Taologia dogmatica
di Livio Cadè - 07/05/2023
Fonte: EreticaMente
“Solo il mistero ci fa vivere” (Garcia-Lorca)
Cos’è il Tao Te Ching? Per alcuni un florilegio di massime con cui avvoltolare biscotti cinesi. Per altri poesia, incunabolo metafisico, abbozzo di filosofia naïve carico di suggestiva fluidità – “come l’acqua che scorre”. La sua natura dogmatica rimane sullo sfondo, quasi inavvertita. Un ‘dogma’ è una verità indiscutibile, solitamente di carattere religioso, non attinente dunque al metodo scientifico, che discute e dubita di tutto. Curiosamente, è la scienza oggi a farsi dogmatica, mentre le idee in materia di religione si fanno sempre più scettiche. Passati di moda i dogmi religiosi, era necessario creare un dogmatismo laico. La democrazia, il progresso, il libero mercato ecc. sono postulati che van presi con assenso di fede, non per deduzione o per la loro evidenza. Avere certezze è infatti una nostra esigenza interiore. Il dogma è come la cornice che delimita e tiene tesa la tela del nostro essere, senza la quale il dipinto s’arrotolerebbe su sé stesso.
Dogmatici per natura, vogliamo tuttavia apparire di mentalità aperta e flessibile. Ci informiamo di tutto, ogni argomento diventa stimolo al dibattito e all’approfondimento. Il risultato è una piatta superficialità, un grattare qua e là l’epidermide del pensiero come tormentati da un prurito intellettuale. Anche il pensiero di Laozi è finito così tra i tanti diversivi culturali. Rosicchiato curiosamente, banalizzato, ridotto a spiritualità borghese e prêt-à–porter. Per essere taoisti basta “vivere in armonia con la natura”. Ma la natura è ormai solo un mito, un’astrazione romantica, stereotipo da contrapporre a un mondo artefatto. Nel Tao Te Ching non troviamo una definizione di ‘natura’. Esistono il Cielo e la Terra, lo spazio in cui vivono “le diecimila cose”, ovvero una totalità di esseri, spiriti, uomini, animali ecc. Qui gli alberi, i fiumi, le montagne, lì le case dell’uomo, i suoi attrezzi, i suoi libri, il suo lavoro. La cultura non è forse la natura dell’uomo?
Il punto per Laozi non è come l’uomo possa integrarsi con un paesaggio vergine o nutrirsi di radici ma in qual modo possa restar fedele al Tao, ovvero ritrovare la sua natura originaria. Problema di difficile soluzione, perché “la grande Via è dritta, ma gli uomini amano i sentieri tortuosi”. C’è sicuramente in Laozi un amore per la semplicità naturale, ma questo non ne fa un panteista. In lui non v’è alcuna deificazione dell’universo. Il Tao non è una Natura idealizzata né un insieme di accadimenti cosmici. Non coincide con l’oggettività del mondo e la somma dei suoi processi naturali. È l’abisso, la sorgente primaria dell’essere, e insieme una Virtù provvidenziale. Non è possibile darne un concetto. “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”. È un mistero, anzi “mistero del mistero”. Dogma negativo e silenzioso, che evita la chiacchiera metafisica.
La nostra epoca non conosce più il mistero, solo segreti. Qual è il segreto della felicità, della salute, della longevità, del successo? Siamo circondati da esperti di ogni genere, maestri di tecniche e ricette. Ma il Tao non è un sapere riservato agli iniziati e nascosto ai profani. E neppure un enigma che la scienza può incaricarsi di risolvere, come fosse un indovinello. È il fondo oscuro e inattingibile della nostra esistenza. Elusivo, solitario, silente, immutabile, contiene “gli archetipi, le immagini, le essenze”. È misterioso perché assolutamente semplice ed evidente. Laozi non si cura di spiegarlo filosoficamente. Quel che gli interessa è il principio di santità che il Tao indica all’uomo, la spontaneità perfetta e originaria – ziran, “così com’è” – cui l’uomo può tornare affidandosi a un’inconscia Virtù. È una santità umile, che non cerca miracoli e prodigi. È un “seme che germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa”.
Laozi è talvolta accusato di ‘primitivismo utopico’ per la sua apologia di una vita semplice, fatta di piccole comunità rurali, di facili contentamenti. In questa nostalgia di un passato mitico emerge la consapevolezza che progresso, moralità, cultura, possono trasformarsi in forze alienanti. Laozi vive un un’epoca di guerre e devastazioni, corruzione politica, miseria fisica e spirituale. Lo scettico penserà che il Tao sia dunque un’illusione consolante, un palliativo immaginario al dolore. Ma non è attraverso un esame obiettivo che possiamo verificare la fondatezza o l’inconsistenza di un’attitudine religiosa. È un problema racchiuso nella coscienza del soggetto. Solo se lo viviamo possiamo comprendere il senso di una santificazione, l’esigenza di abbandonare le caotiche, dolorose periferie dell’essere per tornare al centro, alla radice. È la stessa esperienza tragica e problematica dell’uomo che gliene mostra la necessità; è la “provvida sventura” a illuminarlo.
Si possono dunque riconoscere in Laozi tre basilari punti dogmatici, uniti in un disegno circolare: l’origine ‘divina’ del mondo, la decaduta condizione umana, il ritorno all’origine. Non gli interessano i quadretti bucolici e l’idillio silvestre ma la possibile redenzione dell’uomo e della società. Suo ideale è lo Sheng Ren, il saggio che ritrova un’intima conformità alla Norma celeste. Sarebbe perciò assurdo vedere in lui l’apostolo di una libertà puramente umanistica, o scambiare la spontaneità taoista col permesso di dar libero corso alle passioni. Tutto il Tao Te Ching è guida all’azione spassionata, alla disciplina di sé. Ognuno – l’eremita come chi governa uno Stato – deve cercare di aderire al Tao attraverso un’ascesi il cui nucleo è il wu-wei, la “non-azione”. Questa idea (tanto fraintesa!) evoca un agire distaccato, senza interferenze di desideri e calcoli egoistici. Non è inerzia ma un paziente tirocinio del cuore e della mente. Mediante il “non fare” l’azione del Santo diviene il riflesso d’una trascendenza. Si muove come la mano dell’artista, guidata da un “farsi” che supera la sua comprensione.
Dogma centrale di Laozi, telaio nascosto della sua opera, è il tendere a una “Tao-umanità”. Libertà e creatività, il conoscere o l’auto-determinarsi, ogni facoltà umana è collocata su uno sfondo metafisico. La fiducia dell’individuo in sé stesso nasce perciò dalla sua relazione con l’Assoluto. Questa conciliazione di attitudini mistiche e razionali è ciò che da sempre favorisce il fiorire di grandi civiltà. Così è nella Grecia classica, nel Medioevo, nel Rinascimento, nella sublimità dell’arte e nella profondità della ricerca filosofica. Lo stesso sviluppo scientifico del XVII secolo nasce dal genio di uomini in cui convivono logica e sentimento religioso. Una civiltà degenera se è privata di valori metafisici, se riduce l’uomo a essere storico e biologico.
L’umanismo moderno rifiuta a priori di sottomettersi a una legge morale che non sia quella che l’uomo si dà, o di accettare un Ordine sovra-razionale. Questa frattura tra fede in sé e fede in Dio porta a una deificazione dell’io, a dogmatismi scientifici e tecnologici, a una visione del mondo che rivela una fondamentale assurdità. Perché da un lato enfatizza un’interpretazione puramente naturalistica dell’uomo, visto come effetto di cause evolutive involontarie e irrazionali. Dall’altra vorrebbe farne un essere “causa sui”, che impone la propria volontà e la propria ragione alla natura.
Le antinomie di questo umanismo si rivelano nei suoi storici fallimenti. Così, libertà e fraternità si trasformano in furiosa sete di sangue, l’illuminismo evoca tenebrose forze demoniche, la ricerca del ‘bene comune’ distrugge i più elementari principi etici. Così la nostra democrazia, questo Bene supremo che rende l’opinione di una maggioranza verità dogmatica, questo apparente culto del volere popolare, favorisce in realtà gli interessi di minoranze ristrettissime, che prevaricano la vita e la libertà altrui con uno sprezzo degno di un Cesare Borgia. È la maschera di plutocrati e tecnocrati ebbri di eroici furori, parodie di eroi nietzschiani.
Infine, ridotta alle dimensioni della meccanica e della fisiologia, la volontà di potenza dell’uomo si doterà di protesi e innesti artificiali, e l’Übermensch potrà scegliere se fare di sé stesso una super-bestia o una super-macchina. Destino fatale per chi vuol esser superuomo prima ancora di essere pienamente umano. Nel suo delirio si sentirà tanto più libero quanto più farà violenza agli ordini organici, fisiologici, sessuali, da cui dipende la vita. Arriverà così ad annientarsi da solo.
Eppure, resta nell’uomo un residuo ineliminabile della sua natura spirituale. Lo dimostra il fatto che giustifichi le sue peggiori nefandezze invocando degli Ideali. Non gli è possibile negare totalmente la sua origine metafisica, solo allontanarsene. Ma Laozi direbbe che ogni lontananza presuppone un ritorno. E certo sarebbe bello che la civiltà occidentale riscoprisse i tesori di cui è ricca la sua anima. Tuttavia, non possiamo negare le responsabilità della nostra tradizione. La stessa religione ha stimolato la hybris dell’uomo, facendo di lui il vicario in terra di una divinità autocratica, sorta di viceré cui è lecito creare e distruggere, sottoporre al suo arbitrio ogni cosa; ha permesso che si usasse la Parola di Dio come paravento per coprire l’avidità e l’amore del potere
La nostra civiltà si è forgiata nell’idea del dominio: Dio domina l’uomo e questi il mondo. Da questo paradigma nascono le nostre ataviche sofferenze, la nostra ribellione al Padre, il nostro sognare quasi edipicamente la morte di Dio. Ma ancor più funesta è l’idea scientifica di una Natura impassibile, fredda divinità che ci crea lasciandoci in balìa di leggi implacabili, senza provare pietà del nostro dolore. Dovremmo allora, coerentemente, giustificare anche la crudeltà umana. Come può un umanismo retto dai dogmi della scienza e della tecnica fornire un fondamento logico alla misericordia, alla compassione? La sua etica è solo un maldestro rammendo, fatto per nascondere un buco.
Il Tao Te Ching può offrire l’elemento prezioso che difetta alla nostra cultura: il sentimento di un’unità armoniosa tra Dio, uomo e creato. V’è in Laozi un’evidente predilezione per i simboli della femminilità. Il Tao è ‘Madre’, rifugio delle creature, tesoro dei buoni e protezione dei malvagi. “Femmina oscura” che crea gli esseri, li nutre e li porta a perfezione. Non li domina, non pretende nulla. Perdona le loro colpe, si fa trovare da quelli che lo cercano. Perciò il Santo taoista è un paradossale Übermensch, superuomo che non si pone sopra niente e nessuno. Come l’acqua, lascia le vette superbe per scendere a valle. Dapprima ruscello che cade strepitando di balza in balza, poi fiume che scorre largo e silenzioso verso il mare che l’attende, materno. “Il ritorno è il movimento del Tao”. Questo è il dogma, la verità indiscussa: il Mistero che, come una stella polare, ci guida sulla via del ritorno.