Trump e la Riviera del Mediterraneo
di Salvo Ardizzone - 18/02/2025
Fonte: Italicum
Oggi il mondo è concentrato sullo sconvolgimento dei vecchi equilibri globali imposto da Trump; l’attenzione di tutti è rivolta alla guerra in Ucraina e al teatro europeo, ma noi qui preferiamo esaminare dinamiche ed effetti di queste azioni in Medio Oriente, in quella cruciale parte di mondo, già dominio esclusivo degli Stati Uniti, ora assai meno propensa a obbedire di qualche anno fa.
Come è noto, ai primi di febbraio, in occasione del viaggio di Netanyahu a Washington, Trump ha lanciato l’idea che gli Stati Uniti prendano il controllo della Striscia di Gaza, sgombrando la popolazione e costruendo quella che lui ha chiamato la “Riviera del Mediterraneo”, un complesso immobiliare per super ricchi in stile Dubai. In realtà, non è un’idea nuova: il genero Jared Kushner ne aveva già parlato nel febbraio dell’anno scorso, in occasione di una conferenza ad Harward, facendo circolare progetti e immagini di ville sulla costa mentre le bombe israeliane massacravano la popolazione e distruggevano le case. Da allora, Kushner è a caccia di finanziatori per il progetto con il suo fondo “Affinity Partners”.
L’annuncio di Trump ha lasciato di stucco la sua stessa Amministrazione – non il suo clan familiare – apparendo più come una delle boutade cui il Presidente è solito piuttosto che un piano concreto. Tuttavia, col passare dei giorni, è sembrato che se ne sia innamorato malgrado molti collaboratori abbiano cercato di frenarlo, mostrandosi sempre più convinto d’aver trovato la soluzione a un problema irrisolvibile dal punto di vista di Washington e Tel Aviv, ovvero come chiudere la crisi e gestire Gaza dopo la fine del conflitto.
Chi controllerà la Striscia il giorno dopo è infatti la questione delle questioni. Per americani e israeliani è stato uno shock quando, all’indomani della tregua, hanno visto i reparti di Hamas emergere dal nulla, in divisa e sui propri mezzi, salutati da immense folle festanti, mostrando in mondovisione che la narrazione israeliana era una menzogna: la Resistenza non era stata affatto distrutta e la popolazione era con lei; insomma era la dimostrazione che Hamas e Gaza erano la stessa cosa. Con ciò spazzando via i progetti per il giorno dopo che erano fioriti, numerosi quanto estemporanei, mostrando a tutti che nessuno potrà togliere alla Resistenza il controllo della Striscia. E l’impressionante fiume umano che s’è riversato verso il nord di Gaza, un’area totalmente distrutta, è stata la migliore testimonianza che i palestinesi vogliono restare comunque sulla loro terra.
Del resto, a prescindere dalla narrazione che se n’è fatta in Occidente, sono gli stessi vertici israeliani a confessare il loro fallimento: il generale Giora Eiland, l’ideatore del famigerato “Piano dei Generali” che per mesi e mesi ha assediato il nord di Gaza, tentando inutilmente di sradicare popolazione e combattenti della Resistenza con fame sete e l’uso più brutale della forza, ha dichiarato ai media che Israele aveva quattro obiettivi della guerra: distruggere le Brigate della Resistenza, fallito; togliere il controllo politico di Gaza ad Hamas, fallito; far tornare gli israeliani sfollati dai combattimenti alle loro case, fallito sia in Galilea che attorno alla Striscia; liberare i prigionieri israeliani, realizzato solo in parte e unicamente grazie ad accordi con la Resistenza. Hamas aveva un unico obiettivo: mantenere il controllo di Gaza e vi è riuscito, malgrado gli israeliani abbiano fatto di tutto in 15 mesi di combattimenti.
E per inciso: l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant giorni fa ha rivelato che l’Esercito israeliano è arrivato ad applicare il Protocollo Annibale ai suoi civili, sia il 7 ottobre che dopo, causando fra di essi molti morti che la propaganda occidentale ha poi addossato ad Hamas. Per chi non lo sapesse, il Protocollo Annibale è una procedura che prevede la soppressione di militari presi prigionieri, o in procinto di essere catturati, per evitare che possano essere usati come mezzo di pressione su Israele. Il fatto è che ciò è stato applicato ai civili catturati dalla Resistenza, e questo, sebbene a lungo passato sotto silenzio dai media, sta ora emergendo facendo montare un risentimento interno destinato a esplodere contro la dirigenza politica e militare.
Tornando a quanto dicevamo, è divenuto evidente che qualsiasi progetto di governance della Striscia successiva alla fine del conflitto non può prescindere da Hamas, che è e vi resterà centrale. Né tantomeno può essere sostituito dall’ANP, del tutto screditata, che appare agli occhi dei palestinesi come una struttura collaborazionista (e per inciso: tale appare oggi anche a molti che appartengono a Fatah).
In un simile quadro, inaccettabile sia per israeliani che americani, la “soluzione” prospettata da Trump sposta fisicamente il problema deportando l’intera popolazione della Striscia, e per di più realizzando una colossale speculazione immobiliare. Peccato che, oltre a essere un crimine di guerra – perché questo è la deportazione - sia una proposta del tutto scollegata dalla realtà, che dimostra l’ignoranza e l’incapacità di comprendere la situazione.
Il progetto ha provocato l’immediato no degli stati arabi (e non solo), indisponibili alla deportazione, meno che mai ad accogliere i gazawi. Un rifiuto che per Giordania ed Egitto è obbligato: la situazione interna giordana è estremamente delicata, la popolazione è per oltre la metà palestinese e, ovviamente, simpatizza per i gazawi; la Fratellanza Musulmana, in sintonia con Hamas, è il primo partito e la sua popolarità è salita alle stelle durante la guerra. Per Re Abdallah accettare di accogliere i palestinesi di Gaza equivarrebbe a gettare una torcia in una polveriera, condannando lo stato a destabilizzazione certa e segnando la fine, più che probabile, certa, della sua monarchia.
È toccata a lui la sgradevole incombenza d’essere il primo dei regnanti arabi a incontrare Trump a Washington: le immagini della conferenza stampa sono state patetiche, con il Presidente americano a fare il suo show dinanzi alle telecamere e il Re giordano impacciato, che con frasi vaghe evitava di rispondere a qualsiasi domanda. Il presidente egiziano Al Sisi ha preferito scansare quella gogna, rinviando sine die il viaggio negli USA programmato per il 18 febbraio e, al contempo, convocando una riunione straordinaria della Lega Araba per il 27. Anche per il suo regime le conseguenze di un’adesione al progetto di Trump sarebbero catastrofiche, ed è per questo che sta lavorando a un piano alternativo di ricostruzione di Gaza con capitali arabi, ovviamente del Golfo.
Anche per quelle Monarchie la situazione non è molto diversa, per tutte vale quanto ha detto l’erede al trono saudita Bin Salman a Blinken mesi orsono: dei palestinesi non gliene importava nulla, ma al suo popolo sì e non voleva correre il rischio di fare la fine di Sadat, ucciso per aver fatto la pace con Israele. Ma Riyadh ha anche altre ragioni a far muro verso Washington: da indiscrezioni emerse, Trump vorrebbe che i sauditi cessassero la collaborazione con la Russia nell’Opec Plus e inondassero i mercati con greggio provocando un crollo delle quotazioni, ovvie carte negoziali nelle prossime trattative di Washington con Mosca sull’Ucraina. Ma Mohammed Bin Salman non ha alcuna intenzione di prestarsi.
E per inciso, un crollo del prezzo del petrolio farebbe male, tanto, anche ai produttori di shale oil americano, che hanno assoluto bisogno di un prezzo del barile alto per estrarre petrolio con la costosa tecnica della fratturazione idraulica. La categoria, che ha appoggiato Trump alle elezioni, è insorta vedendosi tradita, perché una simile evenienza la distruggerebbe.
La levata di scudi degli stati arabi, e musulmani in generale, ha per il momento rallentato Trump, che ha detto di non avere fretta: in realtà, fretta ne ha - e tanta – di chiudere la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente per concentrarsi su ciò che ritiene essenziale, il confronto con la Cina. Il surplace dichiarato è tattica negoziale, vuole chiudere presto contando sul disorientamento provocato dalle sue proposte per spuntare condizioni migliori. Nei fatti, non ha alcun piano preciso e le sue appaiono assai più come provocazioni che progetti concreti. Al momento, in assenza di qualsiasi assenso dei paesi arabi, si fanno le ipotesi più improbabili: è trapelato che si esamina la possibilità di spostare i palestinesi in Somaliland o in Puntland, regioni separatiste della Somalia, oppure in Marocco; assai più che ipotesi, castelli in aria.
Quanto a Israele è sbalordito e felice, bastava vedere Netanyahu, raggiante mentre ascoltava Trump andare oltre le sue più ottimistiche aspettative. Il Premier israeliano è ora consolidato (almeno fino a quando le varie inchieste sul 7 ottobre, che lui sta rinviando in ogni modo, non scodelleranno le verità scomode che stanno emergendo). Le destre di Ben Gvir (Potere Ebraico), Smotrich (Sionismo religioso) e del rabbino Deri (Shas) sono entusiaste e la prospettiva di annessione della Cisgiordania, che Trump ha benedetto pubblicamente, le sta galvanizzando. Anche le opposizioni si sono allineate, applaudendo alla radicale soluzione del problema Gaza. Il ministro della Difesa Katz ha già ordinato alle IDF di preparare l’evacuazione e il ripudio di uno stato palestinese è stato ribadito con la massima forza, del resto, che senso avrebbe se si parla di deportazione?
In questo contesto è ovvio che la tregua sia appesa a un filo, figurarsi una pace duratura. Hamas, dal canto suo, è pronto a riprendere la guerra, non intende permettere che Israele ottenga per via negoziale ciò che non è riuscito a ottenere con 15 mesi di combattimenti. Già, lunedì della scorsa settimana, il portavoce di Hamas Abu Omaida ha annunciato la sospensione dello scambio dei prigionieri previsto per il sabato successivo, a causa delle infinite infrazioni alla tregua di Israele, che ha minacciato la ripresa del conflitto. Lo scambio è poi avvenuto egualmente grazie all’intervento dei mediatori qatarioti ed egiziani, che per l’occasione hanno ammorbidito l’evidente ostruzionismo degli israeliani sull’applicazione dell’accordo. Tuttavia, l’annuncio della sospensione è stato soprattutto un messaggio della Resistenza diretto a Trump, perché non pensi d’avere carta bianca.
Al momento, Israele s’è ritirato sui confini e dal corridoio Netzarim, ma non intende farlo – a quanto dice neanche in futuro - da quello Filadelfia, lungo il confine con l’Egitto. E continua con le uccisioni (è di qualche giorno fa la deliberata e ammessa uccisione di tre poliziotti palestinesi). Il punto è che Netanyahu, al momento, non ha intenzione di procedere alla Fase 2 del processo di pace; la delegazione inviata in Qatar per trattare era priva di mandato per negoziare, in attesa del ritorno del Premier da Washington. E, secondo quanto trapelato sulla stampa, nel Gabinetto di guerra convocato dopo il suo rientro, le condizioni per l’ulteriore implementazione del processo di pace sarebbero l’esilio della Dirigenza di Hamas, lo scioglimento delle Brigate, la consegna delle armi e la restituzione immediata di tutti i prigionieri.
In pratica una resa che la Resistenza non accetterà mai; non accetterà di regalare a Israele quella vittoria che non è stato capace di ottenere sul campo. Sono condizioni che Netanyahu tenta di imporre dopo le dichiarazioni di Trump, con ciò aprendo alla prosecuzione del conflitto, dando per scontato un massiccio aiuto americano che scontato non è.
È vero che il Segretario di Stato americano Rubio, recatosi in Israele domenica scorsa, s’è mostrato in totale sintonia con Netanyahu, schierandosi per la totale distruzione di Hamas e identificando nell’Iran l’origine di tutti i mali della regione ma, come ho detto in altra occasione, a mio parere fra Biden e Trump vi è una sostanziale differenza: Biden era disposto ad aiutare Israele a prescindere, anche quando veniva umiliato da Netanyahu, anche quando gli USA ne avevano un danno politico immenso.
Trump è disposto a fare ancora di più, ma a condizione di pensare d’averne un utile diretto (quanto reale a conti fatti è altro discorso); inoltre, ha ben chiaro che è Netanyahu ad aver bisogno di lui e non l’inverso. E questo fa tutta la differenza. E per dirla tutta, è a mio avviso improbabile che conceda carta bianca a Israele: un conto è massacrare i palestinesi, ma un massiccio attacco preventivo all’Iran - con quello che comporterebbe - è tutt’altra cosa.
Resta il fatto che le estemporanee iniziative di Trump stanno terremotando i rapporti con i tradizionali partner degli USA. Secondo Daniel Pipes, autorevole commentatore conservatore americano, gli avversari degli Stati Uniti si erano già compattati, respingendo l’Unipolarismo e reclamando una revisione dell’ordine americano; ora, con la sua aggressività imprevedibile, Trump sta allontanando i partner dell’America, inducendoli a trovare nuove sponde per sostenere i loro interessi. In pratica, buttandoli fra le braccia dei competitor degli USA. Non il massimo dei risultati.
Stando a un lungo articolo della rivista New Yorker, il Tycoon ha apertamente ammesso di voler riprendere la Teoria del Pazzo di Nixon, ovvero di volersi mostrare volutamente irrazionale, capace di tutto, per indurre gli interlocutori ad assecondarlo per paura delle sue reazioni. Il fatto è che Nixon, con tutte le sue grandi pecche, era però un politico consumato, con una profonda conoscenza delle situazioni geopolitiche mondiali, e poteva contare su collaboratori di notevole spessore. Basta vedere come, ai suoi tempi, riuscì a giocare la Cina contro la Russia. Trump non ha quelle competenze e quanto ai collaboratori, piaccia o no, è una bestemmia paragonarli a personaggi del calibro di un Kissinger.
Questa mancanza di comprensione dell’altro da sé, unito a un’arroganza che sconfina nel pensarsi onnipotente, può condurre a conseguenze anche se non volute disastrose. Può indurre a scontro chi non è compreso, e dunque largamente sottovalutato, aprendo a conflitti dagli esiti imprevedibili quanto devastanti. L’America di Trump sta dimostrando apertamente di volere strumenti, non partner, anzi, di pretendere d’avere servi dichiarati trattati come tali.
Ma il mondo è cambiato, tanto, e per le nazioni che non accettano l’assoggettamento esistono alternative e sponde fuori dagli Stati Uniti. E se in Europa ciò non è compreso da classi dirigenti allevate da tre generazioni all’obbedienza a prescindere, alla fedeltà agli USA prima che al proprio paese, altrove è diverso, non foss’altro che per istinto di conservazione, largamente perso nel Vecchio Continente, non ad altre latitudini. Con ciò accelerando il tramonto della pretesa primazia a Stelle e Strisce.
(Tratto e adattato dal Format Il Filo Rosso condotto dall’autore sul canale youtube Il Vaso di Pandora)