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Tibullo, poeta della vita semplice o del nulla?

di Francesco Lamendola - 27/01/2018

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Albio Tibullo: ecco un poeta che tutti, istintivamente, pensiamo di conoscere e di aver capito! Non è forse, il mite Tibullo, il malinconico Tibullo, il sognante Tibullo, un poeta “semplice”? E di nuovo, come già con Giovanni Pascoli, cadiamo, senza nemmeno rendercene conto, nel solito equivoco: quello di attribuire la semplicità a un poeta che canta le cose semplici. Ma chi ama e canta le cose semplici, non è egli stesso, necessariamente, una persona semplice, tanto meno nel caso di un poeta: perché la poesia, di per sé, non è affatto una forma di espressione semplice. E Tibullo, che tutti abbiamo letto ed amato sui banchi di scuola, si presta magnificamente all’equivoco, come e forse più di Pascoli: la sua semplicità, così frequentemente proclamata, quasi ostentata, ci aveva talmente convinti allora, che anche in seguito non ci è mai venuto in mente di rivedere quel giudizio, di sottoporlo ad un minimo di riflessione critica. Aggiungiamo che quando si crede di aver capito un autore, o quando si crede di aver capito che non c’è nulla di particolarmente profondo da capire, ma solo amore per i campi, per la vita raccolta, per la solitudine e la contemplazione, siamo già nelle condizioni di perpetuare, in noi stessi, qualunque malinteso: perché il vero poeta non ha mai finito di dire ciò che ci vuol dire, e credere di esser giunti alla “fine”, cioè alla comprensione ultima, è già un averlo frainteso, travisato, equivocato.
E invece no. Un poeta è sempre misterioso; almeno, un vero poeta. E Tibullo lo è: non un grande poeta, ma un vero poeta, sì. D’altra parte, in lui si nota la caratteristica forma di travestimento cui sovente ricorrono i timidi, gli insicuri e gli scontenti: indossare la maschera della semplicità, della mitezza e della dolcezza, per nascondere il proprio segreto. E così, il “dolce” Tibullo diventa il classico poeta per signorine romantiche e ipersensibili, magari per adolescenti introversi e sospirosi, un Aleardo Aleardi dell’età di Augusto (non oseremmo neanche dire: un Giovanni Prati, perché nel Prati gli sprazzi d’inquietudine ci sono, eccome, e lui non li nasconde affatto); e i moralisti un tanto al chilo possono celebrarlo come il rovescio della medaglia dell’imperialismo romano, la sua coscienza critica, ovvero il pacifista convinto e, quasi, quasi, il cittadino antimilitarista di una superpotenza inconsciamente presaga del proprio inevitabile tramonto. Da qui a vedere nel poeta che segue Messalla Corvino così malvolentieri nelle sue spedizioni militari, da ammalarsi gravemente lungo la strada (di una malattia che somiglia molto a un rigetto psico-somatico), un Bob Dylan del I secolo avanti Cristo, che contesta le campagne in Aquitania e in Siria come quello contesterà la guerra americana nel Vietnam, il passo è breve, e si è tentati di farlo.
Dunque, vediamo: Tibullo piace, se piace (e di solito piace) perché canta, con accenti nostalgici ed elegiaci, la pace campestre e la schiettezza della vita rurale, contrapponendole non solo al disordine e al rumore della vita urbana, ma anche alle passioni che portano l’uomo a lasciarsi divorare dalla smania di cose essenzialmente esteriori: la ricchezza, il potere, la gloria. La campagna e la vita semplice diventano, per lui, un vero e proprio rifugio, quasi una scelta di vita ascetica (verrebbe quasi da dire: monastica, se non fosse per quella vena di spontanea sensualità che emerge qua e là dai suoi versi più “innocenti”), e, nello steso tempo, una silenziosa protesta, una “contestazione” della maledetta fame dell’oro. Tutto chiaro, allora? Niente affatto. Prendiamo, a titolo di esempio, la prima elegia del primo libro, la famosissima Divitias alius fulvi sibi congerat auro, che generazioni di studenti alle prime armi hanno letto e ammirato nella sua esemplare, cristallina classicità e delicatezza, e nella sua candida, disarmante semplicità. E chi non si è lasciato rapire, almeno per un momento, in quel sogno di pace raccolta, in quell’idillio campestre, fatto solo di cose belle e di pochissimi, scelti amici; chi non si è immedesimato nel poeta che la notte, a letto, ode cadere la pioggia che gli concilia il sonno e si sente quasi sciogliere nella dolcezza di un così soave abbraccio della natura? Le tenere viti, i rigogliosi pomi, i raggi del sole estivo che indorano le messi; e infine, ciliegina sula torta, lo scroscio notturno dell’acqua sul tetto della casetta campestre: come resistere a un fascino così immediato e innocente, a un sentimento così schivo e bucolico? C’è perfino, quasi incredibile coincidenza, un’immagine che pare tratta dal Vangelo, quella del buon pastore: il poeta che si accorge di una capretta o di un agnellino rimasti indietro, dimenticati dalla madre, e che subito si affretta a raccoglierli e a stringerseli al petto, prima che i lupi feroci odano belare e piombino sulla preda in un baleno. Eppure, forse le cose non sono proprio così semplici; forse non stanno affatto così come sembra.
Nei versi finali dell’elegia, che le edizioni scolastiche di una volta omettevano, sostituendoli con dei misteriosi puntini di sospensione, prorompeva la vena erotica, con la gioia del poeta di stringere a sé Delia, la donna amata, mentre fuori imperversano i venti e scrosciano le acque. E tuttavia, la vena erotica si asciuga subito, quasi ghiacciata da un subitaneo pensiero: quello della morte. Bisogna amare adesso, perché la morte incombe; e, se non sarà la morte, giungerà presto l’odiosa vecchiaia, e non sarà una bella cosa, dice Tibullo, giacere così abbracciati con i capelli bianchi e il corpo consunto dagli anni. Vi è un’eco, o una concordanza, con il carpe diem oraziano, col suo invito a bere il buon vino di Falerno prima che sia troppo tardi, finché ci sono vita e un po’ di futuro innanzi a noi. Pure, la filosofia epicurea del carpe diem non basta a spiegare il fatto che Tibullo passi dalle gioie dell’amore al pensiero della morte con una tal subitanea, impressionante velocità. Si direbbe che egli non riesca a godere per nulla del presente, di quel presente che, a parole, sta decantando. Questo non è da Orazio; e si sa che Orazio, dietro la sua vantata serenità, è un uomo angosciato e un poeta complesso, contraddittorio. E tuttavia, a paragone di Tibullo, Orazio risulta quasi semplice. Come si fa a  scambiare per “semplice” un poeta che, subito dopo aver detto di sentirsi felice solo nell’abbracciare la sua donna, un attimo dopo parla di vecchiaia, di capelli bianchi, e descrive il proprio funerale, e Delia in lacrime che gli darà l’estremo addio? No, davvero; se questa non è una posa, e tutto lascia pensare che non lo sia affatto, allora Tibullo è un poeta completamente diverso da come ce lo avevano presentato a scuola, e da come noi stessi, per conformismo e pigrizia intellettuale, ce l’eravamo sempre immaginato.
Vorremmo partire dalle seguenti osservazioni di Paolo Acrosso e di Giuseppe Morelli, autori del volume Camena. Antologia latina ad uso della scuola media, pubblicato negli anni nei quali – prima della riforma della Scuola media unica e prima del ’68, tanto per intenderci ed essere chiari - un libro di testo per la scuola media poteva presentare dei pregi non inferiori, per competenza e chiarezza didattica, a quelli dei testi che oggi si adoperano e vanno per la maggiore nei licei e perfino all’università (Bologna, Cappelli, 1961, pp. 357-358):

… L’amicizia che lo legava a Messalla fece sì che il poeta, sia pure a malincuore, dovesse accompagnare nel 27 av. Cr. il grande generale nella sua fortunata spedizione in Aquitania. Tibullo non amava la guerra, ma la vita semplice e serena dei campi, invidiava la tranquillità e la modestia degli uomini comuni,  non la gloria e gli onori dei potenti. Più tardi quando Messalla volle condurlo in Oriente, espresse ancor più vivacemente, nella III elegia del I libro, la sua avversione per la vita delle armi. Poco dopo esser salpati da Brindisi, colto da una malattia, il poeta fu costretto a fermarsi a Corcira. Lì, solo, abbandonato dagli amici, che avevamo proseguito il loro viaggio, lontano dall’affetto dei suoi cari, al poeta sembrò davvero di morire.
Tibullo non è un poeta gradissimo come Catullo o come Virgilio, eppure la sua poesia ha un tono inconfondibile. A Tibullo non interessano l’impero di Roma che sorge e si estende ogni giorno di più, la gloria militare e l’ambizione del suo amico Messalla Corvino, gli onori della corte di Augusto, la fama che pure poteva derivargli dalla poesia; l’unica cosa che lo commuove è la sua sconfinata malinconia, per cui egli distrugge tutto e tutti introno a sé, tutto e tutti allontana e respinge da sé, per rifugiarsi nella solitudine o, meglio, nella “rêverie”, per poter vivere una vita intessuta interamente di sogni e di nostalgie. Ogni contatto con la realtà produce sempre in Tibullo atroci conflitti e cupi scoramenti; per uscirne e per alleviare il dolore che gli deriva dalla presenza degli altri, il poeta si costruisce un mondo di fantasmi sereni, un mondo dove la matura e gli uomini assumono i dolci colori delle favole, e questo mondo egli canta,. Quasi fosse la sua vera patria, una patria di continuo travista e perduta, alla quale la sua anima anela, come alla ricerca di un impossibile idillio perenne.

Colpisce sopratutto questo passaggio: l’unica cosa che lo commuove è la sua sconfinata malinconia, per cui egli distrugge tutto e tutti introno a sé, tutto e tutti allontana e respinge da sé, per rifugiarsi nella solitudine o, meglio, nella “rêverie”, per poter vivere una vita intessuta interamente di sogni e di nostalgie. Un bovarismo ante litteram; un sognatore misantropo e disadattato, forse cronicamente depresso, che ha preso in odio l’umanità intera per reazione difensiva contro la complessità e la problematicità dell’esistenza; un poeta protestatario, non contro le guerre e l’auri sacra fames, ma contro le incognite e le sofferenze che ogni vita umana reca con sé, inevitabilmente, insieme alle gioie e alle cose belle: questo è quanto emerge da una simile chiave di lettura, che ci sembra assai più persuasiva di quella tradizionale, “bucolica” (o “georgica”) e pacifica, se non proprio pacifista, della figura e dell’opera di Tibullo. La rêverie, la fantasticheria: certo, ma una rêverie tutt’altro che serena e bucolica; al contrario: una rêverie cupa, o meglio, come dicono benissimo i due Autori su citati, popolata di fantasmi, e sia pure fantasmi sereni, ai quali è demandato il compito di esorcizzare l’effetto penoso che il mondo reale produce sulla esasperata sensibilità del poeta. Tibullo è un uomo che non accetta la realtà e che ha bisogno, un bisogno fisiologico, di rifugiarsi in un mondo idealizzato: la campagna non è che la proiezione fantastica di questo sogno, non è che il tentativo di incardinarlo nella dimensione reale, dopo averla depurata di tutto ciò che può causare dolore o turbamento. I fantasmi di cui Tibullo circonda il proprio mondo interiore sono dolci, perché egli ha bisogno di dolcezza; e ne ha bisogno perché la vita, così come realmente è, gli riesce intollerabile. Non un poeta “dolce”, pertanto, ma un poeta travagliato, angosciato, smarrito, incapace di vivere come vivono gli altri, e disgustato non dalle guerre del suo tempo, ma dal mondo degli uomini in generale. Le sue tirate contro l’avidità e contro la brama di onori e ricchezze sono solo il paravento che egli si fabbrica per nascondere a tutti, e specialmente a se stesso, la vera radice del suo male, della sua scontentezza: l’impatto con la realtà, guerre o non guerre, ricchezze o non ricchezze. È la realtà in quanto tale che Tibullo non riesce ad accettare, a causa della sua sensibilità abnorme, ipertrofica. Egli non possiede la forza titanica di un Leopardi, per cui non osa ribellarsi, né guardare il suo male in faccia e prendersela col suo vero nemico; che non è il mondo, ma lui stesso, la sua mancata accettazione del vero. In fondo, Tibullo è un “moderno”, e per questo piace così tanto a quasi tutti i lettori moderni: la sua modernità consiste nella pretesa di ammantare dietro nobili ragioni il suo sdegno ideale, che nasce invece dalla debolezza. La sua protesta non è mai virile; ha sempre qualcosa di molle, di languido, di decadente, di effeminato (caratteri che sono stato colti, e al suo solito oltremodo esasperati, dal pittore Lawrence Alma Tadema nel suo celebre ritratto di Tibullo, eseguito nel 1866).
Quali conclusioni trarre da tutto ciò? Primo, che un poeta non è quello che dice di essere, ma quello che cerca di nascondere di sé; e questa non è psicanalisti da quattro soldi, ma l’ABC del corretto approccio a un autore o a un testo letterario. Secondo, che chi dice di amare la vita semplice solo perché non regge il peso della vita, in realtà non cerca altro che la morte. Terzo, che ci sono due maniere di sentirsi estranei al mondo: quella pagana e quella cristiana. La maniera pagana consiste nel cincischiarsi con il pensiero della morte (e delle lacrime degli amici al proprio funerale), e, intanto, consolarsi con l’illusione del qui e ora, che non reca, tuttavia, la sperata serenità, ma un supplemento d’inquietudine. È la maniera di Tibullo. La maniera cristiana consiste nel rivolgere lo sguardo da questo mondo, fragile e precario, a quell’altro, eterno e luminoso, che è la patria celeste di tutte le creature; e nel trovare proprio in quella contemplazione le ragioni per tornare a vivere la vita terrena con un rinnovato slancio di fede, speranza e carità. Virgilio, pagano, è arrivato quasi sulla porta, con l’istinto che è proprio delle anime profonde; Tibullo, che non ha la sua profondità, non ci si è mai neppure avvicinato. Questo non lo rende meno rispettabile o meno degno di attenzione, ma certamente riconduce la sua poesia entro un ambito più ristretto. Talmente ristretto che ci si può chiedere se, in fondo, non sia solo un nichilista. Chi non riesce a vivere se non facendo il vuoto attorno a sé, dunque ignorando la vera amicizia e l’amore, non è un corteggiatore del nulla?