Sull’assenza della verità
di Flores Tovo - 22/04/2022
Fonte: Flores Tovo
L’assenza della verità non è da intendersi come il semplice dominio della menzogna che l’ha sostituita. L’assenza della verità è soprattutto assenza del pensiero, poiché il pensiero nasce e si compie interamente solo attraverso la verità. Comunque, prima di rispondere sul perchè di tale assenza, bisogna cercar di capire cos’è la verità. E’ assai probabile che l’etimologia della parola verità sia di origine sanscrita, che è una lingua indoeuropea: la parola è vrtta, che significa fatto, accadimento. Pure nei testi antichi zoroastriani troviamo la radice var, che significa credere e che corrisponde alla parola sanscrita varami che si traduce come scegliere o volere. Ovviamente ci sono altre interpretazioni dell’origine della parola. Ma non ci stiamo curando di questo. Ora si sa che la tradizionale formula che definisce la verità è espressa in latino dagli Scolastici sulla scorta della filosofia aristotelica (Metafisica, libro VII): essa stabilisce l’essenza della verità come “adaequatio rei et intellectus”. Vale a dire che ci deve essere una adeguazione, o meglio una conformità o una corrispondenza fra un giudizio pensato e una cosa rappresentata. La vrtta, appunto. Bisogna aver chiaro comunque che il vero e il falso nascono solo con un giudizio o proposizione. Infatti se si usano singolarmente concetti come “uomo”, “corre”, “vince”, “bianco” questi non è né veri, né falsi, giacchè sono vere o false solo le combinazioni fra di loro. Se per esempio dico che “quell’uomo corre” e sta in effetti correndo, il giudizio è vero. Aristotele stabilì inoltre che la verità sta nelle proposizioni dichiarative o apofantiche e non nella cosa rappresentata. Il fatto in sé, o fenomeno, è muto. Solo col giudizio la verità o la falsità vengono poste. I fatti sono solo la misura, il punto di riferimento, ma essi, poiché sono muti, non sono perciò la verità: essa si compie solo nel pensiero articolato. Aristotele aggiunge inoltre che il fatto deve accadere realmente, perché anche un ragionamento perfetto, come è il sillogismo, sebbene sia logicamente valido, cioè rispettoso di tutte le regole logiche, è falso se il fatto non sussiste (nisi est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu). E’ chiaro quindi che la corrispondenza fra pensiero e cosa deve essere perciò conforme.
Ciò che si è scritto sinora è l’espressione corrente e comune del concetto di verità. Tuttavia abbiamo visto che l’etimologia della parola verità può essere intesa come scelta, come libertà di volere. Un grande approfondimento di tale punto di vista lo dobbiamo a Martin Heidegger, quando si interroga sull’essenza della verità. Nel suo saggio “Dell’essenza della verità” (1) egli scrive la seguente meditazione:
“La questione dell’essenza della verità non si cura di stabilire se la verità è una verità dell’esperienza pratica della vita o di un calcolo economico, se è la verità di una riflessione tecnica o di una forma artistica, o se invece è la verità di una meditazione pensante o di una fede che si esprime nel culto. La questione dell’essenza prescinde da tutto questo e guarda ad una sola cosa: che cosa in generale caratterizza ogni “verità” in quanto verità” (2).
Heidegger si interroga allora sul perché è possibile la corrispondenza fra pensiero e cosa, ossia su qual è il fondamento che la rende possibile.
Egli ritiene che la consegna di conformarsi ad una qualsiasi rappresentazione oggettuale è possibile solo perché l’esserci umano è aperto ad adeguarsi con essa, cioè di decidere con una deliberazione atta a vincolare il pensiero con la realtà. Questa apertura implica la libertà, che consiste sempre nel voler vincolarsi o svincolarsi da un eventuale rapporto.
“L’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà” (3).
Ecco che così si spiega il temine antico di “varami”, che intendeva la verità come scelta e volere, ossia come un atto razionale che implica apertura positiva verso ciò che è manifesto, e come proposito di conformarsi ad essa. Una libertà tuttavia che può scegliere l’opposto, cioè la non-conformazione e il non-adeguamento. In tal caso si ha la menzogna voluta.
L’uomo, secondo Heidegger, è Esserci, cioè un ente (il Ci) aperto all’Essere. Questa apertura nasce quando i primi pionieri della civiltà cominciarono a lavorare collettivamente lungo i grandi fiumi, e quindi a progettare. Il progetto implica sia il pensiero sul cosa fare e sia l’intuizione temporale del futuro, poiché il pro-getto si attua verso il futuro, che di rimbalzo implica il ricordo di ciò che si è fatto, ossia il rimando al passato (4): ma non è questo il tema che si vuole ora trattare.
Poiché l’esserci è sostanzialmente apertura e possibilità, vien da sé che egli può scegliere, e questo costituisce la sua essenza. Ecco perché egli può incamminarsi sulla via della verità o sulla via dell’erranza. Quando si sceglie l’erranza, scrive Heidegger, essa “…domina l’uomo e lo fuorvia” (5). Nello stesso tempo l’uomo, però, può scegliere di non lasciarsi fuorviare. La verità è quindi l’evento fondante del pensiero umano, e in tale evento “si trova” anche il suo contrario, cioè la menzogna. La vita diventa perciò un gioco, un tragico gioco d’azzardo, in cui il rischio di una caduta nel non-pensiero, e nel non-essere, cioè nella menzogna, è sempre presente. Proprio per questo Heidegger concepì la verità come “alètheia”, come svelamento o non-nascondimento dell’Essere stesso, da lui inteso principalmente come pensiero e tempo, ispirandosi al pensiero di Parmenide ed Eraclito. La verità, in base a questa prospettiva filosofica, era intesa come un’apertura pre-discorsiva, ontologica, ovvero come l’intuizione originaria: essa è l’accadere stesso dell’Essere in cui l’uomo viene ad essere coinvolto. Heidegger in seguito, dopo un lunga polemica col filologo classico Paul Frieländer, riconobbe comunque che la verità viene esperita subito e soltanto come correttezza del rappresentare e dell’esperire (orthòtes), restando però fermo nella convinzione che la verità è l’apertura all’Essere che a sua volta si apre.
Ora, in relazione a ciò che si è scritto, osserviamo che nel corso della storia umana ci sono state epoche soggiogate dall’erranza ed altre invece rivolte verso la ricerca della verità. Anche il pensiero filosofico, se lo si studia nel suo complesso, è segnato talvolta dal trionfo di filosofie scettiche e nichiliste basate sul dubbio e sul caos, e altre da filosofie che si contrapponevano all’incertezza dubitante, e che cercarono di fondare sistemi di un conoscere saldo e certo. In altre parole si è assistito alla lotta fra coloro che affermavano che non ci sono verità né assolute, nè indubitabili, e coloro che invece ponevano con forza spirituale verità ferme ed incontrovertibili. Il primo importantissimo esempio di tale conflitto filosofico risale all’antichità, e ha avuto effetti su tutta la filosofia successiva (intesa come spirito che si attua nella storia) fino a quella moderna. Si tratta dello scontro fra lo scetticismo radicale di Gorgia da Lentini e Socrate-Platone.
Il vegliardissimo siceliota siracusano Gorgia da Lentini (campò più di 100 anni) divenne famoso affermando le sue tre principali tesi: 1) nulla c’è; 2) se anche qualcosa c’è, non è conoscibile all’uomo; 3) se anche è conoscibile, è incomunicabile agli altri. Tesi che hanno suscitato una discussione filosofica interminabile, per cui è inutile aggiungere altro. Certamente Gorgia negava che ci fosse una Unità trascendente, in quanto escludeva ogni adesione alla realtà di un Essere inteso come Dio eterno ed infinito. Da queste affermazioni discendeva l’impossibilità di una scienza vera, ontologica e assoluta. L’unica via per la comunicazione restava quella del sentimento capace di persuadere gli ascoltatori (peithò), che però poteva aprire le porte all’inganno (apàte). La retorica diventava l’arte della persuasione (che fruttava molti soldi a Gorgia per il suo insegnamento), la quale spianava la strada al caos derivante dall’inganno. La verità, la morale, la giustizia precipitavano nelle spire di una dialettica puramente discorsiva che distruggevano il senso ed ogni predicabilità permanente ad un qualsiasi soggetto. Si giungeva perciò, alla fine del percorso, alla tragedia spalancata sull’orlo di un caos abissale.
Socrate fu il primo filosofo che reagì contro tale relativismo radicale, proponendo, a cominciare da una prospettiva etica imperniata sul concetto di bene, verità intersoggettive condivise. Egli però ragionava ancora in termini umanistici, che erano pur sempre messi sotto la cappa del dubbio, proprio perché tutto ciò che è umano è limitato e finito.
La grande reazione profonda, d’immensa portata storica, fu quella di Platone, allievo di Socrate. La morte ingiusta di questi lo sconvolse al punto tale da spingerlo a costruire una scienza filosofica assoluta (epistème), con lo scopo di sradicare definitivamente lo scetticismo totalizzante di Gorgia e dei Sofisti in generale. Egli si convinse che la catastrofe che si era abbattuta in Grecia con le due guerre del Peloponneso erano da imputare proprio alla degenerazione di tutti i valori fondanti dell’essere umano, a partire dalla distruzione della verità operata da una filosofia perniciosa. Platone fondò il sistema delle idee (da ideìn, vedere), visioni intellettuali della verità, ossia gli “”Immutabili”, a cui pochi (i filosofi) possono accedere. Solo il Sommo Bene, che è l’Uno che trascende le stesse idee, è inaccessibile.
Abbiamo riportato, in estrema sintesi, questo esempio filosofico, perché esso rivela sinteticamente il destino che costituisce l’essenza stessa dell’esserci umano, sempre oscillante fra menzogna e verità. Menzogne colossali sono sempre presenti in ogni epoca, che possono durare secoli o decenni (si veda ad esempio la “Donazione” di Costantino o “I decretali dello Pseudo-Isidoro” o il dispaccio di Ems da parte di Bismark, per non dire dei falsi storici perpetrati dagli Usa per entrare in guerra da aggrediti). La prima e potente reazione allo scetticismo fu quella di S. Agostino, quando confutò, a parer mio, in modo decisivo, il pensiero degli Scettici. Egli infatti sancì l’inoppugnabile “si fallor sum”, che anticipò di un millennio e più il “cogito” cartesiano. Il “si fallor sum” ha il significato ontologico che si può anche sbagliare su tutto, ma non sulla realtà della propria esistenza (De civitate dei, XI, 26). Va da sé, aggiungeva S. Agostino, che l’uomo è sì aperto alla verità, ed è capace persino di cogliere una verità indubitabile, ma essendo un ente finito, non può cogliere quella assoluta che appartiene a Dio.
Verità e menzogna nascono, come s’è detto, dalla possibilità e dalla libertà di scelta: esse sono, come ben rivelava Heidegger, perennemente e strutturalmente costitutive dell’esserci umano. Non a caso egli era stato uno studioso attento di Sant’Agostino, del Cusano de “La dotta ignoranza” e de “Il Dio nascosto” e dei grandi mistici tedeschi (in particolare di Silesio). Possiamo con ciò constatare che le epoche storiche contrassegnate dalla ricerca della verità, sono anche quelle epoche in cui il pensiero umano conosce capacità artistiche, filosofiche e scientifiche straordinarie, mentre, all’opposto, le epoche in cui la menzogna penetra non solo nelle classi dirigenti, ma anche all’interno dei popoli, il caos regna sovrano. Con la menzogna radicale e pervasiva il pensiero declina fino al delirio.
E’ quasi una banalità constatare che la nostra epoca è governata in tutti i suoi gangli dalla menzogna ingannevole, la quale trova il fondamentale supporto di quasi tutti i mezzi di comunicazione. Mai la penetrazione della frode è stata così penetrante in tutta la storia umana, grazie all’imposizione totalitaria della tecnica (il Gestell). Ciarlatani, bari, imbroglioni e millantatori sono al servizio permanente ed effettivo e al soldo di pochissimi detentori di ricchezze esorbitanti e folli. Viviamo nell’epoca della “compiuta peccaminosità” prevista da Fiche; un’ epoca senza vera autorità, senza disciplina, indifferente verso ogni verità, sfrenata e senza un filo conduttore, poiché la ragione e la logica vengono rifiutate. “Ci troviamo in una nova gigantesca Babele in cui gli uomini parlano nel vuoto” (6).
La domanda su come è potuto accadere questo, ha ormai avuto questa migliaia di risposte, che si possono riassumere con poche parole: trionfo del macchinismo, tirannia del calcolo e del profitto, riduzione dell’uomo nella dimensione di un individualismo atomistico, privo cioè di ogni senso comunitario. Mettiamoci anche la conseguente distruzione del sacro, del bello, del giusto, del bene e del pensare profondo e si ottiene così il quadro completo. Parole che comunque rappresentano un percorso che parte all’incirca nel 1500 e che è giunto ai nostri giorni. Insomma stiamo assistendo alla vittoria dell’erranza e dell’inganno perpetrate nei secoli, in cui la verità si ritira.
“Nihil sub soli novi” scrive l’Ecclesiaste. La tragedia umana consiste appunto in questa continua oscillazione fra il vero e il falso, fra il pensare e la sua negazione. Questa oscillazione sembrerebbe dar origine a cicli storici che in diverse forme si ripetono, poiché la struttura mentale degli uomini non muta, mentre però mutano i movimenti sociali. Ma oggi è assai probabile che non sia più così. Il dominante regno della quantità, creato dal sistema capitalistico, che riguarda l’aspetto demografico, economico, tecnico, e spazio-temporale ci ha condotto verso la terza guerra mondiale, sebbene moltissimi non l’abbiano ancora compreso. Si va diritti verso l’Indifferenziato.
Se questo accadrà, e purtroppo ci sono molte probabilità che accada, nulla avrà più senso, poiché ci sarà solo il vuoto dell’abisso.
Note:
1) M.HEIDEGGER, Dell’essenza della verità, p.133. Sta in “Segnavia”, sta in Adelphi Edizioni, Milano 1987.
2) IDEM, p.133.
3) IDEM, p.142.
4) Si veda M.HEIDEGGER, Logica, Il problema della verità, ed. Mursia, Milano 1986.
5) M. HEIDEGGER, Dell’essenza, op. cit., p. 152.
6) Si veda J.G. FICHTE, “I tratti fondamentali dell’epoca presente, ed. Guarini ed Associati, Milano 1999.
Rovigo, 22-04-2022.
Flores Tovo
f.tovo@libero.it
Sull’assenza della verità
L’assenza della verità non è da intendersi come il semplice dominio della menzogna che l’ha sostituita. L’assenza della verità è soprattutto assenza del pensiero, poiché il pensiero nasce e si compie interamente solo attraverso la verità. Comunque, prima di rispondere sul perchè di tale assenza, bisogna cercar di capire cos’è la verità. E’ assai probabile che l’etimologia della parola verità sia di origine sanscrita, che è una lingua indoeuropea: la parola è vrtta, che significa fatto, accadimento. Pure nei testi antichi zoroastriani troviamo la radice var, che significa credere e che corrisponde alla parola sanscrita varami che si traduce come scegliere o volere. Ovviamente ci sono altre interpretazioni dell’origine della parola. Ma non ci stiamo curando di questo. Ora si sa che la tradizionale formula che definisce la verità è espressa in latino dagli Scolastici sulla scorta della filosofia aristotelica (Metafisica, libro VII): essa stabilisce l’essenza della verità come “adaequatio rei et intellectus”. Vale a dire che ci deve essere una adeguazione, o meglio una conformità o una corrispondenza fra un giudizio pensato e una cosa rappresentata. La vrtta, appunto. Bisogna aver chiaro comunque che il vero e il falso nascono solo con un giudizio o proposizione. Infatti se si usano singolarmente concetti come “uomo”, “corre”, “vince”, “bianco” questi non è né veri, né falsi, giacchè sono vere o false solo le combinazioni fra di loro. Se per esempio dico che “quell’uomo corre” e sta in effetti correndo, il giudizio è vero. Aristotele stabilì inoltre che la verità sta nelle proposizioni dichiarative o apofantiche e non nella cosa rappresentata. Il fatto in sé, o fenomeno, è muto. Solo col giudizio la verità o la falsità vengono poste. I fatti sono solo la misura, il punto di riferimento, ma essi, poiché sono muti, non sono perciò la verità: essa si compie solo nel pensiero articolato. Aristotele aggiunge inoltre che il fatto deve accadere realmente, perché anche un ragionamento perfetto, come è il sillogismo, sebbene sia logicamente valido, cioè rispettoso di tutte le regole logiche, è falso se il fatto non sussiste (nisi est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu). E’ chiaro quindi che la corrispondenza fra pensiero e cosa deve essere perciò conforme.
Ciò che si è scritto sinora è l’espressione corrente e comune del concetto di verità. Tuttavia abbiamo visto che l’etimologia della parola verità può essere intesa come scelta, come libertà di volere. Un grande approfondimento di tale punto di vista lo dobbiamo a Martin Heidegger, quando si interroga sull’essenza della verità. Nel suo saggio “Dell’essenza della verità” (1) egli scrive la seguente meditazione:
“La questione dell’essenza della verità non si cura di stabilire se la verità è una verità dell’esperienza pratica della vita o di un calcolo economico, se è la verità di una riflessione tecnica o di una forma artistica, o se invece è la verità di una meditazione pensante o di una fede che si esprime nel culto. La questione dell’essenza prescinde da tutto questo e guarda ad una sola cosa: che cosa in generale caratterizza ogni “verità” in quanto verità” (2).
Heidegger si interroga allora sul perché è possibile la corrispondenza fra pensiero e cosa, ossia su qual è il fondamento che la rende possibile.
Egli ritiene che la consegna di conformarsi ad una qualsiasi rappresentazione oggettuale è possibile solo perché l’esserci umano è aperto ad adeguarsi con essa, cioè di decidere con una deliberazione atta a vincolare il pensiero con la realtà. Questa apertura implica la libertà, che consiste sempre nel voler vincolarsi o svincolarsi da un eventuale rapporto.
“L’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà” (3).
Ecco che così si spiega il temine antico di “varami”, che intendeva la verità come scelta e volere, ossia come un atto razionale che implica apertura positiva verso ciò che è manifesto, e come proposito di conformarsi ad essa. Una libertà tuttavia che può scegliere l’opposto, cioè la non-conformazione e il non-adeguamento. In tal caso si ha la menzogna voluta.
L’uomo, secondo Heidegger, è Esserci, cioè un ente (il Ci) aperto all’Essere. Questa apertura nasce quando i primi pionieri della civiltà cominciarono a lavorare collettivamente lungo i grandi fiumi, e quindi a progettare. Il progetto implica sia il pensiero sul cosa fare e sia l’intuizione temporale del futuro, poiché il pro-getto si attua verso il futuro, che di rimbalzo implica il ricordo di ciò che si è fatto, ossia il rimando al passato (4): ma non è questo il tema che si vuole ora trattare.
Poiché l’esserci è sostanzialmente apertura e possibilità, vien da sé che egli può scegliere, e questo costituisce la sua essenza. Ecco perché egli può incamminarsi sulla via della verità o sulla via dell’erranza. Quando si sceglie l’erranza, scrive Heidegger, essa “…domina l’uomo e lo fuorvia” (5). Nello stesso tempo l’uomo, però, può scegliere di non lasciarsi fuorviare. La verità è quindi l’evento fondante del pensiero umano, e in tale evento “si trova” anche il suo contrario, cioè la menzogna. La vita diventa perciò un gioco, un tragico gioco d’azzardo, in cui il rischio di una caduta nel non-pensiero, e nel non-essere, cioè nella menzogna, è sempre presente. Proprio per questo Heidegger concepì la verità come “alètheia”, come svelamento o non-nascondimento dell’Essere stesso, da lui inteso principalmente come pensiero e tempo, ispirandosi al pensiero di Parmenide ed Eraclito. La verità, in base a questa prospettiva filosofica, era intesa come un’apertura pre-discorsiva, ontologica, ovvero come l’intuizione originaria: essa è l’accadere stesso dell’Essere in cui l’uomo viene ad essere coinvolto. Heidegger in seguito, dopo un lunga polemica col filologo classico Paul Frieländer, riconobbe comunque che la verità viene esperita subito e soltanto come correttezza del rappresentare e dell’esperire (orthòtes), restando però fermo nella convinzione che la verità è l’apertura all’Essere che a sua volta si apre.
Ora, in relazione a ciò che si è scritto, osserviamo che nel corso della storia umana ci sono state epoche soggiogate dall’erranza ed altre invece rivolte verso la ricerca della verità. Anche il pensiero filosofico, se lo si studia nel suo complesso, è segnato talvolta dal trionfo di filosofie scettiche e nichiliste basate sul dubbio e sul caos, e altre da filosofie che si contrapponevano all’incertezza dubitante, e che cercarono di fondare sistemi di un conoscere saldo e certo. In altre parole si è assistito alla lotta fra coloro che affermavano che non ci sono verità né assolute, nè indubitabili, e coloro che invece ponevano con forza spirituale verità ferme ed incontrovertibili. Il primo importantissimo esempio di tale conflitto filosofico risale all’antichità, e ha avuto effetti su tutta la filosofia successiva (intesa come spirito che si attua nella storia) fino a quella moderna. Si tratta dello scontro fra lo scetticismo radicale di Gorgia da Lentini e Socrate-Platone.
Il vegliardissimo siceliota siracusano Gorgia da Lentini (campò più di 100 anni) divenne famoso affermando le sue tre principali tesi: 1) nulla c’è; 2) se anche qualcosa c’è, non è conoscibile all’uomo; 3) se anche è conoscibile, è incomunicabile agli altri. Tesi che hanno suscitato una discussione filosofica interminabile, per cui è inutile aggiungere altro. Certamente Gorgia negava che ci fosse una Unità trascendente, in quanto escludeva ogni adesione alla realtà di un Essere inteso come Dio eterno ed infinito. Da queste affermazioni discendeva l’impossibilità di una scienza vera, ontologica e assoluta. L’unica via per la comunicazione restava quella del sentimento capace di persuadere gli ascoltatori (peithò), che però poteva aprire le porte all’inganno (apàte). La retorica diventava l’arte della persuasione (che fruttava molti soldi a Gorgia per il suo insegnamento), la quale spianava la strada al caos derivante dall’inganno. La verità, la morale, la giustizia precipitavano nelle spire di una dialettica puramente discorsiva che distruggevano il senso ed ogni predicabilità permanente ad un qualsiasi soggetto. Si giungeva perciò, alla fine del percorso, alla tragedia spalancata sull’orlo di un caos abissale.
Socrate fu il primo filosofo che reagì contro tale relativismo radicale, proponendo, a cominciare da una prospettiva etica imperniata sul concetto di bene, verità intersoggettive condivise. Egli però ragionava ancora in termini umanistici, che erano pur sempre messi sotto la cappa del dubbio, proprio perché tutto ciò che è umano è limitato e finito.
La grande reazione profonda, d’immensa portata storica, fu quella di Platone, allievo di Socrate. La morte ingiusta di questi lo sconvolse al punto tale da spingerlo a costruire una scienza filosofica assoluta (epistème), con lo scopo di sradicare definitivamente lo scetticismo totalizzante di Gorgia e dei Sofisti in generale. Egli si convinse che la catastrofe che si era abbattuta in Grecia con le due guerre del Peloponneso erano da imputare proprio alla degenerazione di tutti i valori fondanti dell’essere umano, a partire dalla distruzione della verità operata da una filosofia perniciosa. Platone fondò il sistema delle idee (da ideìn, vedere), visioni intellettuali della verità, ossia gli “”Immutabili”, a cui pochi (i filosofi) possono accedere. Solo il Sommo Bene, che è l’Uno che trascende le stesse idee, è inaccessibile.
Abbiamo riportato, in estrema sintesi, questo esempio filosofico, perché esso rivela sinteticamente il destino che costituisce l’essenza stessa dell’esserci umano, sempre oscillante fra menzogna e verità. Menzogne colossali sono sempre presenti in ogni epoca, che possono durare secoli o decenni (si veda ad esempio la “Donazione” di Costantino o “I decretali dello Pseudo-Isidoro” o il dispaccio di Ems da parte di Bismark, per non dire dei falsi storici perpetrati dagli Usa per entrare in guerra da aggrediti). La prima e potente reazione allo scetticismo fu quella di S. Agostino, quando confutò, a parer mio, in modo decisivo, il pensiero degli Scettici. Egli infatti sancì l’inoppugnabile “si fallor sum”, che anticipò di un millennio e più il “cogito” cartesiano. Il “si fallor sum” ha il significato ontologico che si può anche sbagliare su tutto, ma non sulla realtà della propria esistenza (De civitate dei, XI, 26). Va da sé, aggiungeva S. Agostino, che l’uomo è sì aperto alla verità, ed è capace persino di cogliere una verità indubitabile, ma essendo un ente finito, non può cogliere quella assoluta che appartiene a Dio.
Verità e menzogna nascono, come s’è detto, dalla possibilità e dalla libertà di scelta: esse sono, come ben rivelava Heidegger, perennemente e strutturalmente costitutive dell’esserci umano. Non a caso egli era stato uno studioso attento di Sant’Agostino, del Cusano de “La dotta ignoranza” e de “Il Dio nascosto” e dei grandi mistici tedeschi (in particolare di Silesio). Possiamo con ciò constatare che le epoche storiche contrassegnate dalla ricerca della verità, sono anche quelle epoche in cui il pensiero umano conosce capacità artistiche, filosofiche e scientifiche straordinarie, mentre, all’opposto, le epoche in cui la menzogna penetra non solo nelle classi dirigenti, ma anche all’interno dei popoli, il caos regna sovrano. Con la menzogna radicale e pervasiva il pensiero declina fino al delirio.
E’ quasi una banalità constatare che la nostra epoca è governata in tutti i suoi gangli dalla menzogna ingannevole, la quale trova il fondamentale supporto di quasi tutti i mezzi di comunicazione. Mai la penetrazione della frode è stata così penetrante in tutta la storia umana, grazie all’imposizione totalitaria della tecnica (il Gestell). Ciarlatani, bari, imbroglioni e millantatori sono al servizio permanente ed effettivo e al soldo di pochissimi detentori di ricchezze esorbitanti e folli. Viviamo nell’epoca della “compiuta peccaminosità” prevista da Fiche; un’ epoca senza vera autorità, senza disciplina, indifferente verso ogni verità, sfrenata e senza un filo conduttore, poiché la ragione e la logica vengono rifiutate. “Ci troviamo in una nova gigantesca Babele in cui gli uomini parlano nel vuoto” (6).
La domanda su come è potuto accadere questo, ha ormai avuto questa migliaia di risposte, che si possono riassumere con poche parole: trionfo del macchinismo, tirannia del calcolo e del profitto, riduzione dell’uomo nella dimensione di un individualismo atomistico, privo cioè di ogni senso comunitario. Mettiamoci anche la conseguente distruzione del sacro, del bello, del giusto, del bene e del pensare profondo e si ottiene così il quadro completo. Parole che comunque rappresentano un percorso che parte all’incirca nel 1500 e che è giunto ai nostri giorni. Insomma stiamo assistendo alla vittoria dell’erranza e dell’inganno perpetrate nei secoli, in cui la verità si ritira.
“Nihil sub soli novi” scrive l’Ecclesiaste. La tragedia umana consiste appunto in questa continua oscillazione fra il vero e il falso, fra il pensare e la sua negazione. Questa oscillazione sembrerebbe dar origine a cicli storici che in diverse forme si ripetono, poiché la struttura mentale degli uomini non muta, mentre però mutano i movimenti sociali. Ma oggi è assai probabile che non sia più così. Il dominante regno della quantità, creato dal sistema capitalistico, che riguarda l’aspetto demografico, economico, tecnico, e spazio-temporale ci ha condotto verso la terza guerra mondiale, sebbene moltissimi non l’abbiano ancora compreso. Si va diritti verso l’Indifferenziato.
Se questo accadrà, e purtroppo ci sono molte probabilità che accada, nulla avrà più senso, poiché ci sarà solo il vuoto dell’abisso.
Note:
1) M.HEIDEGGER, Dell’essenza della verità, p.133. Sta in “Segnavia”, sta in Adelphi Edizioni, Milano 1987.
2) IDEM, p.133.
3) IDEM, p.142.
4) Si veda M.HEIDEGGER, Logica, Il problema della verità, ed. Mursia, Milano 1986.
5) M. HEIDEGGER, Dell’essenza, op. cit., p. 152.
6) Si veda J.G. FICHTE, “I tratti fondamentali dell’epoca presente, ed. Guarini ed Associati, Milano 1999.