Tra moglie e marito non mettere il mito
di Livio Cadè - 24/07/2023
Fonte: Ereticamente
Maris e mulier, da cui marito e moglie, significano banalmente uomo e donna. Non v’è in tali parole alcun riferimento implicito o esplicito all’amore. Manca in esse quella particella lessicale, am, dalla radice sanscrita kam, che significa desiderio. Quindi, a rigor di termini, benché l’unione nuziale non escluda a priori il desiderio, l’innamoramento, l’amore, l’amicizia, non li presuppone come condizioni necessarie. ‘Sposi’, dal canto suo, conduce etimologicamente a spondere, ovvero rispondere, prendere un impegno, una responsabilità. E ‘coniugi’, ancor più impietosamente, rimanda a un ‘giogo’. L’amore dunque non è fine né mezzo né condizione del matrimonio, al massimo uno stato mentale più o meno labile che a volte l’accompagna.
Tuttavia, alcuni vedono nel matrimonio il romantico coronamento di un sogno, il caldo zenit dell’amore, indifferenti a ogni possibile obiezione mossa dalla più fredda ragione. Altri, più prosaicamente, ritengono si debbano vagliare con attenzione i pro e i contro di un simile passo. Per i primi l’unica cosa importante è sposare la persona che si ama, per i secondi vi sono altre necessità da considerare, tra cui eventualmente amare la persona che si sposa. Dunque, per alcuni l’amore precede il matrimonio, è l’impulso che lo rende possibile. Per altri è invece un’obbligazione morale che consegue alle nozze, un’affezione da costruire pazientemente nel tempo. Quando si scambiano la canonica promessa di “amarsi e rispettarsi per sempre”, i primi potrebbero dunque considerarla un’inutile formalità, certi come sono che tale condizione sarà per loro naturale e inevitabile. I secondi vedranno invece in questo impegno reciproco un compito cui coscienziosamente dedicarsi.
In realtà, entrambe queste filosofie matrimoniali, una più impulsiva, l’altra più avveduta e sensata, peccano di sentimentalismo, di perbenismo psicologico. Entrambe aderiscono a questo diffuso mito, non so se più ipocrita o più ingenuo, secondo cui moglie e marito dovrebbero essere uniti da vincoli d’amore. Questa assurda convinzione sembra a sua volta poggiare su mitologie più arcaiche, nelle quali si immagina un essere androgino diviso in due che desidera riunirsi con l’altra metà e recuperare la sua originaria integrità. Questa fantasiosa allegoria non ha però alcun nesso con lo statuto matrimoniale, il quale risponde ad altre sollecitazioni.
In un contesto coniugale, la passione, la seduzione, il desiderio, sono accessori voluttuari, che potrebbero anzi risultare sconvenienti, cagionare inopportune gelosie, pregiudicare la gestione domestica con la loro irrazionalità. Per i tedeschi far l’amore è miteinander schlafen, dormire insieme. Il matrimonio richiede invece una continua vigilanza. La volatilità tipica delle emozioni è palesemente incompatibile con la continuità dell’istituzione. D’altro canto, fin quando la nostra società giudicherà necessario che le persone si sposino, l’idea che il matrimonio appaghi un’aspettativa sentimentale è un utile allettamento, una lusinga per convincere la gente a fare qualcosa che senza tale illusione pochi farebbero.
Maschera e volto del matrimonio
Esiste una sterminata letteratura e un’impressionante casistica che ci ragguaglia sugli inconvenienti, spesso drammatici, del matrimonio. E quanti aforismi, massime, retaggi di saggezza popolare o erudita, frutto di esperienza clinica o di semplice conoscenza della vita, ci mettono in guardia contro i suoi pericoli! E tuttavia la gente continua a sposarsi, convinta che ne trarrà una sicura e costante felicità o che, in ogni caso, i benefici del ménage coniugale superino i suoi svantaggi. Tale ottimistica supposizione potrebbe essere facilmente smentita da un’obiettiva osservazione della realtà, condotta senza pregiudizi e senza bende sentimentali sugli occhi.
Osservando imparzialmente l’aridità che tanto spesso colpisce i giardini coniugali, trasformandoli in un inospitale deserto, dovremmo essere indotti a una prudente renitenza. Se prima di compiere il fatidico gesto passassimo in rassegna a volo d’uccello i casi a noi noti di matrimoni di amici, parenti, conoscenti – persino dei nostri genitori – o i fatti di cronaca che si occupano di tale materia, ci apparirebbe un panorama di macerie, di case in rovina, abitate da profughi infelici.
E tuttavia, se annunciamo a questi sventurati la nostra intenzione di sposarci, li vediamo illuminarsi, congratularsi con noi, felicitarsi, come se avessimo vinto alla lotteria. Si mette allora in moto un implacabile meccanismo per convincerci che quello sarà “il giorno più bello della nostra vita” e che dovremo festeggiarlo con libagioni e cerimonie sontuose, circondarlo di una magnificenza tanto inutile quanto costosa, dargli l’abbrivio con fascinose lune di miele, assecondarne in ogni modo le suggestioni mitologiche. Tutti si adoperano per coprire il volto del matrimonio con una sorridente maschera, e l’amore stesso si preoccupa di nascondere i suoi imbiancati, farisaici sepolcri.
Come interpretare questo comportamento paradossale? Una prima spiegazione potrebbe essere che gli altri non vogliano disilluderci, troncare sul nascere le nostre speranze. Ma perché tutta quell’enfasi? Probabilmente perché un eccesso di entusiasmo retorico è necessario a nascondere una verità storica tanto evidente. Altra ipotesi plausibile è che si voglia con tale calorosa partecipazione facilitare l’adempimento di un sacrificio. O forse consola trovare compagni nella sventura, sapere che altri dovranno affrontare le nostre stesse pene, i dolorosi disinganni. E vedendo altri pronunciare il fatidico ‘sì’ sgorgano lacrime di rimpianto, nostalgia dell’innocenza perduta, dei castelli in aria.
Ma tali fervori e commozioni, a mio parere, nascono dall’incapacità di rinunciare al mito dell’amore coniugale. È un modo di mentire a sé stessi per conservare il primitivo incanto, quella nube iridescente di sogni che il tempo ha disperso. “Niente guida gli uomini più dell’illusione”. Quelli che ci incoraggiano a buttarci nel precipizio in cui loro stessi sono caduti di solito lo fanno dunque non con cosciente malafede ma per mancanza di realismo. E ciò è dimostrato dal fatto che molti di loro convolano a seconde o terze nozze, senza imparare dall’esperienza. Esempio di come l’immaginazione abbia sempre ragione della realtà.
Perché sposarsi?
A prescindere dall’amore e dalla prole, non si può negare che esistano validi motivi per sposarsi. Si creano vincoli sociali, relazioni tribali, solidarietà parentali e vantaggi di carattere economico – quindi patrimoniali più che matrimoniali – o anche politico, come accadeva un tempo nelle nozze combinate tra case regnanti e ancora oggi accade tra rampolli di dinastie finanziarie. Ma se vi sono molte buone ragioni per sposarsi, ve ne sono altrettante per non farlo. Il matrimonio è in fondo un sacrificio senza sacralità, una trappola per topi. Ma di questo ci accorgiamo solo una volta mangiato il poco cacio che conteneva. Come diceva un tale, somiglia a una gabbia in cui chi è dentro vuole uscirne e chi è fuori vuol entrare.
Secondo Socrate, che l’uomo decida di sposarsi o no, è sicuro di pentirsene. Quindi potremmo guardare a tale scelta con indifferenza, con equanime distacco. Posti a uguale distanza dal celibato e dal matrimonio, senza nulla che ci inclini più a questo che a quello, potremmo ritrovarci indecisi come l’asino di Buridano. Ma questo mi rammenta un altro filosofo, secondo cui vivere e morire erano la stessa cosa. “Allora perché non ti uccidi?”, gli fu chiesto. “Appunto perché sono lo stessa cosa”, rispose. Infatti, uccidersi equivarrebbe a manifestare una preferenza e a optare per un cambiamento di stato senza motivo.
Allo stesso modo, non v’è una cogente ragione per mutare il proprio stato civile. “Sei legato ad una donna? Non scioglierti. Sei sciolto da una donna? Non cercar moglie”, come dice san Paolo. Se sposarsi o restar celibi ci espongono a un uguale rimorso, perché uscire dalla propria condizione di scapoli? Forse la risposta è che ce lo impongono la società, la religione, l’ambiente, i costumi, le convenzioni, i pregiudizi. Una persona sposata, in fondo, sembra più seria, matura, affidabile, di una libera dalle responsabilità e dai doveri di vincoli coniugali e familiari. V’è sempre un che di sospetto in chi non si sposa, e in genere in chi sceglie la libertà. “Mia moglie” è un’espressione che possiamo usare senza alcun timore in società. Ma definire una donna “la mia amante” ci espone sicuramente alla riprovazione morale. Occorre dunque sottrarre l’amore alla sua fisiologica indecenza e chiuderlo in una intelaiatura metafisica e culturale che lo nobiliti.
In realtà, nonostante le fiamme di certe nascenti infatuazioni – che Schopenhauer attribuirebbe alla malizia del “Genio della specie” – ardori destinati dopo due o tre anni di vicinanza coatta a trasformarsi nelle ceneri del desiderio, scopo del matrimonio non è mai stato quello di offrire estasi voluttuose e sensuali rapimenti. Al massimo un rozzo remedium concupiscentiae cui soprattutto la donna ben presto si rassegna e che, nel suo prevedibile tedio, diventa per lei un’abitudine eccitante come pulire i pavimenti. Una distratta transazione carnale, così immune da tentazioni che anche la Chiesa, dopo averla benedetta, ne fa un dovere.
Non vorrei con ciò apparire eccessivamente cinico. Non nego affatto che, anche in tempi passati, un uomo e una donna potessero sposarsi perché innamorati uno dell’altra. Ma, come da un operaio non si pretende che ami il suo mestiere, ma che lo faccia bene, così un tempo non aveva importanza che gli sposi si amassero. Per altro, è certo possibile che vivendo insieme per tanto tempo due individui possano sviluppare un reciproco sentimento d’affetto e di tenerezza. È allora toccante vedere due vecchi coniugi camminare mano nella mano. Ma chi sa da quali battaglie son reduci, quali naufragi han vissuto prima d’approdare a quel porto tranquillo di sensi e sentimenti pacificati? Inoltre, è altrettanto probabile che tra marito e moglie si crei col tempo una ricambiata insofferenza, un muto ressentiment, dissimulato con buona creanza o sfogato in angherie e crudeltà reciproche.
Finalità del matrimonio è da una parte circoscrivere la sessualità e le sue intemperanze entro limiti socialmente accettabili, dall’altra stabilire le condizioni di un accordo economico e morale che regoli il procreare e l’allevare nuovi cittadini (non mi soffermo qui sulla mitologia relativa alla maternità e alla paternità, che meriterebbe una trattazione a parte). È vero che si può dare matrimonio senza procreazione o viceversa, e che il matrimonio non ha mai messo un argine reale all’immoralità e alla fornicazione. Tuttavia, è necessario ammettere almeno in linea teorica quelle premesse teleologiche, come requisiti minimi di stabilità. Se invece poniamo a fondamento dell’edificio coniugale fantasie erotiche o poetiche, lo vedremo miseramente crollare. E di fatto, le crisi tra coniugi, l’aumento vertiginoso delle separazioni e dei divorzi, il disfacimento delle famiglie, ha radici in questa mitologia del matrimonio romantico, cui società più antiche e sagge della nostra erano immuni.
Esempi istruttivi
Nella nobile India la scelta del coniuge non dipendeva da incontri casuali, da emozioni irresponsabili ed effimere, ma dalla ponderata decisione di genitori e tutori dotati di un maturo senso pratico. Non era necessario che i promessi sposi si amassero e neppure che si conoscessero. Nella gloriosa Atene di Pericle, com’è noto, l’eros dell’uomo era riservato ai giovani efebi. I bassi stimoli carnali si sedavano con l’aiuto di prostitute o concubine. L’amore, in quanto ideale elevazione, non poteva aver per oggetto un essere considerato inferiore, come la donna. Quando un uomo diceva di essere innamorato era sottinteso che non alludesse alla moglie. Ma anche la passione femminile, a quei tempi, pare trovare i suoi genuini accenti nel saffismo più che nella devozione allo sposo.
Santippe, moglie bisbetica e dispotica, svuota un vaso da notte sulla testa di Socrate. Il bell’Alcibiade vuole invece sedurlo, “come un innamorato che tende una trappola al suo amato”. Condizione dell’amore era per altro una libertà di cui solo il maschio godeva. La donna onesta era destinata alla clausura, segregata prima nella casa del padre poi in quella del marito, sempre sottomessa. Le si chiedeva di essere buona amministratrice, madre premurosa e, ovviamente, moglie fedele. Non perché il marito ne fosse romanticamente geloso ma perché le corna lo avrebbero disonorato e reso ridicolo. La fedifraga veniva ripudiata e bandita, ma a Roma e in altre società meno indulgenti rischiava la pena di morte (del resto, anche il moderno codice penale – credo fino al 1981 – giudicava con indulgenza il ‘delitto d’onore’, ossia l’uccidere la moglie infedele).
Nella Sparta di Licurgo, dove le asociali gelosie erano proscritte, un uomo poteva ordinare alla moglie di farsi fecondare da un aitante giovanotto, per dare alla città figli più gagliardi. Platone, su quella falsariga, propose di metter le donne in comune. Nell’antica società ebraica la moglie era considerata una semplice proprietà, alla stregua di uno schiavo o di un mulo. Per i farisei il matrimonio svolgeva una funzione procreativa, non quella di appagare desideri personali. La neonata Ecclesia cristiana esige da entrambi i coniugi una rigorosa fedeltà, ponendosi idelamente in contraddizione con l’elasticità di costumi che caratterizzava la società imperiale. Tuttavia, in materia di nozze, si conforma alle norme del diritto romano, incorporando nel rituale usanze pagane di cui abbiamo preservato la forma – e forse anche lo spirito – fino ai giorni nostri.
San Paolo par considerare il matrimonio una medicina contro l’incontinenza e l’adulterio, legittimazione religiosa di insopprimibili impulsi carnali, concessione alla debolezza umana, più che un atto d’amore: “meglio sposarsi che bruciare”. A chi si sposa non annuncia una felicità amorosa ma “tribolazioni a causa della carne”. È vero che prevede per il marito il dovere di amare la moglie, ma proprio facendone un obbligo morale dimostra come l’amore non sia connaturato al matrimonio ma vada prescritto, introducendo così nella relazione un carattere di artificiosità.
Anche nel sensuale Islam, tra giovani coppieri dal volto di luna e ammiccanti cerbiatte che si contendono il cuore del poeta, non ricordo un verso erotico dedicato alla legittima consorte. Nel Celeste Impero, come in altre grandi civiltà, era lecito che il marito, per suo diletto, ospitasse tra le mura domestiche una concubina. La moglie manteneva i suoi diritti di padrona di casa e tutto scorreva nei limiti di una rispettosa discrezione. Se il marito la sospettava di adulterio poteva denunciarla insieme al presunto amante. Se v’era un ragionevole sospetto di colpevolezza, i due venivano decapitati e le loro teste fatte ruzzolare su due scivoli paralleli. Se rotolando i loro occhi si incontravano significava che erano realmente colpevoli. Se no, si era trattato di uno spiacevole errore giudiziario.
Il samurai, emblema della fierezza di un Giappone medievale e ancora lungi dall’essere americanizzato, considerava vero amore quello segreto, ignoto anche alla persona amata, uomo o donna che fosse. Era una poetica devozione, custodita in un eroico silenzio, evidentemente inconciliabile con una relazione ufficiale e sancita dalla legge. Nel medioevo europeo il matrimonio è più che altro un accordo commerciale tra famiglie. Gli sposi son a volte ragazzi che neppure si conoscono. Le liriche dei trovatori effondono il profumo di una passione sublime e nascosta, esaltazione spirituale della carne che spregia ogni volgare vincolo coniugale. L’amor cortese si rivolge a donne idealizzate e irraggiungibili, si nutre di sospiri, di aneliti adulterini, di servitù appassionate e fedeli ma di natura non contrattuale. Le fiamme della passione, che possono divampare alte e repentine tra Lancillotto e Ginevra, Paolo e Francesca, come incendio di stoppie, si spegnerebbero nella paludosa routine matrimoniale.
È significativo che Dante non metta tra i santi e i beati alcuna coppia di sposi, e la sua stessa legittima consorte, Gemma Donati, è solo un’oscura trascurabile figura sul cui nome incombe l’oblio, essere del tutto irrilevante di fronte all’immortale Beatrice. E ai bigotti apparirà sconcertante che in Paradiso venga ospitata pure quella Cunizza da Romano che era notorio esempio di infedeltà coniugale. Del resto, Cristo non ha presentato la primizia del suo corpo risorto a una donna regolarmente sposata ma a una prostituta. Dio stesso pare a volte preferire gli impulsivi peccati d’amore ai legittimi imenei. Di ciò si lamenta Eloisa con Abelardo: finché avevano vissuto come liberi amanti, senza freni alla lussuria, erano stati felici. Ma una volta santificata la loro unione Dio li aveva puniti in modo atroce, con l’evirazione del focoso magister e condannando lei alla reclusione monastica.
Del resto, la Chiesa si decise a fare del matrimonio una cerimonia religiosa solo nel 1215 e solo nel 1439 lo rese espressamente un sacramento. In tale occasione si sentenziò che “triplice è lo scopo del matrimonio: primo, ricevere la prole ed educarla al culto di Dio; secondo, la fedeltà, che un coniuge deve conservare verso l’altro; terzo, l’indissolubilità del matrimonio”. Come si vede, non si fa alcun accenno all’amore. E Lutero andò oltre, privando il matrimonio anche di presunti sensi metafisici e riducendolo ad atto civile, regola di rapporti sociali e puramente umani. Il che, revocando ogni eternità al vincolo matrimoniale, rendeva legittimo e persino consigliabile che i coniugi in certi casi divorziassero.
Il Rinascimento, col rifiorire delle visioni platonizzanti, restituisce dignità spirituale al cosiddetto amor socraticus, contemplazione di bellezze divine grazie alla mediazione di giovani e armoniosi corpi maschili. Prospettiva che riduce il matrimonio tra uomo e donna a coito riproduttivo. Per cui, secondo il Poliziano «messer Marsilio (Ficino) dice che si vuole usare le donne come gl’orinali, che, come l’uomo v’ha pisciato drento, si nascondono e ripongono». Evidentemente ancora non si vedeva un nesso necessario tra lo sposarsi e l’amarsi.
Ma anche nei secoli successivi le nozze restarono per lo più decise dalle convenienze sociali, dalle differenze di classe e da freddi pragmatismi. Nobili e popolino, re e contadini, si sposavano in conformità non ai propri desideri ma a ciò che la società si aspettava da loro. Questo giustifica il fatto che gli sposi, ognuno secondo le proprie possibilità, cercassero fuori di casa soddisfazione all’eccitabilità degli istinti e dei sentimenti, rendendo il matrimonio stimolo all’infedeltà e al sesso mercenario, regolare trasgressione degli impegni presi anche con giuramenti religiosi.
Non si tratta di ritornare agli antichi costumi di Atene, di Gerusalemme o dell’Europa medievale, ma di capire che amore e matrimonio son realtà diverse, seguono vie diverse, perseguono finalità diverse, e anche quando occasionalmente si incrociano non vanno confusi tra loro. A tale scopo, in una sorta di anamnesi collettiva, cioè mettendo sul lettino dell’analista la società stessa, potremmo chiederci com’è stato possibile arrivare a questa confusione, a questa psicosi romantica che impedisce un obiettivo esame della realtà.
Venendo al presente…
Si potrebbe indicare come precursore di una nuova ideologia matrimoniale Swedenborg, il grande veggente svedese, che vedeva nel mistero nuziale l’incontro di due anime gemelle, destinate per legge divina a ritrovare la loro unità di carne e di anima. Quando il matrimonio risponde a questa vocazione spirituale sancisce davanti a Dio e agli uomini una relazione sacra, che dura anche oltre la morte. Swedenborg ammette però che ciò accade molto raramente e che i matrimoni contratti sulla terra, in questo senso, sono per la maggior parte nulli. Ma dare al matrimonio fondamenta metafisiche, proiettarne l’indissolubilità in una dimensione immateriale, è idea antica. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l’amore”, è detto nella Bibbia, dove troviamo anche, riferita agli sposi, la formula “una caro” – una carne sola – allusione alla loro unità indivisibile.
La Chiesa, da parte sua, ha visto nell’unione religiosa di uomo e donna una figura dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa. Ma, nonostante questi voli teorici, nella sua sostanza il matrimonio ha conservato nel tempo caratteri pratici e mondani. Probabilmente, una svolta effettiva si ha nell’800, in relazione a vari fattori storici e culturali. Sull’onda dell’illuminismo, della rivoluzione francese, delle innovazioni napoleoniche, sembrano assumere maggior importanza i diritti dell’individuo, compreso quello di decidere liberamente con chi sposarsi. Si criticano i vecchi costumi sessuali, l’ipocrisia delle relazioni coniugali. Gli arrampicanti ceti borghesi reagiscono al libertinaggio aristocratico e alle sue dissipazioni. In sostanza, cercano di inserire nel contratto matrimoniale clausole affettive, ponendo l’intimità sentimentale e il trasporto amoroso tra coniugi come un nuovo valore, garanzia di una maggior stabilità economica e sociale (“due cuori e una caparra”).
V’è poi il romanticismo dilagante del XIX secolo, che col suo pathos artistico e poetico penetra nell’istituzione matrimoniale e le infonde nuove linfe vitali, la avvolge in una nube iridescente di fantasie sentimentali. A questa trasformazione contribuisce anche il diffondersi di una letteratura edificante e sciropposa, in cui il classico canovaccio fiabesco della ragazza che trova il suo principe e lo sposa vien surrogato da intrecci borghesi, in cui l’amore trionfa non su maghi, streghe, draghi e malefizi, ma su difficoltà di tipo sociale e psicologico.
Così, le due visioni del matrimonio, più socioeconomica una, più romantica l’altra, in urto tra loro o in concilianti convivenze, sono arrivate entrambe sino a noi. Oggi vi è chi, conscio della fragilità e caducità degli affetti, anche quelli più vigorosi, e in fondo uniformandosi a un’antica usanza, esige che le nozze siano precedute da minuziosi e avvocateschi accordi, per tutelarsi contro i rovesci dell’amore. Ma vi sono anche coloro che, epigoni di languori ottocenteschi, credono ancora che matrimonio faccia rima con cuore. Queste diverse tendenze hanno però subito varie rielaborazioni, così che la società odierna presenta de iure e de facto una fenomenologia matrimoniale molto più complessa che in ogni altra epoca.
Ad esempio, si prescinde ormai dai cosiddetti schemi ‘binari’, basati sulla differenza e la complementarità dei sessi, il che rende possibile allargare l’idea di matrimonio e aprirla a nuovi, sorprendenti orizzonti. Paradossalmente, l’amor socratico o saffico non sono più i naturali antagonisti delle nozze. Anzi, proprio i diversamente erotici, quelli che per ragioni storiche non hanno potuto sviluppare gli anticorpi al mito del matrimonio, ne sono diventati i più entusiasti cantori e patrocinatori, come avessero improvvisamente scoperto che un legame ratificato dal codice civile è più romantico di una relazione clandestina. Sono loro a dare nuovi fasti al matrimonio, a risollevarlo da una crisi epocale. È “l’amore che non osa dire il suo nome”, passione segreta, proibita, esecrata ma libera, che ora smania di mettersi l’anello al dito, di stipulare negozi giuridici e vincolarsi a formalismi sociali. È perciò difficile prevedere in che modo evolveranno in futuro tanto l’istituzione del matrimonio quanto la sua mitologia.
Privilegiare la sua rappresentazione romantica, vederlo in primo luogo come riconoscimento legale di un rapporto d’amore, di un’attrazione per altro emancipata dalla sua funzione sessuale e riproduttiva, potrebbe provocare una progressiva dissoluzione dei suoi millenari caratteri sociali, morali e naturali. Enfatizzare le finalità e gli aspetti essenzialmente sentimentali del matrimonio rende plausibile immaginare una società in cui non solo un uomo può sposare un uomo, una donna una donna, ma dove un vecchio potrà sposare un bambino, una ragazza il suo gatto, una bambina la sua bambola, una donna il suo vaso di gerani, un uomo la sua automobile ecc. È evidente che “marito e moglie” divengono in tal caso termini obsoleti e inservibili.
Potremmo ipotizzare anche matrimoni misti, che trascendono il concetto di ‘coppia’ e comprendono più soggetti di varia natura, o matrimoni diffusi, i cui diversi membri sono dislocati sotto diversi tetti coniugali, meta-matrimoni tra esseri umani e intelligenze artificiali e così via. Se amore e matrimonio appaiono legati da una relazione logica, dato che non possiamo porre un limite alle manifestazioni dell’amore, neppure potremo circoscrivere arbitrariamente l’ambito dell’istituto matrimoniale. Per altro, considerando il carattere aleatorio e transitorio delle nostre emozioni, sembrerebbe razionale fissare una scadenza agli impegni matrimoniali, come nei contratti di locazione. Unioni a tempo determinato rinnovabili col consenso delle parti o da cui recedere con un semplice e congruo preavviso, senza travagliate pratiche di separazione e divorzio.
La fisiologica infelicità umana
È inutile far congetture o esprimere giudizi su prospettive ancora incerte e imprevedibili. Lascio ai posteri una più obiettiva valutazione. È tuttavia evidente come il nostro post o trans-romanticismo, enfatizzando la confusione tra amore e matrimonio, possa in fondo svuotare entrambe queste due realtà di senso e di valore, con esiti disgreganti a livello sociale e personale. Ritengo perciò utile esortare chiunque, uomo, donna o altro, a non mescolare eros e dovere, impegni duraturi e stati d’animo passeggeri. «Baciami mille volte e ancora cento, poi nuovamente mille e ancora cento», dice Catullo a Lesbia, ma è inverosimile immaginare tale delirio di labbra in una relazione di lungo corso. Credo si possa dire privilegiata quell’unione in cui si realizzano le condizioni di un umile ‘volersi bene’, di una solidale amicizia, di qualche stabile affinità elettiva, che sfugge a quella convivenza “mortalmente noiosa che viene indicata col nome di felicità domestica”, per dirla con Engels.
Naturalmente io espongo qui una regola generale, la medietas, la mediocrità che a qualcuno apparirà aurea e ad altri grigia. Ma ogni coppia di sposi può credersi un’eccezione. Il matrimonio ‘medio’ appartiene alla prosa della vita, e se esprime qualcosa di poetico è la poesia di cose comuni, banali e noiose, fatta di prevedibili rime, di minimalismi quotidiani. Saperlo può evitare cocenti disincanti e una serie di gravi problemi pratici. Perché, come dice Goethe: «L’amore è una cosa ideale, il matrimonio è una realtà; la confusione tra reale e ideale non resta mai impunita».
Il matrimonio ricusa le estasi del cuore e i rapimenti sensuali, per educarci a due fondamentali virtù: la forza di superare le illusioni e la pazienza con cui bisogna accettare un inevitabile scontento. “Invano si cerca in questa vita d’esser felici”, ammonisce Agostino. “Vivendo e lagrimando impari che nulla qua giù diletta e dura”, fa eco il Petrarca. Dunque il matrimonio rappresenta una forma di sviluppo morale, una pedagogia della realtà. Ma c’è ancora chi ne fa un mito, un’iperbole romantica, una fiaba dove gli sposi, non si sa per quale arcana magia, vissero per sempre felici e contenti.