Trump, i finti buoni e il socialismo del futuro
di Alessio Mannino - 03/03/2025
Fonte: La Fionda
Le persone diciamo normali, è noto, non leggono più la carta stampata: nel 1986, anno del sorpasso da parte di Repubblica, il Corriere della Sera vendeva 487 mila copie, mentre oggi raggiunge appena i 124 mila (dati fine 2023). Ancora meno, fra gli amanti del genere, sono i perversi che compulsano gli editoriali di prima pagina. Tarati come siamo da quella abitudine anacronistica che è la rassegna stampa mattutina, chi scrive è tra quelli. Così, sabato 1 marzo ci siamo sottoposti alla lettura, caffè forte in mano per arrivare in fondo, all’omelia di Ernesto Galli della Loggia. Storico preclaro tanto da esser oggi consigliere del ministro dell’istruzione Valditara e, soprattutto, opinionista ottimo massimo del Corrierone, Galli della Loggia, dipartito il mai rimpianto Piero Ostellino e ultimamente un po’ spompato Angelo Panebianco, mantiene saldo il ruolo di interprete ufficiale del Verbo liberale. O quanto meno, presso i lettori che si pesano (ma non si computano, perché sono pochissimi). Per incidens, Indro Montanelli li chiamava, con sprezzante ironia, i “liberaloni”.
Nel pezzo, intitolato “Una scena orribile”, il liberale di via Solferino sfoga tutto il suo orrore per il pestaggio mediatico del presidente ucraino Zelensky da parte dei bulli Donald Trump e JD Vance. Ma il senso dell’articolo è un altro. Ovvero: svolgere l’ennesima, arcimilionesima lezioncina sull’immacolata concezione di una democrazia che voglia dirsi liberale. Leggiamo: “Tra il suffragio universale da un lato e i diritti inviolabili di libertà individuale dall’altro c’è stato un felice incontro storico, ma non c’è alcun nesso necessario. Infatti, mentre il primo, il suffragio universale, garantisce l’affermazione della volontà della maggioranza indistinta, dei desiderata della massa; i secondi, i diritti di libertà, tutelano, invece, purché ciò non nuoccia a qualcun altro, la sfera di libertà del singolo”. Prosegue il Sommo: “Dunque il suffragio universale incarna per sua natura il principio popolare, mentre i diritti individuali hanno invece un’origine, e conservano un carattere, in un certo senso aristocratico. Garantiscono la sfera di libertà del singolo o dei pochi contro i più, ma garantiscano anche che nelle società governate dalla volontà delle maggioranze esistano le élite e le istituzioni che le alimentano. Le istituzioni dove le élite stesse perlopiù operano (in generale tutte quelle che hanno a che fare con il sapere e la cultura in senso lato, dalla burocrazia alla stampa, alle università): nelle quali ciò che conta essenzialmente è il merito”. Ma ecco la novità: “Fino ad oggi questa parte dell’Europa e gli Stati Uniti sono stati governati da un regime liberaldemocratico, un regime, per l’appunto, che contemperava in vari modi diritti ed elezioni, élite e volontà popolare. L’arrivo di Trump sulla scena segna una drammatica frattura storica tra questi due ambiti. D’ora innanzi nella sua democrazia senza élite — anzi loro nemica — deve contare sempre e comunque solo chi ha vinto le elezioni, solo la volontà popolare da lui rappresentata e basta”.
Insomma, il quadro è chiaro: “Bando alle élite e alle competenze, appunto”. Secondo il papa del liberalismo nostrano, balliamo sull’orlo dell’abisso perché Trump ha vinto le elezioni, per altro democraticamente, contro quel felpato universo di riti, simboli e circoli elitari nei secoli fedele alla santa Ipocrisia, pedaggio che il vizio tributa alla virtù. Una virtù, beninteso, identificata nel conservare e puntellare il potere politico, economico, culturale (in una parola: egemonia) in mano all’oligarchia dei possidenti sulla testa, per dirla con Pasolini, degli spossessati. Il fremito di sdegno che fa vibrare la barba dellaloggiesca non viene tanto da questo fatto preso in sé, visto che, come egli può insegnarci, di demagoghi è costellata la vicenda della democrazia (pensiamo al nostro Berlusconi, che in comune con Trump aveva la forma mentis di affarista senza scrupoli e il gusto dello spettacolo kitsch, sia pur senza mai toccare le vette d’ignobiltà del video “Trump Gaza”).
No, a far venire le bolle all’insigne, se afferriamo il messaggio fra le righe, è che il sovrano menefreghismo di Trump per le forme, il piccone con cui ha demolito il confine fra scena e retroscena, la sconcertante amoralità da businessman che gli è propria formano una micidiale deflagrazione che induce scribi e farisei come lui a dover scoprire le carte, confessando, in parte, la verità. E infatti, la verità finalmente scappa di penna, all’esegeta della Libertà: la democrazia è una cosa, il liberalismo un’altra. La democrazia liberale, a rigore, è concettualmente un ossimoro, e politicamente una mezza truffa. Fra il “principio popolare”, il voto esteso a tutti (anche ai puzzoni del basso ceto), e le famose “élite”, i poteri che non passano dal voto (“burocrazia, stampa, università”), c’è un discrimine, uno iato che fino ad ora era stato colmato, per non turbare i sonni dei liberaloni, dalla prevaricazione delle seconde sul primo.
Grazie a quale escamotage ideologico? Ma naturalmente al “merito” e alle “competenze”. E qui, a saltar fuori, è il razzista sociale che alberga nell’imo di ogni liberale: siccome il popolo, per definizione, ignora quale sia il suo bene e per sua natura tende a farsi trascinare dall’idolo di turno, è necessaria una minoranza di spiriti eletti, meritevoli, competenti (dal “carattere in un certo senso aristocratico”) posti a guardia dei “diritti di libertà”, in modo da contrastare gli abusi inevitabili della “volontà popolare” lasciata a sé stessa. Considerato che a parlare è il difensore di un’ideologia, ripetiamo, intrinsecamente classista com’è il liberalismo, meglio non poteva spiegare il disaccoppiamento, lo scarto dialettico fra liberali e democratici: ai primi, importa tutelare gli interessi della cricca dominante, della minoranza più forte, travestendo l’operazione con la salvaguardia retorica dei più deboli e della “sfera di libertà del singolo” (senza badare se questo “singolo” sia il ceo di Mediobanca o un precario sfruttato a mille euro al mese); ai secondi, preme che le differenze fra i due – reddituali e, di conseguenza e più ancora, di capacità decisionale – si riducano significativamente, aumentando in tutte le sedi il potere di autodeterminazione dei più poveri. La vera dicotomia, dunque, è fra oligarchico e democratico. Il termine “liberale”, a conti fatti, corrisponde soltanto a un abile, ma ormai sputtanato camouflage.
E la principale ragione sta in ciò che Galli della Loggia è costretto a omettere, altrimenti gli cascherebbe davvero tutto il palco. E cioè che il presunto “merito” dei “competenti” equivale non già a una superiore sapienza o preparazione culturale, e men che meno spirituale, ma alla bravura puramente tecnica nel servire, da bravi servi, lo strapotere del cuore pulsante stesso dell’oligarchia: i più ricchi. Che poi questi ricchi siano, come Trump e sodali, meno untuosi e con meno freni inibitori di quelli di prima, questo non cambia la sostanza, ossia la struttura, dell’ingiustizia sociale. Ma ne cambia, e infatti sta cambiando, la rappresentazione da commedia borghese, con il perbenismo del “si fa ma non si dice”. Stanno cadendo alcune maschere e certi infingimenti. Per esempio, che non viviamo in una repubblica di sapienti che ci difendono da noi stessi, ma nella società, un tantino più prosaica, dei neo-feudatari del Capitale. Con i Galli della Loggia a fare gli inorriditi laudatores della verginità violata.
PS. Nota per idealisti pragmatici. Come già specificato altrove su questo giornale (“Il caso Georgescu: la democrazia ‘liberale’ non è democratica. E non lo è mai stata”, 27 febbraio), non si può sfuggire alla legge del formarsi fisiologico di una ristretta minoranza che decide per la maggioranza: si tratta di una costante sociale ineludibile. Per essere chiari: non esisterà mai gruppo umano senza un sotto-gruppo che lo guidi. Le utopie di pura uguaglianza (“passare dal regno della necessità al regno della libertà”, Troskij) si sono rivelate, e restano, utopie. Tutto il problema risiede, invece, nel capire come creare le condizioni, anche prefigurative, anche oggi mentre sto scrivendo, perché l’élite sia autentica élite. Un’aristocrazia non dei “migliori”, ma dei diversi, dei liberati dalla pestilenza liberale. Per il presente, differenziata da quella “servitù volontaria” in cui l’uomo cibernetico trova il suo sedativo. Per l’avvenire, risultante dal minimizzare le disuguaglianze economiche per massimizzare le diversità naturali fra individui. È il rompicapo del socialismo del futuro. O per lo meno dell’unico, a nostro modesto avviso, auspicabile: libertario ma non liberale, disincantato ma mai rassegnato, e affrancato dal fantasma di impossibili palingenesi di qualche inedito, immaginario “uomo nuovo”. L’uomo per com’è basta e avanza, nel suo schifo e nel suo sublime. Non c’è bisogno di sognarne un altro.