Trance-gender
di Livio Cadè - 26/02/2023
Fonte: EreticaMente
La trance è transito, passaggio verso una dimensione ulteriore della coscienza. Un tempo era strumento di comunicazione con gli Dei, gli spiriti degli antenati o i demoni. Gli antichi sciamani ne facevano uso per guarire i malati e per trasmettere insegnamenti divini. Probabilmente dalla trance di uomini straordinari sono nate le varie religioni. Ma possiamo trovare nella trance un significato molto più comprensivo di quello che comunemente le diamo. Vederla cioè come uno stato momentaneo di incanto e stupore in cui, sospesa la sua ordinaria condizione di grigiore o di conflitto, la coscienza è rapita nella contemplazione di una bellezza.
Non vi può essere un’omologazione del rapimento. Sono infiniti i modi e le misure con cui la trance ci sottrae alla stretta immanenza delle cose, all’abbraccio soffocante del mondo. È di fatto una necessità fisiologica, un antidoto, seppur effimero, alla pesantezza dell’essere e al senso della separazione. Infatti, contemplando diveniamo una cosa sola con la cosa contemplata. La scissione tra l’io e il suo oggetto viene riassorbita nell’esperienza del bello.
Di fatto, ciò a cui la coscienza dell’uomo tende è l’estasi. Ci inganniamo pensando di voler essere ricchi, potenti, sapienti. Né ci interessa veramente essere morali, casti, devoti. L’uomo in realtà vuole uscire da sé, dai confini del suo io empirico e del suo ambiente, perciò cerca liberatorie forme di trance. Nel suo creare, amare, giocare, o fare qualsiasi altra cosa gli piaccia, possiamo scorgere un riflesso del suo “essere per l’estasi”.
La trance libera i sensi, le idee, i sentimenti. Può esser naturale o artificiale, spontanea o frutto di una strenua disciplina, inattesa o intenzionalmente perseguita. Ora un improvviso excessus mentis, un’illuminazione mistica o un rapimento amoroso, una voluttuosa esperienza sessuale. Bertrand Russell ricordava come, mentre collaborava con Whitehead alla stesura dei Principia Mathematica, cadesse talvolta in deliqui estatici, prodotti dalla contemplazione di strutture dotate di logica bellezza.
Purtroppo trasverberazioni e visioni celesti sono rare. In genere si tratta di blande estasi quotidiane, così ordinarie che non vi facciamo caso. A volte è sufficiente assaggiare un biscotto per uscire da sé ed entrare nel vestibolo d’una trance. Tutto può essere occasione di meraviglia, invito a sollevare i veli pesanti che coprono l’anima. Alcuni cadono in trance in seguito a un intenso e prolungato sforzo fisico, altri contemplando un’opera d’arte o un tramonto, ascoltando musica, leggendo un libro, passeggiando in un bosco, accarezzando un gatto. Si è rapiti in un’oasi di dimenticanza, obliterazione del tempo, ‘evasione’ nel senso benigno del termine, cioè espressione di quel sacro diritto che ogni prigioniero ha di tentare la fuga.
Il sonno è il modo più comune ed efficace per uscire da noi stessi, calandoci in una vuota assenza di sé la cui libertà radicale ci risana. Indefinibile nulla, senza autorità, padrone o Dio, senza cultura o morale, senza amici o nemici, senza attese. Solo un’oscura beatitudine. Finché svegliandoci non ci cristallizziamo nuovamente in una volontà determinata, nelle sue tensioni palesi o segrete. Ma, si dirà, questa è una libertà negativa, in cui non possiamo far nulla. Dunque, a che serve? Domanda assurda, perché se la libertà servisse a qualcosa non sarebbe libera.
Contemplare è un atto senza causa e senza scopo, quindi libero. La libertà non è l’accessorio di qualche sistema politico ma la nostra vera natura. Certo se ne può dubitare, guardando una massa asservita, omologata ai modelli del Potere, o una società basata sul paradigma Schiavo-Padrone. Ma non possiamo imporre ad altri i nostri oggetti di contemplazione. Neppure dobbiamo scandalizzarci del fatto che molti trovino piacevole il sottomettersi, l’aggregarsi, il conformarsi. In realtà, l’ostacolo frapposto tra noi e la libertà, più che il mondo esterno con le sue catene economiche o sociali, siamo noi stessi. Qualcosa in noi si oppone a una libertà radicale. Per il senso comune esser liberi significa poter fare quello che vogliamo. Ora, questa libertà è sempre condizionata, ha sempre obiettivi finiti, perché la nostra volontà stessa è chiusa in prospettive finite e condizionate.
Si crea così una difficoltà paradossale per cui l’io che vuol essere libero dalle sue determinazioni empiriche dovrebbe negarsi, dissolversi in una sorta di Nirvana. Questa impersonale libertà, come pure una contemplazione priva di io, coinciderebbe allora con il nulla, o con il tutto, e non sapremmo dire chi è che ne gode. Come impedire che una goccia evapori? chiesero al Buddha. Gettala nel mare, fu la risposta. È una bella metafora, ma nessuno vorrebbe perdersi in una vastità senza nome. Perciò alla libertà totale preferiamo le libertà relative che possiamo razionalmente misurare. Tuttavia resta in noi una nostalgia di infinito, come di un cielo intravisto attraverso le sbarre di una prigione.
L’anima anela a contemplare, non meno di quanto il corpo desideri respirare. Del resto, è scritto nel Genesi che quando Dio creò la luce, le tenebre, le acque, le piante, gli animali, vide che “ciò era cosa buona”. Per sette volte si dice che Dio contempla la sua opera e la trova buona. Infine “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono”. In realtà, il testo greco usa il termine kalos, bello, per tradurre una parola ebraica – tob – il cui significato oscilla tra la bontà e la bellezza.
Si può dunque pensare che ragione della creazione sia il contemplare. L’effondersi nel cosmo sarebbe un uscire di Dio da sé stesso per rispecchiarsi in un mondo in cui ha trasfuso la bellezza dei caratteri divini. Ma la creazione stessa, accogliendo in sé l’immagine di Dio, la può contemplare sotto varie forme. Questa contemplazione comprende ogni oggetto d’amore, partendo dai ricettacoli più modesti del desiderio fino alla visione immutabile del Summum Bonum, ovvero del Sommo Bello, vale a dire Dio stesso. Ogni trance tende infatti a trascendersi e a salire verso oggetti sempre più degni.
Più saliamo nei gradi della contemplazione, più la bellezza penetra in noi. Come un’onda, provoca una concentrazione di energia nei canali della coscienza, causandone l’eccitazione, lo scuotimento, e infine la fa traboccare, come un pozzo riempito dalle piogge. Potremmo dunque, con un’analogia sessuale, affermare che il nostro essere è essenzialmente orgasmico. Siamo originati da un’estasi e rivolti all’estasi. E forse il morire, sciogliendo i confini dell’io fisico, sarà una sublime, ultima trance.
Tuttavia, l’estasi ha un doppio volto, può liberare la mente od offuscarla. Si pensi alle droghe, all’ubriachezza, alle masse adoranti leader politici o religiosi; alla terribile trance pandemica che ha allucinato intere nazioni. Anche il dolore e la paura possono infatti provocare rapimenti estatici, per quanto tenebrosi. Ed è bastato divinizzare un siero chimico per causare nella gente un raptus di trascendenza e visioni di salvezza. Il Potere non esita infatti a sfruttare la fisiologia dell’estasi per irretire l’uomo in trance maligne e condurlo in una progressiva catabasi verso le zone infere della sua coscienza.
In un mondo ridotto ormai a una messa nera, in cui i simboli del sacro vengono capovolti e oltraggiati, non sorprende che l’estasi non serva a portare l’uomo fuori di sé e avvicinarlo al divino ma a precipitarlo in zone subumane, subliminali, dove sia più facile manipolarne le azioni e il pensiero. La trance non mette più in contatto con intelligenze superiori né scioglie i lacci dell’io. È un’evasione che imprigiona. È l’ebbrezza di una connessione ultra-veloce, l’oracolo di un’intelligenza artificiale, il sonnambulismo di chi vive in simbiosi con uno smartphone.
Mercato, globalismo, Metaverso, fluidità di genere, vaccini, inclusione, diversità, ambientalismo, le formule magiche del Nuovo (Dis)Ordine trasformano la trance in ebete conformismo. La gente cerca l’oblio nell’estasi del politicamente corretto. Ogni giorno veniamo intossicati dall’incenso della tecno-religione, ubriacati da una propaganda che usa la trance per indurre in noi i cupi deliri del trans-gender o del trans-umanesimo. Quindi, per poter uscire da sé stesso, l’uomo moderno deve prima rientrare in sé, tornar sobrio. Prima di metter le ali alla sua “fuga di solo a solo” deve riportare i piedi a terra e ritrovare la sua strada.
Sconsiglio però di seguire mappe disegnate da scienze materialiste, dai media, da Forum Economici Mondiali, da menti robotiche. Che ne sanno loro della bellezza? Non soffermiamoci dunque a rimirare gli orrori della società, perché noi tendiamo a trasformarci in ciò che contempliamo. Finiremmo per perderci in una selva di incubi, in questa degradante trans-trance, immagine diabolicamente rovesciata dell’impulso a trascendersi. Seguiamo invece le briciole di luce che qualcuno ha lasciato cadere per noi, a indicarci il sentiero di casa.