importante, non siamo di fronte ad uno Stato nello Stato. La rappresentazione come stato implica che siamo in presenza di un organismo, che ha una sua struttura ben precisa, e soprattutto una precisa linea di comando. Il che non è.
Veniamo quindi ad abbozzare un ritratto di ciò che il deep state è effettivamente – sempre facendo riferimento a quello statunitense.
L’immagine più prossima possiamo prenderla in prestito da internet, potremmo infatti descriverlo come un network, cioè una rete formata da nodi collegati tra loro in vario modo, e che sono accomunati dal fatto di avere una qualche forma di potere. In questo senso, potremmo anche parlare di una community. Ovviamente all’interno del network – anche se parliamo di una struttura reticolare, orizzontale – ci sono nodi che hanno un peso maggiore ed altri che ne hanno uno minore, ma comunque possono influenzarsi vicendevolmente, e non necessariamente in modo verticale, top-down.
Per capire natura e composizione dello stato profondo, è necessario fare però un passo indietro.
Per una grande potenza imperiale, che trae cioè la maggior parte della sua ricchezza (e quindi del suo potere) non dalla propria capacità produttiva, ma dalla propria capacità predatoria nei confronti di altri, il mantenimento dell’impero, della propria egemonia, è fondamentalmente una questione di strategie di lungo periodo. Quando la struttura formale dello stato imperiale ha una forma democratica, e quindi soggetta al ricambio delle classi dirigenti, diventa necessario che ci sia una ossatura in grado di garantire la continuità, a prescindere dai mutamenti elettorali. Serve insomma un insieme di elementi, non soggetti allo spoiling system, né tantomeno ad una convalida elettorale. Questo insieme è, in un certo senso, il nocciolo del deep state, intorno al quale si agglutinano altre forze, spesso assai più potenti. È in questo humus che vengono elaborate le strategie di medio e lungo periodo, e qui che vengono ridiscusse, e qui che – in ultima analisi – vengono non solo delineate le linee di azione imperiali, ma vengono anche individuate le classi dirigenti a cui affidare di volta in volta il compito.
Il tutto, per quanto riguarda gli Stati Uniti, in un contesto dove la partecipazione democratica è abbastanza relativa, in cui l’opinione pubblica è più facilmente manovrabile che altrove, ed in cui quindi il potere oligarchico è assai forte, anche se lascia volentieri il proscenio ad altri.
Quando parliamo di deep state, quindi, facciamo riferimento ad una serie di organismi e/o individui che, per ragioni diverse, hanno un potere effettivo, ma non necessariamente la medesima visione su quali siano le strategie migliori, o le migliori classi dirigenti. Non è, insomma, un monolite. Al contrario, le dinamiche interne al network tendono ad essere mutevoli ed anche vivaci, e gli esiti finali sono sempre il prodotto dei rapporti di forza che si determinano, e che giungono ad un punto di equilibrio tra interessi e spinte ideologiche diverse.

Possiamo pertanto, per cominciare, mettere in conto al network quell’insieme di funzionari pubblici che garantiscono la continuità della macchina statale federale, e che possono agevolare oppure ostacolare l’azione del governo. Sempre restando in ambito pubblico, possiamo aggiungere la struttura del Pentagono, e l’ampia community delle agenzie di sicurezza. Tutti organismi in cui solitamente il ricambio per lo spoiling system avviene solitamente solo per le posizioni apicali, mentre il grosso della macchina rimane inalterato.
A seguire, troviamo tutto il mondo dell’infotainment, dai media tradizionali ad Hollywood, ai grandi social network, eccetera, tutti elementi fondamentali per il controllo dell’opinione pubblica. Il mondo accademico, soprattutto quello della Ivy League (Brown University, Columbia University, Cornell University, Dartmouth College, Harvard University, University of Pennsylvania, Princeton University, Yale University), e quello scientifico e dei centri di ricerca.
E poi, ovviamente, il mondo economico, sia industriale che finanziario. In posizione apparentemente secondaria c’è poi una rete di think tank, finanziati dai vari stakeholders, che si occupano di analisi ed elaborazione strategica, influenzando a loro volta le scelte dei nodi più importanti. Tutto ciò, inutile sottolinearlo, tratteggiando in modo del tutto sommario la composizione del deep state.
L’insieme di questi soggetti, ciascuno portatore di suoi specifici interessi, è accomunato – come si diceva – dal fatto di avere una qualche forma di potere, dal non essere soggette al frequente ricambio come le classi dirigenti politiche, e – in un certo senso – dall’avere un interesse comune nel difendere e rafforzare quel potere imperiale in cui prosperano.
Come si può facilmente intuire, l’estensione e la rilevanza politica del deep state è tanto maggiore quanto più grande e importante è la dimensione in cui si trova ad operare (come del resto suggerisce il fatto che l’espressione sia nata in Turchia). Al contrario, quanto più è piccola la dimensione in cui opera, e soprattutto quanto più questa è poco rilevante, tanto più ridotta sarà l’importanza del deep state (i cui elementi, come è evidente, sono comunque presenti in ogni società statuale), sino ad essere del tutto assente. Ad esempio, per quanto in Italia vi siano dei poteri di fatto, diversi da quelli costituzionali, questi non si sono mai coagulati in una forma simile a quella sin qui esaminata.
In conclusione, e tornando su uno dei punti iniziali, il fatto che l’espressione deep state risulti sotto molti aspetti fuorviante, pone sicuramente un problema, poiché appunto il suo uso rischia di ingenerare fraintendimenti – il più classico dei quali è proprio quello di immaginare due stati, uno occulto ed uno pubblico, in cui il primo opera al di fuori della legge e contro il secondo. Come abbiamo visto – per chi ovviamente condivide questa lettura del fenomeno – in realtà quello che chiamiamo deep state non solo non è uno stato a sé (tanto meno occulto), ma anzi è parzialmente composto proprio da pezzi dello stato ufficiale. Pezzi che, è bene chiarirlo, non sono infedeli allo stato pubblico (per certi versi, si potrebbe addirittura dire che lo sono di più, rispetto al ceto politico che si avvicenda). Semplificando all’estremo, si potrebbe dire che – dal loro punto di vista – gli elementi che compongono il deep state pensano ed agiscono secondo una visione che, in termini temporali, trascende quella delle classi dirigenti politiche pro tempore.
Alla luce di queste considerazioni, sono giunto alla conclusione che, al fine di evitare per quanto possibile i summenzionati fraintendimenti, d’ora in avanti – e nel mio piccolissimo – adopererò piuttosto l’espressione deep power, augurandomi di non generare a mia volta confusione.

1 – Cfr. “Stato profondo”, Wikipedia