Superstiti e superstiziosi
di Livio Cadé - 15/05/2022
Fonte: EreticaMente
La nostra società potrebbe dirsi ‘società della superstizione’. Ma la superstizione non è, come qualcuno crede, il contrario della verità. Solo le accade, com’è della parola, di nascondere piuttosto che di rivelare. E questo suo carattere oscurante è quello che oggi prevale. Viviamo quindi in una società dell’illusione, dove la verità è proibita e le più assurde falsità sono imposte per decreto. Società che vive di idoli e feticci: democrazia, libertà, pace, etica, giustizia, istruzione, salute etc., cioè superstizioni cui solo un imbecille potrebbe ancora dar credito.
Proprio nell’era dell’informazione e della comunicazione, il 99% di quel che passa per la testa della gente è credenza infondata, diceria. E quell’1% di conoscenza delle cose che forse resta, ha l’aria di un cerino acceso in una buia e immensa caverna, col risultato di proiettare lunghe ombre sulle pareti. Ma lasciamo andare le percentuali, che son solo un’altra tipica superstizione della nostra epoca. Rimane il fatto che, di qualsiasi cosa si discuta, è raro che le nostre opinioni o convinzioni siano basate su altro che il “si dice”. Questo credere senza sapere corrisponde a un comune, e in parte necessario, modus operandi della mente umana.
Ad esempio, la gente crede che la somma degli angoli di un triangolo sia sempre di 180%, che la Terra sia rotonda e giri intorno al sole, che Bruto pugnalò Cesare etc. Il punto non è che tali nozioni siano vere o false, ma il fatto che vi si creda solo per averle lette o sentite, senza averne mai un’apprensione diretta o una reale comprensione. E di solito, quanto maggiore è l’ignoranza in una materia, tanto aumenta la pervicacia con cui si difendono le proprie credenze.
L’esser superstiziosi, se non è sintomo nevrotico, vien imputato all’ignoranza, alla mancanza di lumi intellettuali. Antidoto agli idoli sarebbe dunque, secondo una prospettiva baconiana, la scienza. Ma anche questa è una credenza ingenua. Abbiamo provato sulla nostra pelle come la cosiddetta scienza possa provocare maree gigantesche di superstizione, fenomeni di fanatismo e di isteria collettiva più contagiosi di una peste polmonare.
Si potrebbe obiettare che questa non era scienza, ma politica, propaganda, droga mediatica che nell’inebetire i popoli è certo più efficace del vecchio oppio religioso, ma sarebbe una spiegazione parziale. La verità è che quando la scienza manda in soffitta una vecchia superstizione è solo perché ne ha trovata un’altra con cui rimpiazzarla. Costruirsi idoli è infatti un bisogno ineludibile dell’uomo. Pensare al “ponderoso tema” della superstizione significa quindi riflettere sull’uomo stesso.
Non si tratta solo di scaramanzie popolari, formule apotropaiche, piccoli sortilegi ed esorcismi cui si indulge ogni tanto. O di quelle pratiche divinatorie – aruspicina, chiromanzia, cartomanzia etc. – che i razionalisti considerano sciocche e nelle quali i bigotti vedono commerci diabolici (ma che a me non paiono più superstiziose o infernali di certe mantiche e diagnostiche con cui oggi si scrutano viscere e si traggono pronostici).
Un’accezione così riduttiva è confutata dalla stessa etimologia. Superstitio accenna a qualcosa che sta sopra e ci sovrasta, una trascendenza. Ma nella parola sta anche ‘superstite’, cioè chi si salva e sopravvive. Se fondiamo i due etimi, la parola acquista il significato molto denso di qualcosa che ci supera e ci viene in soccorso.
Convenzionalmente, la superstizione è legata a forze divine o demoniche che possono venir evocate e invocate, al naturale impulso dell’uomo di ingraziarsi o placare esseri superiori. In tal senso, ogni società coltiva alcune credenze e ne condanna altre. Ad esempio, la Chiesa cristiana considera superstizione o stregoneria ogni culto pagano, devozione o pratica religiosa che non si ispiri alla rivelazione biblica e al magistero ecclesiastico.
Pregare i santi e la Madonna, accendere candele, esprimere voti, bagnarsi d’acqua benedetta, venerare reliquie di cadaveri o credere, ingoiando una particola di farina, d’entrare in comunione con Dio, sembra invece non aver nulla di superstizioso, perché si accorda a ciò che la Chiesa insegna. Così, quel che nel pagano è un’empietà da esecrare e punire, nel cristiano diventa prassi edificante e profonda dottrina.
Dal canto loro, gli agnostici non esitano a far di tutte le religioni un fascio di falsità, a vedervi i tristi esiti di un pensiero idolatrico, pre-logico, irrazionale. L’ateo, l’incredulo, troveranno dunque i loro idoli nella Ragione, nella Scienza o nella Tecnologia, e muoveranno guerra alle superstizioni antiche con le armi dell’evoluzione, dello storicismo etc. Di fatto, solo un idolo può scacciare un altro idolo.
Essenza della superstizione, ovunque ne troviamo traccia, è appunto l’idolatria, il farsi immagini, icone, simulacri cui dedicare un culto sentimentale, intellettuale o politico. Ci si può limitare a un uso privato degli idoli, senza imporli ad altri, oppure li si può tradurre in leggi di uno Stato o dogmi di una Chiesa.
Poco importa la natura estrinseca dell’idolo. Un talismano terrà lontani gli spiriti maligni, una teoria metafisica ci proteggerà dall’angoscia della morte, la ‘democrazia’ ci illuderà di poter scegliere con un voto il governo del Paese, la ‘scienza’, ci svelerà i segreti della natura e le formule magiche per dominarla etc. Da un lato, queste superstizioni hanno tutte carattere soteriologico, nutrono la speranza in un potere salvifico, sono inconsci esorcismi. Dall’altro esprimono l’idea di poter influenzare e guidare le forze che ci sovrastano attraverso protocolli di vario genere.
Una superstizione comune vuole infatti che esista una relazione costante tra causa ed effetto. Solo che la scienza elimina dalle cause i capricci di una volontà divina, che renderebbe sempre aleatori i risultati, e si affida alla regolarità meccanica di eventi naturali. Gli idoli scientifici son dunque quelli che rispondono in modo più razionale alle nostre richieste. Si crede così di evolvere intellettualmente, solo perché diventa più sicuro il predire e il preordinare i futuri contingenti.
Il problema non è, seguendo Bacone, superare i vari idola. È l’idolo che sempre ci supera e ci attende. La superstizione ci è necessaria. Ha in fondo una funzione analoga al pregiudizio nel creare gli indispensabili presupposti del pensare. È, per così dire, un relitto cui aggrapparsi per non affondare, perché tutti venendo in questo mondo facciamo naufragio in un mistero. Sarebbe perciò rischioso distruggere i nostri idola mentis, rinunciare agli appigli ondeggianti che il credere in qualcosa ci offre.
Soprattutto, occorre afferrarsi a quel ‘senso comune’ in cui si combinano tre superstizioni essenziali, senza le quali verremmo di colpo annichiliti: psicologica (io esisto), fenomenologica (il mondo esiste) e teologica (Dio esiste). Qualcuno dirà che Dio è morto e va escluso dal discorso. Tuttavia, mi pare ci siano validi motivi per diffidare di questa diagnosi, come di tante altre della cultura moderna.
In realtà, che l'io esista o che esista il mondo è altrettanto dubbio quanto che esista Dio, o altrettanto certo, se si vuole. Ma mentre molti si son dati un gran daffare per provare l’esistenza di Dio – con risultati che lasciano perplessi, ammettiamolo – quasi nessuno sembra preoccuparsi di dimostrare la propria esistenza o quella delle cose. Come fossero evidenti di per sé. Anche concludere che sono perché penso mi pare un arrotolarsi nelle parole. È vero che alcuni spiriti scettici hanno messo in discussione queste comuni certezze, ma son dubbi teorici. Alla fine, Buddha, Hume o la fisica quantistica non bastano a convincerci che le cose o il nostro io siano un’illusione.
Così, simile al fantasma omerico, l’ombra dell’io aleggia su noi come un dilemma irrisolto. Qualcuno deve pur aver scritto l’Iliade e l’Odissea. Ma chi? E fu uno soltanto o furono più uomini a compiere l’opera? E i nostri sentimenti, i nostri pensieri, la nostra personale Odissea, chi la scrive? Quanti autori mettono mano alla storia della nostra vita? La nostra coscienza ospita un solo individuo o una comunità di persone? O non v’è nessuno?
Prima che ce ne facciamo un cruccio, la superstizione ci viene in aiuto e ci salva dai dubbi. Così, se qualcuno ci chiama per nome, rispondiamo senza ragionarci tanto. Di chi è quel nome? Forse di nessuno, ma ricorda un indefinibile essere personale, centro di volontà, sensibilità, intelligenza, memoria ecc. Entità misteriosa intrecciata con i processi chimici del corpo e che pure se ne sente indipendente. A volte addirittura immagina d’essere immortale, destinata a mondi superiori.
Dopo avermi rassicurato sulla mia esistenza, un’inconscia superstizione mi dice anche che questo mondo è un luogo concreto, non un miraggio, un sortilegio di Maya. Per altro, le due credenze sono intimamente connesse. Infatti, se non esistesse l’io, come potrebbe esistere un mondo esterno? Per dimostrare che c’è qualcosa fuori di me dovrei prima dimostrare che questo me esiste. Ma questo è impossibile. Per evitare che tutto si dissolva nel nulla, non mi resta dunque che esser superstizioso.
Lo stesso si può dire di Dio. In effetti, il nostro tradizionale monoteismo è forse la forma più radicale di idolatria, fa di Dio un oggetto del pensiero, una cosa fra le altre, anche se la più grande, una super-cosa, ossia una superstizione. Guardando questo Dio più da presso non troviamo che concetti fittizi, non meno astratti di un io o di un mondo. Gusci vuoti, detriti cellulari, scarti della mente e del suo metabolismo. Insomma, materia morta e in genere tossica, come si dice siano i virus.
Niente che valga a uscir dal dubbio. E se chiedessimo lumi alla ragione, quella ci risponderebbe con un’altra domanda, come fanno i gesuiti e i talmudisti. Il fatto è che la nostra coscienza prende atto degli oggetti separandoli, dividendo la realtà in frazioni, mentre l’essere è un blocco indivisibile. Per questo i sillogismi non possono dirci nulla di ciò che è.
Esistere non dipende da un ragionamento ma da un sentimento intuitivo. È un senso di presenza a sé stessi, di unità in cui il tutto si riflette. Dell’io, del mondo o di Dio non si può quindi dire né che esistano né che non esistano. Sono aspetti correlativi e interdipendenti di un’unica realtà, un inscindibile ‘io-mondo-Dio’. Per questo Silesius dice «so che senza di me Dio non può un istante vivere. Se io divento nulla, deve di necessità morire».
Quello che dico “il mio io”, il mio corpo e la mia interiorità, è un flusso di sensazioni, pensieri e sentimenti inseparabili da un ‘mondo esterno’, e il legame che li unisce è di natura divina. Affiora così una sorta di mistero trinitario. Come possa la ‘materia’ – atomi, molecole, cellule, tessuti – trasformarsi in ‘spirito’, in un soggetto da cui emergono musica, poesia, amore, visioni mistiche etc., “ignoramus et ignorabimus“, non lo sapremo mai, anche se la neuromanzia oggi si affanna a spiegarlo.
Così, l’alternativa non è tra credere o pensare. Non esiste l’assolutamente vero o falso, ma errori che contengono verità e viceversa. Le nostre superstizioni sono un fondersi di ignoranza e conoscenza in cui l’essere si rivela non come in pieno sole ma in una notte di nuvole e luna. Si insinua tra processi simbolici di cui possiamo riconoscere la coerenza, la bellezza e la dignità, o il loro cadere nel meschino, nel vano, nel deforme.
Anche la superstizione ha le sue albe, i suoi meriggi e tramonti, le sue notti fonde. Epoche spiritualmente evolute come il Medioevo o l’antichità classica saranno ricche di superstizioni nobili e poetiche, di credenze sublimi che accendono la giustizia, l’etica, l’arte. In tempi come i nostri, sommersi di cascame materialistico, vedremo invece il dilagare di superstizioni volgari, che non soccorrono l’uomo ma lo caricano di pesi e catene.
Abbattuti gli idoli della religione e della metafisica, oggi trionfano i feticci del denaro, del potere e del sesso, il culto narcisistico di sé, gli spiritualismi alienanti, l’infantile credenza nei media e negli esperti, le divinazioni statistiche, le mitologie scientifiche, le negromanzie transumane, tecnocratiche etc. Fino a cadere nell’immensa cloaca di superstizioni ‘pandemiche’, tra mascherine, virus, vaccini, vaticini e amuleti sanitari; o nel delirio di profezie messianiche, pseudo-gioachimite, che annunciano l’Era di uno Spirito Santo digitale.
Più propriamente dovremmo dirle substizioni, perché trascinano l’uomo al di sotto della sua umanità, lungo i sentieri più vili e degradanti del credere. Del resto, “una e la stessa è la strada che scende e quella che sale”, e anche la superstizione è mescolanza di contrari. È la corda di un arco tesa tra due opposti – la credenza e la fede – che la gente confonde ma tra cui esiste una fondamentale differenza. La prima è figlia del pensiero, quindi discorso, costruzione dialettica spesso fittizia. La seconda è pienezza e calore del cuore, verità silenziosa.
Per questo la vera fede è una sola, mentre le credenze – magiche, religiose, filosofiche, scientifiche – sono tante. La fede s’attacca all’essere, non a concetti e deduzioni faticose. I pensieri sono superstizioni utili per galleggiare sul mare dell’ignoto. Ma solo raramente, e forse per miracolo, ci portano verso la terraferma, alla solida realtà che sta oltre le parole. Ci troviamo allora a esser non più superstiziosi ma superstiti, scampati, sopravvissuti anche alla vita e alle sue illusioni.