Sulle prospettive della Siria
di Enrico Tomaselli - 19/12/2024
Fonte: Giubbe rosse
L’evoluzione della situazione siriana è inevitabilmente destinata ad introdurre elementi di novità, non necessariamente previsti – e che, probabilmente, possono aiutare a comprendere alcune posizioni attualmente assunte da parte di soggetti coinvolti.
Le questioni fondamentali sono essenzialmente due. La prima, è la partizione in atto nel paese, in almeno tre macro aree cantonali: quella occidentale, sotto il controllo dell’HTS, quella orientale, sotto il controllo delle forze curde, e quella meridionale, sotto controllo israeliano. Questa cantonizzazione della Siria fa ovviamente gioco sia agli USA che ad Israele, perché non solo mina l’unità del paese arabo, ma rafforza la presenza politica e militare di entrambe nella regione. Ma taglia fuori dai giochi la Turchia, che si ritrova ad avere la stabilizzazione di un Kurdistan siriano ai propri confini, e per di più come protettorato statunitense.
Come risulta evidente dai primi passi, Al-Julani risponde chiaramente assai più agli interessi anglo-americani (suoi veri sponsor) che non a quelli turchi; i segnali pacificatori verso Israele da un lato (nonostante la massiccia campagna di bombardamenti in atto, che non accenna a finire), e l’apertura alla collaborazione, anche governativa, con le SDF, indicano chiaramente l’allineamento del potere islamista con i disegni americani.
Del resto, e per più di una ragione, Washington intende esercitare la sua influenza sul nuovo governo siriano, ma il suo alleato di riferimento restano (almeno per il momento) i curdi. I nodi da risolvere, in questo quadro, sono ovviamente i margini di autonomia che le SDF riusciranno a ritagliarsi, anche considerando che otterranno dei ministri nel governo nazionale (altra cosa destinata ad irritare non poco Ankara…), e – parallelamente – come verrà risolta la questione del disarmo delle milizie (pretesa da Al-Julani). Considerato il prevalere degli interessi statunitensi, è probabile che entrambe le questioni siano risolte nel quadro di una qualche autonomia regionale, nell’ambito della quale le milizie curde diventano le forze armate territoriali. Oltretutto, il permanere del controllo curdo-americano sulle risorse petrolifere siriane rappresenta una potente leva verso il potere di Damasco; una eventuale disponibilità a dirottare una parte dei profitti verso il governo centrale della nuova Siria, mette i curdi in condizione di negoziare da posizioni di forza i termini dell’inclusione politica dei territori ad est dell’Eufrate.
Altra questione fondamentale è la debolezza strutturale dell’HTS. Debolezza che deriva innanzitutto dall’essere una coalizione-ombrello, che raccoglie decine di gruppi diversi – molti dei quali nemmeno composti da siriani – la cui comunanza d’intenti è abbastanza relativa, e rischia comunque di affievolirsi man mano che le cose vanno avanti. Per molti di questi gruppi, una prospettiva di ricostruzione nazionale siriana è a dir poco indifferente, avendo come orizzonte quello di un unico grande califfato islamico, coincidente con la umma (la comunità dei credenti, ovunque nel mondo). Un ulteriore elemento di potenziale frattura, all’interno della coalizione islamista, è che una parte dei gruppi fanno ideologicamente riferimento al wahabismo (tipico di Al Qaeda e Daesh, da cui vengono molti militanti), mentre un’altra parte si colloca – sia pure su posizioni più radicalizzate – nell’ambito ideologico dei Fratelli Musulmani sunniti. In assenza di forti motivazioni che sostengano uno sforzo unitario, ed in presenza di possibili tensioni, queste differenze sono suscettibili di accentuarsi, sino alla divaricazione. Non a caso, l’Isis ha ripreso una certa attività, dal deserto siriano in cui s’era rifugiato, cogliendo nella situazione attuale una potenziale opportunità di rilancio. Così come, per ragioni simili ma opposte, gli Stati Uniti hanno ripreso a colpire i gruppi dell’Isis, nel timore che possano esercitare un’attrazione disgregatrice sulle forze dell’alleato pro-tempore Al-Julani.
Ma, per l’insieme delle formazioni islamiste insediatesi a Damasco, ci sono ulteriori elementi di debolezza, niente affatto secondari. Il primo dei quali è, ovviamente, la difficoltà per queste forze – composte essenzialmente da guerriglieri – di assumere compiti statuali ed amministrativi. Anche se stiamo parlando di un paese devastato da anni di guerra e di sanzioni occidentali, nel quale la popolazione ha progressivamente perduto la normale relazione con lo stato, proprio la necessità della ricostruzione richiede una macchina amministrativa capace di far funzionare le strutture statali. A sua volta, questo richiede un personale aduso alla gestione di questioni ben diverse da quelle cui sono abituati i militanti dell’HTS. Tenendo presente che, ad esempio, nella provincia di Idlib – dove hanno soggiornato per anni – le funzioni amministrative sono state di fatto appaltate ai turchi, a partire dagli aspetti più basilari (moneta turca, telefonia turca, etc). Per fare ciò, quindi, Al-Julani dovrà necessariamente far ricorso ad una parte (almeno) del vecchio apparato statale siriano; cosa che, a sua volta, richiede che si realizzi una sostanziale pacificazione, e ne metta al sicuro da ritorsioni e vendette il personale.
Ulteriore elemento di debolezza, la distruzione sistematica delle infrastrutture militari siriane, portata avanti da Israele, pone le basi per l’imprescindibile necessità di essere garantiti, sotto questo profilo, da qualcuno che abbia gli strumenti per farlo. Ovvero gli USA.
L’insieme di queste condizioni oggettive, evidentemente, non depone in favore di una facile stabilizzazione della situazione, e quindi lascia aperta la strada per diverse possibili evoluzioni della stessa.
Già soltanto la presenza di forze che rappresentano interessi diversi, ed a volte contrastanti, pur essendo collocabili tutte nella medesima parte dello schieramento globale (USA, Israele, Turchia) può portare a sviluppi contrastanti. Se, ad esempio, dal punto di vista di Ankara la soluzione ideale sarebbe il mantenimento dell’integrità territoriale siriana, ed in quest’ambito della significativa riduzione del potere politico-militare curdo, questa non è tra le priorità statunitensi, e di certo non è nell’interesse israeliano, che preferirebbe una frammentazione dello stato arabo. In presenza di una crescente presa di Israele sul sud-ovest siriano, potrebbero emergere con maggior forza le mai sopite (e recentemente ribadite) ambizioni ottomane sul nord siriano. In questo quadro, le tensioni tra gli interessi e le ambizioni turche e quelli curdo-americani potrebbe riaccendere attriti anche armati, tenendo presente tra l’altro la difficoltà – in questo contesto – della collocazione delle forze in controllo turco (Syrian National Army) all’interno del nuovo quadro politico siriano.
Dal canto suo, la frammentazione territoriale della Siria offre ad Israele l’opportunità di procedere gradualmente ad una ulteriore espansione coloniale verso est. In particolare, due tra i punti attualmente occupati dall’IDF sono di grande importanza strategica per gli israeliani: il monte Hermon e la diga di Al-Wahda. Il primo, consente – dall’alto dei suoi 2.800mt – una visione panoramica dalla Siria al Mediterraneo, e quindi il controllo di una vasta area potenzialmente ostile; la probabile costruzione di un sistema radar qui, darebbe al sistema di difesa aereo israeliano un atout di considerevole importanza. La seconda, dalla quale dipende l’approvvigionamento di acqua dolce della Siria (per il 30%) e della Giordania (per il 40%), metterebbe in mano a Tel Aviv una cruciale chiave di controllo geopolitico regionale.
Dato l’insieme di interessi soggettivi e condizioni oggettive, è ragionevole supporre che una effettiva stabilizzazione della situazione non sia proprio dietro l’angolo, e che nella migliore delle ipotesi tali elementi siano destinati a mantenere il proprio potenziale disgregante quanto meno sul medio termine.
Chiaramente, essendo la Turchia l’attore regionale che ha più da perdere – e che, di fatto, sta perdendo – è presumibile che sarà il principale agente di destabilizzazione. Cosa che, ovviamente, potrà passare sia attraverso i suoi proxy del SNA, sia – in senso più ampio – attraverso il ruolo politico-diplomatico che potrà giocare Ankara. La quale è ormai da tempo usa a manovrare spregiudicatamente tra più tavoli.
Interessante, sotto questo profilo, risulterà vedere come evolve la questione delle basi russe di Latakia e Tartus, nella quale il ruolo di mediazione della Turchia è importante. Da quello che vediamo, Mosca si sta preparando con calma ad entrambe le ipotesi (mantenimento o smantellamento), e non sembra particolarmente preoccupata dalla possibilità di doverle abbandonare. Il trasferimento in Libia, eventualmente parziale, sembra l’ipotesi più probabile, anche nel caso che vengano mantenute. Significativo anche il fatto che, mentre gli irrilevanti paesi europei abbaiano, minacciando di non rimuovere le sanzioni se non verranno cacciati i russi, non ci sia una presa di posizione da parte di Washington. Del resto, non soltanto Erdogan si mantiene da tempo su una linea di equilibrio tra Russia e NATO (per quanto in modo ondivago ed ambiguo), ma lo stesso Al-Julani ha assunto una posizione non pregiudizialmente ostile – che riserva invece all’Iran ed Hezbollah. C’è, in questo, sia il riflesso degli anni della guerra civile, quando le forze sciite hanno sconfitto sul campo gli islamisti, sia una questione settaria, sia – ovviamente – la diversa considerazione per una potenza ben più che regionale come la Federazione Russa.
Il ruolo turco, peraltro, potrebbe giocare in favore della Russia anche in futuro. Ankara potrebbe infatti giocare di sponda con Mosca per spuntare condizioni favorevoli con gli USA, in particolare per quanto riguarda il contesto siriano; cosa che del resto ha già fatto, più in generale. Allo stesso tempo, la situazione del nuovo governo siriano, se manterrà la linea di muoversi nella prospettiva della ricostruzione nazionale, potrebbe prima o poi entrare in conflitto con gli interessi (e le azioni) israeliane.
Questi elementi, tra l’altro, spiegano anche perché sia l’Iran che Hezbollah mantengono un atteggiamento pragmatico, non pregiudizialmente ostile. Per quanto ovviamente la situazione attuale sia sfavorevole, e ne abbia indubbiamente indebolito la posizione, sia Teheran che Beirut ragionano in termini di prospettiva lunga, e sono comunque interessati a non allargare il fronte dei paesi nemici. Così come hanno cercato un appeasement con l’Arabia Saudita (fucina ideologica e cassaforte del wahabismo estremista ed anti-sciita, nonché storicamente capofila dei paesi arabi ostili all’Asse della Resistenza), ovviamente non da una posizione di debolezza, così evidentemente si guarda oggi a Damasco: quello che non è possibile oggi, potrebbe diventarlo domani.
Chiaramente non è possibile estrapolare la situazione siriana dal più vasto contesto regionale. Quindi molte cose dipendono da come questo si svilupperà nei prossimi mesi.
Israele, ad esempio, che ha alle spalle oltre 14 mesi di guerra – la più lunga mai combattuta, e non è ancora finita – ne paga l’impatto economico diretto ed indiretto, e anche se (per il momento) il conflitto libanese è concluso, quello a Gaza è ben lontano dal trovare una soluzione, quello in Cisgiordania è destinato a diventare sempre più esplosivo, ed ora l’occupazione di una vasta area nel sud siriano comporta il mantenimento di un livello di mobilitazione dei riservisti fuori dall’ordinario, destinato a prolungarsi presumibilmente almeno per un altro anno. Pur se il rovesciamento del regime di Assad è stato un fortunato vantaggio, le conseguenze non saranno necessariamente vantaggiose – anzi, come minimo richiederanno il protrarsi ulteriore dello sforzo bellico. Molto dipende quindi da come Netanyahu cercherà di uscire dall’angolo. Il che – naturalmente – significa in prima battuta se e come riuscirà a convincere Trump a seguirlo in un conflitto aperto con Teheran; conflitto che però dovrà essere necessariamente breve e decisivo, perché Israele semplicemente non è in grado di reggere una guerra regionale di molti mesi. E la questione non è ovviamente solo un problema militare in senso stretto.
A sua volta, le scelte che verranno fatte in Iran, nelle settimane e nei mesi a venire, saranno altrettanto decisive. Persino ben oltre i problemi posti dall’interruzione del canale logistico con il Libano, infatti, si presentano una serie di questioni tutt’altro che semplici, e tutte intrecciate tra di loro.
C’è la questione del rapporto tra l’ala più possibilista dell’establishment, quella che fa capo al presidente Pezeshkian, e quella più radicale che fa capo all’IRGC ed alla guida suprema Khamanei. A sua volta legata sia a quella della successione a Khamanei stesso, sia a quella del nucleare.
La natura delle relazioni con l’occidente, sotto la presidenza Trump, che certamente puntano ad evitare il conflitto, ma al tempo stesso non possono spingersi sino al piegarsi di Teheran ai voleri di Washington, Tel Aviv e Bruxelles. C’è la questione della decisione in merito al dotarsi o meno dell’arma nucleare. C’è la questione della necessità di ripristinare la deterrenza nei confronti di Israele (True Promise 3?), che è anche parte della possibilità di essere riconosciuti come potenza regionale. C’è l’ormai prossima firma dell’accordo di partenariato strategico con la Federazione Russa – i cui termini potrebbero di per sé rovesciare i rapporti di forza con Israele.
Insomma, potremmo ben dire – citando il presidente Mao – che “grande è il disordine sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”. Resta solo da capire per chi.