Il telelavoro tra libertà e alienazione
di Mario Bozzi Sentieri - 11/04/2021
Fonte: Mario Bozzi Sentieri
L’ordinamento italiano (Legge n. 81, 22 maggio 2017) identifica con smart working “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa”.
Secondo il ministero del Lavoro lo smart working si basa sulla “flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone). Ai lavoratori viene garantita la parità di trattamento – economico e normativo – rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie”. Questo in linea di principio.
In realtà – come peraltro dimostrano alcuni recenti accordi tra le parti sociali – il tema è già oggetto del confronto, con particolare riguardo al “diritto alla disconnessione”, all’usura delle macchine, ai buoni pasto, ai costi delle utenze (a carico del lavoratore).
La storia dello smart working è relativamente recente. In Italia le prime esperienze datano 2010, allorquando alcune multinazionali hanno iniziato a sperimentarlo (tra le prime aziende la Nestlé e la Simens). L’uso del termine smart , in voga all’epoca, evocava intelligenza e modernità, ed era possibile grazie all’ampia diffusione delle nuove tecnologie e della Rete, che hanno permesso il cosiddetto “lavoro da casa”, seppure “spalmato” nell’arco della settimana.
A partire dal febbraio 2020, con l’emergenza Covid19, l’uso dello smart working – secondo l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano – ha coinvolto un terzo dei lavoratori dipendenti italiani (6,58 milioni su un totale di circa 18 milioni), entrando nell’immaginario collettivo e nell’uso delle imprese e della Pubblica Amministrazione.
L’apprezzamento verso questa nuova forma di lavoro (con il risparmio sui tempi ed i costi nei trasferimenti, l’autonomia e l’indipendenza nell’organizzazione del tempo lavorativo) deve però fare i conti con le modalità di organizzazione del lavoro stesso e con la conseguente tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. A ciò si aggiunga il rischio di fare emergere forme di alienazione e di isolamento, che vengono a sommarsi con la perdita del senso di comunità e di aggregazione, che apparteneva alle forme tradizionali di organizzazione del lavoro.
A mancare, nello smart working, sono gli scambi interpersonali, legati alle esperienze lavorative ma anche, più in generale, al vissuto quotidiano e personale di chi lavora, a scapito di quella che è la natura sociale del lavoro.
La solitudine – d’altro canto - appartiene all’ideologia individualista che ha informato l’ultimo ventennio del Novecento, proiettando le sue ombre sul Terzo Millennio. E’ molto più di un sistema economico. E’ una mentalità che sta permeando i popoli, destrutturando le società ed uccidendo la politica.
Non a caso Zygmunt Bauman, il teorico della modernità liquida, segnata dall’incertezza, dalla precarietà, dall’isolamento, ha evidenziato il riemergere della voglia di “communitas”, costruita sui rapporti interpersonali e sul contatto diretto tra le persone (così come teorizzato, alla fine del XIX secolo, da Ferdinand Tönnies) seppure declinata con la “societas”, strutturata sui rapporti a distanza.
In questo contesto – sottolineiamo noi - il “nemico principale” sono soprattutto i processi di disintermediazione attraverso i quali si è realizzato il depotenziamento dei corpi intermedi. Alla base di questi processi l’idea che l’individuo sia il migliore giudice di sé stesso e dunque non abbia bisogno di “intermediari”, sia in campo politico che sociale e culturale. Il singolo è così decontestualizzato rispetto alle appartenenze sociali (familiari, territoriali, aziendali, di categoria), diventando il figlio di una società in cui a dettare legge sono l’individualismo e lo sradicamento. Con il risultato di trasformare la solitudine in un tema politico, a tal punto significativo da spingere ad intitolare questo nostro secolo alla solitudine.
Sul fronte del lavoro “a distanza” siamo ancora nella fase iniziale di un processo in divenire, che va comunque seguito con attenzione, anche per le sue ricadute antropologiche, laddove ad emergere è una sorta di disarticolazione sociale, provocata dall’ atomizzazione del valore lavoro, e da un preoccupante individualismo di massa, che trova perfino nella disintermediazione tra consumatore e produttore (il cosiddetto “modello Amazon”) un nuovo ambito applicativo.
L’ augurio ovviamente è che certi processi non si radicalizzino. Di ben altre suggestioni abbiamo bisogno e di ben altre speranze, per uscire da questo lockdown psicologico. Soprattutto di risposte ad una domanda di appartenenza che va ricostruita in ragione di rinnovati valori fondanti, incardinati storicamente intorno all’idea di famiglia, di Patria, di solidarietà sociale. Più che di palliativi c’è insomma bisogno di esempi e di una nuova consapevolezza collettiva, intorno a cui “ritrovarsi”. E quindi, ben al di là della politica, di una nuova metapolitica, in grado di promuovere e rendere concreta una visione della vita e del mondo alternativa a quella corrente.