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Trump distrugge un ordine mondiale in crisi, ma nel sovvertimento c'è una opportunità

di Alaister Crooke - 13/04/2025

Trump distrugge un ordine mondiale in crisi, ma nel sovvertimento c'è una opportunità

Fonte: Giubbe rosse

Lo “shock” di Trump – il suo “decentramento” dell’America dal ruolo di perno dell'”ordine” del dopoguerra  attraverso il dollaro – ha innescato una profonda spaccatura tra coloro che hanno tratto enormi vantaggi dallo status quo, da un lato; e, dall’altro, la fazione MAGA (Make America’s Greatest Aid), che è arrivata a considerare lo status quo come ostile, persino una minaccia esistenziale, per gli interessi degli Stati Uniti. Le parti sono sprofondate in una polarizzazione aspra e accusatoria.
È una delle ironie del momento che il presidente Trump e i repubblicani di destra abbiano insistito nel denigrare – come una “maledizione delle risorse” – i benefici dello status di Valuta di Riserva che ha portato agli Stati Uniti l’ondata di risparmi globali in entrata che ha permesso loro di godere del privilegio unico di stampare moneta, senza conseguenze negative: almeno fino ad oggi! I livelli delo debito alla fine contano, a quanto pare, anche per il Leviatano.
Il vicepresidente Vance paragona ora la valuta di riserva a un “parassita” che ha divorato la sostanza del suo “ospite” (l’economia statunitense) imponendo un dollaro sopravvalutato.
Tanto per essere chiari, Trump credeva di non avere scelta: o avrebbe potuto sovvertire il paradigma esistente, a costo di un dolore considerevole per molti di coloro che dipendono dal sistema finanziarizzato, oppure avrebbe potuto permettere che gli eventi si muovessero verso l’inevitabile collasso economico degli Stati Uniti. Persino coloro che hanno compreso il dilemma che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sono rimasti alquanto scioccati dalla sua sfacciataggine di un semplice “imporre dazi al mondo”.
Le azioni di Trump (come molti sostengono) non sono state né impulsive né capricciose. La “soluzione tariffaria” era stata preparata in anticipo dal suo team negli ultimi anni e costituiva parte integrante di un quadro più complesso, che integrava gli effetti dei dazi sulla riduzione del debito e sulle entrate con un programma per costringere l’industria manifatturiera scomparsa a rimpatriare le fabbriche in America.
Quella di Trump è una scommessa che può avere successo o meno: rischia di provocare una crisi finanziaria più grave, dato che i mercati finanziari sono eccessivamente indebitati e fragili. Ma ciò che è chiaro è che il decentramento dell’America che seguirà alle sue minacce brutali e all’umiliazione dei leader mondiali causerà alla fine una reazione contraria sia nelle relazioni con gli Stati Uniti, sia nella disponibilità globale a continuare a detenere asset statunitensi (come i i titoli del Tesoro). La sfida della Cina a Trump darà un “tono” anche a coloro che non hanno il “peso” della Cina.
Perché allora Trump dovrebbe correre un rischio simile? Perché, dietro le azioni audaci di Trump, come osserva Simplicius, si cela una dura realtà che molti sostenitori del MAGA si trovano ad affrontare:
“Resta indiscutibile che la forza lavoro americana sia stata sventrata dalla triplice minaccia di una immigrazione di massa: dall’anomia generale dei lavoratori come conseguenza del decadimento culturale e, in particolare, l’alienazione di massa e l’esclusione dal diritto di voto degli uomini di mentalità conservatrice. Questi fattori hanno contribuito fortemente all’attuale crisi di dubbi sulla capacità della ‘manifattura americana’ di tornare mai a una parvenza del suo precedente splendore, a prescindere da quanto Trump possa colpire l'”Ordine Mondiale” in difficoltà”.
Trump sta organizzando una rivoluzione per invertire questa realtà, per porre fine all’anomia americana, riportando in auge (come spera Trump) l’industria statunitense.
C’è una corrente dell’opinione pubblica occidentale – “non certo limitata agli intellettuali”, né ai soli americani – che si dispera per la “mancanza di volontà” del proprio Paese, o per la sua incapacità di fare ciò che va fatto – per la sua incostanza e la sua “crisi di competenza”. Queste persone desiderano una leadership ritenuta più dura e decisa, desiderano spietatezza e un potere senza limiti.
Un sostenitore di Trump molto quotato lo dice in modo piuttosto brutale: “Siamo ora a un punto di svolta molto importante. Se dobbiamo affrontare ‘Il Grande Male‘ con la Cina, non possiamo permetterci lealtà divise… È ora di diventare cattivi, brutalmente, duramente cattivi. Le sensibilità delicate devono essere eliminate come una piuma in un uragano”.
Non sorprende che, nel contesto generale del nichilismo occidentale, possa affermarsi una mentalità che ammira il potere e le soluzioni tecnocratiche spietate – quasi la spietatezza fine a sé stessa. Prendetene nota: ci aspetta un futuro turbolento.
Il disfacimento economico dell’Occidente è stato reso più complicato dalle dichiarazioni spesso contraddittorie di Trump. Può darsi che faccia parte del suo repertorio; tuttavia, i suoi modi disordinati evocano il pensiero che nulla è affidabile, nulla è costante.
Secondo quanto riferito da “addetti ai lavori della Casa Bianca”, Trump ha perso ogni inibizione quando si tratta di agire con coraggio: “È al culmine del non gliene frega più niente”, ha detto al Washington Post un funzionario della Casa Bianca che ha familiarità coi pensieri di Trump:
“Brutte notizie? A lui non gliene frega un cazzo. Farà quello che deve fare. Farà quello che ha promesso di fare in campagna elettorale”.
Quando una parte della popolazione di un Paese si dispera per la “mancanza di volontà” o per l’incapacità di “fare ciò che deve essere fatto“, sostiene Aureliano, comincia, di tanto in tanto, a identificarsi emotivamente con un “altro Paese“, ritenuto più forte e più risoluto. In questo particolare momento, “l’immagine” di “una sorta di supereroe nietzschiano – al di là di ogni considerazione di bene e male” … “è caduta su Israele ” – almeno per una parte influente dei decisori politici statunitensi ed europei. Aureliano prosegue:
Israele, la cui combinazione di una società superficialmente di stampo occidentale con audacia, spietatezza e un totale disprezzo per il diritto internazionale e la vita umana, ha entusiasmato molti ed è diventata un modello da imitare. Il sostegno occidentale a Israele a Gaza ha molto più senso se si considera che i politici occidentali e parte della classe intellettuale ammirano segretamente la spietatezza e la brutalità della guerra israeliana.
Eppure, nonostante i disagi e le sofferenze causate dalla “svolta” statunitense, essa rappresenta comunque anche un’enorme opportunità: l’opportunità di passare a un paradigma sociale alternativo, al di là del finanziarismo neoliberista. Finora, questa possibilità era stata esclusa dall’insistenza delle élite sul TINA (There Is No Alternative – non c’è alternativa). Ora la porta si è spalancata.
Karl Polyani, nel suo libro La grande trasformazione (pubblicato circa 80 anni fa), sosteneva che le enormi trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito nel corso della sua vita (la fine del secolo di “relativa pace” in Europa dal 1815 al 1914 e il successivo sprofondare nella crisi economica, nel fascismo e nella guerra, ancora in corso al momento della pubblicazione del libro), avevano un’unica causa sovraordinata:
Prima del XIX secolo, sosteneva Polyani, il “modo di essere” dell’uomo (l’economia come componente organica della società) era sempre stato “integrato” nella società e subordinato alla politica, ai costumi, alla religione e alle relazioni sociali locali; cioè subordinato a una cultura di civiltà. La vita non era trattata come separata, non ridotta a particolari distinti, ma era vista come parti di un tutto organico, ovvero della Vita stessa.
Il nichilismo postmoderno (che è sfociato nel neoliberismo sfrenato degli anni Ottanta) ha capovolto questa logica. In quanto tale, ha costituito una rottura ontologica con gran parte della storia. Non solo ha separato artificialmente l'”economia” dal “modo di essere” politico ed etico, ma l’economia aperta e liberoscambista (nella sua formulazione di Adam Smith) ha preteso la subordinazione della società alla logica astratta del mercato che si autoregola. Per Polanyi, questo “significava nientemeno che la gestione della comunità come un’appendice del mercato”, e niente di più.
La risposta, chiaramente, è stata quella di rendere di nuovo la società la parte dominante di una comunità distintamente umana; ovvero darle il suo significato attraverso una cultura viva. In questo senso, Polanyi ha anche enfatizzato il carattere territoriale della sovranità – lo Stato-nazione come precondizione sovrana all’esercizio della politica democratica.
Polanyi avrebbe sostenuto che, in assenza di un ritorno alla Vita stessa come perno centrale della politica, una violenta reazione era inevitabile. È una reazione di questo tipo quella a cui stiamo assistendo oggi?
In una conferenza di industriali e imprenditori russi, il 18 marzo 2025, Putin ha fatto riferimento preciso a una soluzione alternativa di “Economia Nazionale” per la Russia. Putin ha evidenziato sia l’assedio imposto allo Stato, sia la risposta russa, un modello che probabilmente verrà adottato da gran parte del mondo.
Si tratta di una modalità di pensiero economico già praticata da una Cina che aveva anticipato il blitz tariffario di Trump.
Il discorso di Putin – metaforicamente parlando – costituisce la controparte finanziaria del suo discorso al Forum sulla Sicurezza di Monaco del 2007, in cui accettò la sfida militare posta dalla “NATO collettiva”. Il mese scorso, tuttavia, si è spinto oltre: Putin ha affermato chiaramente che la Russia aveva accettato la sfida posta dall’ordine finanziario anglosassone dell'”economia aperta”.
In un certo senso, il discorso di Putin non è stato nulla di veramente nuovo: ha rappresentato il passaggio dal modello di una “economia aperta” a quello di una “economia nazionale”.
La “National Economics School” (del diciannovesimo secolo) sosteneva che l’analisi di Adam Smith, fortemente incentrata sull’individualismo e sul cosmopolitismo, trascurava il ruolo cruciale dell’economia nazionale. Il risultato di un libero scambio generalizzato non sarebbe stata una repubblica universale, ma, al contrario, un assoggettamento universale delle nazioni meno avanzate da parte delle potenze manifatturiere e commerciali predominanti. I sostenitori di un’economia nazionale si opponevano all’economia aperta di Smith sostenendo un'”economia chiusa” per consentire alle industrie nascenti di crescere e diventare competitive sulla scena globale.
“Non fatevi illusioni: non c’è nulla al di là di questa realtà”, avvertì Putin agli industriali russi riuniti nel marzo 2025. “Mettete da parte le illusioni”, disse ai delegati:
“Sanzioni e restrizioni sono la realtà odierna, insieme a una nuova spirale di rivalità economica già scatenata”.
“Le sanzioni non sono misure temporanee né mirate; costituiscono un meccanismo di pressione sistemica e strategica contro la nostra nazione. Indipendentemente dagli sviluppi globali o dai cambiamenti nell’ordine internazionale, i nostri concorrenti cercheranno costantemente di limitare la Russia e di indebolirne le capacità economiche e tecnologiche”.
Non dovreste sperare in una completa libertà di commercio, pagamenti e trasferimenti di capitali. Non dovreste contare sui meccanismi occidentali per proteggere i diritti di investitori e imprenditori… Non parlo di sistemi legali: semplicemente non esistono! Esistono solo per loro stessi! È questo il trucco. Capito?!
Le nostre sfide [russe] esistono, ‘sì’, ha detto Putin; “ma anche le loro sono numerose. Il predominio occidentale sta svanendo. Stanno prendendo piede nuovi centri di crescita globale “.
Queste sfide non sono il “problema”; sono l’opportunità, ha sostenuto Putin: daremo priorità alla produzione manifatturiera nazionale e allo sviluppo delle industrie tecnologiche. Il vecchio modello è finito. La produzione di petrolio e gas sarà semplicemente il complemento di una “economia reale” in gran parte autosufficiente e a circolazione interna, senza più l’energia come motore. Siamo aperti agli investimenti occidentali, ma solo alle nostre condizioni, e il piccolo settore “aperto” della nostra economia reale, altrimenti chiusa e autosufficiente, continuerà ovviamente a commerciare con i nostri partner BRICS.
La Russia sta tornando al modello di economia nazionale, ha lasciato intendere Putin. “Questo ci rende resistenti a sanzioni e dazi”. “La Russia è anche resistente agli incentivi, essendo autosufficiente in termini di energia e materie prime”, ha aggiunto Putin. Un chiaro paradigma economico alternativo di fronte a un ordine mondiale in disfacimento.

di Alaister Crooke per Conflicts Forum    –    Traduzione a cura di Old Hunter