Sul non fare
di Flores Tovo - 17/07/2023
Fonte: Flores Tovo
Nella “Lettera sull’umanesimo” (1), uno scritto filosofico reso pubblico poco dopo il secondo dopoguerra, Heidegger riteneva che la principale domanda che ci si doveva porre non era quella del “Che fare?”, ma quella di cosa non si deve fare o ancor meglio di “che cosa lasciar stare”. Queste affermazioni, che sono antitetiche rispetto ai filosofi della prassi, marxisti e non, vengono affermate da Heidegger per il motivo che nell’epoca dell’espansione apparentemente incontenibile del deserto del nichilismo, è impossibile credere ad una filosofia dell’azione, per quanto essa possa essere potentemente elaborata. Il Leviatano moderno sembra invincibile. Cosicchè l’undicesima tesi su Feuerbach di Marx, che è scritta pure a mo’ di epitaffio sulla sua tomba, che sanciva che “I filosofi hanno interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di traformarlo” viene del tutto stravolta da Heidegger, poiché egli riteneva appunto che la filosofia della prassi, di fronte al gigantesco macchinismo creato dal capitalismo, nulla può. Per cui, in definitiva, il suo pensiero, poeticamente vagheggiante, si rivolge come un remoto richiamo per pochissimi uomini venturi, purchè siano capaci di invocare e poi diffondere l’idea di una venuta di un Ultimo Dio: il Dio della salvezza. Un richiamo che sembra quasi una supplica, o meglio una rimemorazione evocata da una sfuggente risonanza di un Essere, che noi spesso chiamiamo Dio, che continua ad abbandonarci, e che, forse, ma non si sa quando, potrebbe ritornare.
Lo stesso Heidegger definiva inautentica una vita immersa nell’indifferenza o nella passività: tuttavia, ci si chiede, che altro non è una vita vissuta in una attesa di un Dio, che non si sa se verrà? Eppoi chi sono questi uomini venturi? Essi non sono soggetti individuati in virtù del loro ruolo culturale, economico o sociale, pur cui non si sa bene chi siano e che cosa siano in grado di fare. E. Jünger, perlomeno li individuava nel “Ribelle” (2) (che in realtà è una figura metastorica), che è colui che sa che cosa sta accadendo nel mondo. Un mondo che quando gli è contro come nemico, lo spinge a difendersi e, se può, ad uscire dal proprio boschetto protettivo, per contrattaccare a petto in fuori. Quindi, per il Ribelle anche solo il chiedersi “su che cosa si può fare”, può ancora condurci alla ricerca del significato del termine “dignità umana”.
Certo che pontificare sulla nicciana morte di Dio, sperando poi, seduti sul proprio divano, che ormai solo un Dio ci aiuti per la nostra salvezza, è più che altro una rappresentazione, ad un tempo contraddittoria e alquanto miserevole della figura dell’intellettuale moderno o post-moderno che sia. Una rappresentazione che segnala inconfutabilmente l’esausta energia, anche fisica, dei presunti ceti colti o semicolti, o per niente colti, che come tali, li si può “ammirare” quali saltimbanchi prezzolati dai media dei regimi “democratici”.
Con ciò non si vuole certo incolpare né direttamente né indirettamente Heidegger di essere responsabile di questa povertà d’essere che egli, invece, con tutta la profondità del suo pensiero prodigioso, rivelò. Egli tuttavia non propone né vie, né programmi: anzi, come s’è scritto, egli statuisce l’inanità operativa della filosofia (3), incapace di riaprire i sentieri interrotti. Come scrisse F. Volpi, grande traduttore e commentatore delle sue opere in lingua italiana, invocare un Ultimo Dio, celebrare il ruolo del Poeta, prospettare l’avvento di Uomini venturi, senza connotarli in una dimensione ontologica sociale, di fatto comportano un naufragio “di un grande bastimento” (4).
Di parallelo si può constatare un radicale scetticismo nei confronti del sapere filosofico, tanto che la stessa filosofia nel Novecento è precipitata nell’oscurità del dubbio coi vari Wittgenstein (novello Hume), Popper, col Neopositivismo, ed altri “filosofi” che sono di fatto sono proni al potere del liberal-liberismo. Pensatori che sono comunque dei nani non solo di fronte al gigante Heidegger, ma anche rispetto a pensatori irrazionalisti come Hobbes o Schopenhauer.
Eppure per amare la filosofia basterebbe solo chiedersi se, senza di essa, sarebbero esistite la civiltà classica, quella medioevale, quella rinascimentale, il Romanticismo e le stesse ideologie del Novecento.
In aggiunta, la filosofia della prassi, prospettata dal pensiero idealista di Fichte, Hegel, Marx, Lukàcs, ha inciso profondamente nell’influenzare gli avvenimenti dell’Otto-Novecento (5). In particolare essa ha trovato la sua massima espressione operativa nel marxista V.I. Lenin, che presentò il suo programma politico in un libretto, che poi fu per molto tempo il più letto nel mondo, intitolato non a caso “Che fare”. In effetti, si può dire che tutte le rivoluzioni che avvennero nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo trovarono la guida pratica proprio in tale scritto, che prevedeva la formazione di un gruppo di rivoluzionari professionisti, colti e disposti a tutto, obbedienti “perinde ac cadaver” al capo (in fondo il modello era quello di S. Ignazio di Loyola). Lo stesso A. Gramsci, rielaborando il programma di Lenin e adattandolo ai paesi più avanzati economicamente, all’interno dei quali riteneva che bisognava agire con una lunga marcia attraverso le istituzioni occupandone le casematte del potere, promosse in modo determinante coi suoi “Quaderni dal carcere” la straordinaria avanzata del Partito comunista in Italia. E lo stesso dicasi sull’altro versante politico, con gli scritti di V. Pareto, di G. Sorel, di G. Gentile ed così via, poichè la filosofia della prassi non ha in verità nessuna colorazione politica. Tuttavia essa, pur trovandosi in una crisi profonda in Occidente, a causa del suo occultamento perpetrato dai mass-media dominanti e dalle corrotte università, sta ritrovando forza e creatività in Centro-sud America, in Russia con, in particolare, A. Dugin, e in Cina. Del resto la filosofia è il pensiero profondo che si domanda sulle cose ultime, sia sul piano pratico che teoretico. Esso non potrà mai estinguersi nonostante la sua regressione che si nota soprattutto nelle nostre società cosiddette post-moderne per volontà di un potere politico-economico distorto che ha reso inerti i ceti culturali con la corruzione e le grandi masse popolari col consumismo spazzatura.
Ma al di là di queste semplici constatazioni, anche le stesse vicissitudini presenti nel mondo attuale non potrebbero essere comprese se non ci si riferisce allo stesso pensiero filosofico originario, in particolare a quello oracolare di Eraclito. Egli scriveva in modo profeticamente “divino” che tutte le cose del mondo, anche se sembrassero avvolte nel buio più oscuro, vengono prima o dopo ordinate fra loro (fr.7), seppur in un modo nascosto. Infatti tutto è governato da un principio razionale che mette ordine al caos (che è un abisso spalancato verso il nulla). Il filosofo scriveva a proposito: “Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso il tutto” (fr. 41). Questo principio non si identifica con l’Ultimo Dio heideggeriano di cui si accennava; e nemmeno con quella “mens insita omnibus” di cui Giordano Bruno scriveva. Non è neanche di certo la Provvidenza universale degli Stoici o quella personale del Cristianesimo: è un principio oggettivo che governa tutte le cose, sopra di esse e al contempo dentro di esse. E’ un principio che tutto unifica (si vedano i fr. 50 e 10 dello stesso Eraclito) e che stabilisce che vi è una ragione oggettiva che va oltre la ragione soggettiva umana sempre condizionata dai limiti empirici della propria esistenza (L’opinione è epilessia...fr.46). Esso si palesa come “l’unità fra i contrari”, che dirige la realtà storica in modo dinamico, poiché essa è il teatro di una lotta perenne, che può assumere vari aspetti: il conflitto (il pòlemos), può infatti essere competizione fisica o intellettuale, concorrenza, sfida e risposta, azione e reazione. Esso può anche essere guerra. Una guerra che alla fin fine, “…come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia duratura, così preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua (6). La storia presenta sempre una attività ritmica: e quando le opposizioni, che ne sono il motore, vengono a mancare in una parte del mondo, esse sorgeranno da un’altra parte. Il delirio di un dominio universale degli Usa coi suoi vassalli sta scemando sempre più perché le opposizioni, che sono quasi scomparse all’interno delle società occidentali vacue, perverse e tenute in piedi, fin che dura, dal consenso ottenuto da un fittizio benessere, finalmente sono risorte in altre parti del mondo per mezzo dello spirito appartenente a società più sane e più naturali.
Quindi, se da noi la prospettiva di un “Che fare” per il momento è dispersa nel buio delle “vacche nere”, altrove ha ritrovato un vigore inaspettato e una forza formidabile. Questo dimostra che il Soggetto spirituale umano, è pur sempre condizionato da quello Oggettivo. Lo spirito della valle veglia su di noi.
Note:
1) M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanesimo, si trova in “Segnavia”, pp. 267-316, ed. Adelphi, Milano 1994.
2) Si veda il famosissimo dialogo filosofico, fra M. HEIDEGGER e E. JÜNGER, Oltre la linea, ed. Adelphi, Milano 1989.
3) L’opera più “profetica” di Heidegger è senza dubbio “Contributi alla filosofia”, (Dall’evento), ed. Adelphi, Milano 2007. In essa vi è una veggenza incredibile sul nostro mondo attuale, pur se si nota una crescente disperazione.
4) F. VOLPI, La selvaggia chiarezza, ed. Adelphi, Milano 2011, p. 299.
5) Un lavoro assai interessante a riguardo è stato scritto da D. FUSARO, Idealismo e prassi, Fichte, Marx e Gentile, ed. Il Melangolo, Genova 2013.
6) G.W.F HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, ed. Rusconi, Milano 1996, p. 545.