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Trump: il rischio di Yalta e il “miracolo” improbabile di una Nuova Europa

di Giorgio Vitangeli - 13/03/2025

Trump: il rischio di Yalta e il “miracolo” improbabile di una Nuova Europa

Fonte: Italicum

Nel caos apparente il nuovo ordine

Ma cosa sta succedendo?  Il ciclone Trump sembra aver fatto impazzire l’ago sella bussola che sino ad ora aveva indirizzato la politica internazionale degli Stati Uniti, ed in particolare i giudizi sulla guerra d’Ucraina e le relazioni “atlantiche” col docile protettorato europeo.
Sino a ieri Putin era diventato il nemico numero uno dell’Occidente, l’autocrate nemico della democrazia e della libertà dei popoli che aveva brutalmente invaso l’Ucraina, e se avesse vinto certamente non si sarebbe fermato a Kiev, ma avrebbe invaso anche altri Paesi europei. Dunque: la guerra in Ucraina riguardava in realtà tutta l’Europa, ed era perciò non solo un dovere morale, ma vitale per la stessa libertà dell’Europa aiutare l’Ucraina a resistere, fornendole generosamente armamenti e sussidi economici, così come facevano gli Stati Uniti.  E si poteva esser certi della immancabile vittoria cioè la riconquista da parte degli eroici combattenti ucraini di tutti i territori occupati dall’esercito russo. La Russia infatti, sfiancata da una guerra che si era rivelata ben più difficile e lunga del previsto, e ferita a morte dalle sanzioni economiche comminatele dall’Occidente, sarebbe crollata.
Questa era la narrazione del pensiero unico dominante che giungeva dagli Stati Uniti, o meglio dall’Amministrazione Biden. Ma ora alla Casa Bianca non c’è più Biden: dal 20 gennaio vi si è insediato Donald Trump ed in appena un mese tutto è cambiato. Contrordine compagni, come diceva una vignetta che decenni or sono appariva sul “Candido” di Guareschi. Putin non è più un brutale invasore. L’economia russa non è crollata, e non è destinata a crollare; la resistenza dell’Ucraina non prelude ad una sua immancabile vittoria, ma ad un collasso. I territori occupati dai russi non potranno essere riconquistati, ma vanno ceduti alla Russia. Trump e Putin si sono parlati ed al momento in cui scriviamo (ultima settimana di febbraio) si stanno mettendo d’accordo. E il presidente dell’Ucraina Zelenski, fino a ieri una sorta di eroe, che veniva accolto, coccolato e rifornito di armi e di miliardi di dollari e di euro? Scavalcato da Trump e da Putin, che decidono sulla sua testa ed al massimo glielo comunicano dopo, ridotto a patetica marionetta, travestita da soldatino in mimetica, che presto dovrà abbandonare la scena.
Una “svolta epocale”?
E gli alleati del “protettorato americano” d’Europa? Questa, al momento, sembrerebbe la novità più grande; qualcuno dice la “svolta epocale”.  L’Unione Europea infatti si è dissociata apertamente dalla scelta americana. All’Onu ed al G7 l’Europa ha votato diversamente dagli Stati Uniti, cioè contro l’idea che l’unità territoriale dell’Ucraina possa essere intaccata.
E per la verità, come ha sottolineato un editoriale apparso sull’Avvenire del 15 febbraio scorso “il fossato si va ampliando sempre più e sono innumerevoli i temi sui quali i due mondi viaggiano divisi”. Vale la pena citarli e riportare il senso dell’editoriale del quotidiano dei vescovi italiani perché, pur non essendo immune, specie su questioni di politica interna italiana, da prese di posizione di parte, per quanto riguarda i problemi di politica estera rappresenta una posizione presumibilmente “super partes”, in cui si esprime – ecco il secondo motivo - l’esperienza e la saggezza di una istituzione bimillenaria.
Al primo posto dell’elenco delle divergenze tra Stati Uniti ed Unione Europea figura l’Intelligenza Artificiale.  Può sembrare un tema d’importanza politica minore, ma non lo è se si considera che in un futuro ormai prossimo essa invaderà tutti gli aspetti della vita sociale e del mondo del lavoro, con conseguenze che minacciano d’essere devastanti, sia per l’occupazione ed i modelli economici, sia per il modello di società che ne potrà derivare. Ebbene su questo tema gli Stati Uniti hanno preso la strada di un totale “mercatismo” cioè della più completa liberalizzazione e deregolamentazione nell’uso dell’Intelligenza Artificiale, mentre la scelta europea, espressa alcuni giorni or sono a Parigi, è quella di una intelligenza artificiale “umanistica”. Dietro questa parola, apparentemente un po’ generica, si esprime in realtà un senso del limite. Non può essere cioè il solo mercato a regolare lo sviluppo ed i modi d’applicazione dell’Intelligenza Artificiale, ma devono concorrervi anche quei principi morali che presiedono alla dignità dell’essere umano. E se queste dichiarazioni non sono solo un velleitario “flatus vocis”, come è probabile, ciò significa anche che rispunta anche il vecchio concetto di “economia sociale di mercato” che caratterizzava l’economia europea sino agli anni novanta del secolo scorso, e che la faceva diversa dal modello di economia anglosassone, individualista e “mercatista”, che ha cioè il solo mercato quale criterio di giudizio e di scelta.
L’altra grande divergenza riguarda i problemi ambientali. E se per l’intelligenza artificiale ha ragione l’Europa, per la politica ambientale a mio modesto giudizio ha ragione l’America di Trump, che ha deciso di uscire dagli accordi di Parigi sul clima. La ragion del contendere è semplice: che vi sia un cambiamento climatico in atto sembra incontestabile, ma mentre l’Europa (e l’America prima di Trump) ritiene che a causarlo sia il comportamento umano, cioè l’eccesso di anidride carbonica emesso bruciando combustibili, che determina un “effetto serra”, Trump su questo è negazionista, ed alcune centinaia di scienziati in tutto il mondo, silenziati dalla stampa “mainstream”, per la verità gli danno ragione: i calcoli sul presunto “effetto serra” sono in larga parte ipotetici, basati su modelli inattendibili e largamente manipolati. Perché un conto è il cambiamento climatico, un conto l’inquinamento, quello sì causato dall’uomo. E la “politica verde” sarebbe in realtà a sostegno di una speculazione, di una immensa bolla finanziaria ed a discapito dell’economia reale.
Le divergenze in politica estera
In tema poi di politica estera, a parte il caso clamoroso della guerra d’Ucraina, dell’accordo diretto fra Trump e Putin che esclude la stessa Ucraina e l’Unione Europea, considerandola senza ipocrisia inconsistente, e dunque del tutto marginale, spiazzandola e isolandola, le posizioni tra Stati Uniti ed Europa sono differenti anche nei confronti di Israele e della Palestina. Lo si constatava già nei mesi scorsi – sottolinea il quotidiano dei Vescovi italiani, - ma ora la distanza è ulteriormente cresciuta dopo l’ipotesi, lanciata da Trump, che Gaza possa passare sotto il controllo americano dopo averne espulsi tutti i palestinesi.
Poi, naturalmente, c’è la minaccia di una guerra commerciale, con dazi imposti ai partner europei, e inevitabili strascichi di ritorsione da parte dell’Europa.
Infine divergenze su un tema particolare che la stampa “mainstream” sinora ha largamente sottovalutato, o del tutto ignorato, ma che evidentemente, e “pour cause”, in Vaticano è molto avvertito: il ruolo cioè della religione nella sfera pubblica. L’Europa persegue la strada della laicità alla francese “con una sorta di allergia ad ogni riferimento religioso” e – aggiungiamo noi, con una atteggiamento permissivo e largamente rispettoso per la sensibilità e le tradizioni di altri credenti, a cominciare dai musulmani sempre più numerosi, e per contro con leggi sempre più irrispettose dei principi morali e delle tradizioni cristiane (aborto, morte assistita, semplice convivenza sempre più diffusa e legalmente paragonata al matrimonio, inteso come semplice contratto, la cui sacralità nessuno più intende, e che è anzi distorta con il matrimonio tra individui dello stesso sesso, “educazione” sessuale per adolescenti e persino bambini sulla base di principi che sono all’antitesi di quelli della Chiesa e della stessa morale comune, e via di questo passo).
Negli Stati Uniti, ove pure alcuni di questi atteggiamenti sono largamente diffusi, specie nelle città, Trump ha creato alla Casa Bianca un “Ufficio della fede” e le politiche in favore della vita, e contro l’aborto, sono state parte integrante e non secondaria del suo programma elettorale. Ma l’origine di questo atteggiamento e le sue implicazioni, sono assai più complesse politicamente di un bigottismo volto ad attirare i voti dell’ “America profonda”: originano piuttosto da quel puritanesimo dei Padri pellegrini, da quel richiamo alla Bibbia (e quindi ora ad Israele) che caratterizza la tradizione religiosa dell’America protestante, ed in particolare della vasta America rurale.
Serve un miracolo
Davanti a queste crescenti divergenze, quali le considerazioni del quotidiano cattolico? “Almeno fino ad oggi, nota, non sembra esserci conseguenze sulla stabilità della Nato, ma la vicenda ucraina getta qualche ombra”. Ed ancora: “L’Unione Europea è davanti ad un bivio storico: decidere se vuole esistere come entità politica o disgregarsi nella pluralità dei suoi interessi nazionali”. Ma “il quadro europeo è molto fragile”… “Macron ha perso gran parte del consenso popolare, e non può avere un ruolo credibile sulla scena europea”. Quanto poi alla Germania, essa “sta attraversando una grave crisi economica e politica” ed “il rischio è che torni ad imporre la logica dell’austerity, con effetti devastanti”. E l’Italia? “Quella dell’Italia è una posizione molto difficile da mantenere … Pur considerando l’abilità politica della premier, il governo italiano non è parte della maggioranza europea ed è improbabile che possa avere una leadership significativa a livello continentale”. Per fronteggiare il decisionismo esplosivo di Trump servirebbe decisione e coraggio “ed invece l’UE si trova divisa e debole”.
Conclusione: “Serve un miracolo”. Il quale miracolo si potrebbe sostanziare in “un colpo d’ala del nuovo cancelliere tedesco” che sblocchi l’impasse con una iniziativa per rimettere insieme i cocci di un disegno che rischia d’andare in pezzi”. E “Il modello non può essere Maastricht”. Insomma: una nuova Europa sulle macerie dell’Unione Europea.  Una nuova Europa, con “una unità politica, nel rispetto delle tante ricchezze nazionali, che la metta finalmente in condizioni di fare scelte e di avere gli strumenti necessari per poter esistere”. Essa mai come ora “ha bisogno che l’ottimismo della volontà sia più forte del pessimismo della ragione”.
Ho riportato ampi stralci dell’editoriale del quotidiano dei Vescovi italiani perché, tra i tanti commenti di cui traboccano attualmente i giornali e di cui si nutrono gli innumerevoli “talk show” televisivi, mi è sembrato quello che meglio rispecchia la situazione e che indica realisticamente la sola possibile, ancorché “miracolosa” via d’uscita, ad evitare che tutto il disegno d’unità europea (e non solo quella deforme caricatura che ne è stata l’UE) vada in pezzi, e per decenni, o addirittura secoli, sparisca dall’orizzonte politico continentale.
Ma per capire bisogna ricorrere alla geopolitica
Ma a questa pur corretta analisi mi pare manchi qualcosa. Manca, in sostanza, la visione geopolitica, cioè la considerazione delle vere forze contrastanti in gioco. E manca qualunque accenno ad alcune domande cruciali che il terremoto in atto nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa dovrebbe porre. Prima fra tutte: ma quella di Trump è davvero una inversione definitiva di direzione che allontana gli Stati Uniti dall’Europa? E quali dovrebbero essere le scelte di una futuribile “Europa delle Nazioni”, in particolare nei confronti della Russia? E quale è stata sinora la strategia geopolitica degli Stati Uniti? Trump l’ha davvero abbandonata?
Per tentare di rispondere appunto a queste domande bisogna fare un ampio excursus che parte addirittura dalla strategia dell’Impero inglese, ereditata e seguita fedelmente da quello americano. L’ho fatto nel mio ultimo libro: “Repubblica presidenziale ed un’Europa dall’Atlantico al Pacifico”. Chi volesse approfondire può scaricare il libro con Amazon da Internet. Qui mi posso limitare solo ad accenni e ad alcuni snodi essenziali.
La “pietra miliare” della strategia geopolitica degli Stati Uniti nell’ultimo quarto di secolo è il famoso libro di Zbigniew Brzezinski “The Great Chessboard” (“La grande scacchiera”), pubblicato nel 1997. Ma il politologo ebreo-polacco, naturalizzato americano, che fu Consigliere per la sicurezza degli Stati Uniti durante la presidenza di Jimmy Carter, in quel libro non faceva altro che riprendere ed attualizzare la tesi di fondo di un altro geografo e politologo inglese, sir Halford Mackinder, il quale già in un libro del 1904 sosteneva che il ”cuore del mondo” era l’Eurasia centrale e che “chi controlla l’Europa Orientale controlla il cuore della terra; chi controlla il cuore della terra comanda l’isola-mondo (cioè il continente eurasiatico n.d.r) e chi controlla l’isola mondo controlla il mondo”.
Anche per Brzezinski è l’Eurasia il “cuore del mondo”, dove si gioca la partita per la supremazia mondiale. Ed aggiungeva, a sottolinearlo, che l’Eurasia è il continente più grande del pianeta, ove vive il 75% della popolazione mondiale e si concentra gran parte della ricchezza mineraria ed industriale del pianeta, i tre quarti delle fonti energetiche conosciute, e che esprime il 60% del PIL mondiale. Numeri questi che risalgono a circa trent’anni or sono, e che aggiornandoli ad oggi sarebbero di certo ancor più eloquenti, e tra le risorse minerarie strategiche alle fonti energetiche andrebbero aggiunte le terre rare.
I veri pericoli per l’egemonia USA
Date queste premesse, quali erano i suggerimenti di Brzezinski? Anzitutto una premessa: l’Europa per lui era niente altro che un “osservatorio” americano nella periferia dell’Eurasia. Un “osservatorio” che avrebbe permesso agli Stati Uniti di avanzare con la Nato sino ai confini della Russia, che era il “nemico strategico”. Ma se la Russia avesse respinto l’Occidente, stringendo un’alleanza con la Cina e con l’India, allora “il perimetro americano in Eurasia si sarebbe ridotto sensibilmente”.
Affinché gli Stati Uniti confermassero la loro egemonia mondiale e facessero del XXI° secolo il “secolo americano” essi dovevano scongiurare anche “Un pericolo maggiore” di quello rappresentato dall’alleanza russo-cinese estesa all’India ed all’Iran, e questo pericolo era che l’Europa, sottraendosi al protettorato americano, trovasse linee d’intesa con la Russia. ”Se i partners occidentali – scriveva Brzezinski - soprattutto Francia e Germania, dovessero spodestare gli Stati Uniti dal loro osservatorio nella periferia occidentale (cioè se l’Europa si affrancasse dal protettorato americano n.d.r.) la partecipazione americana alla partita nello scacchiere eurasiatico si concluderebbe automaticamente”. Come evitare questo secondo più grande pericolo lo suggeriva Kissinger alcuni anni dopo, cioè nel 2014. “Trattare l’Ucraina come parte del confronto Est - Ovest, e spingerla a far parte della Nato avrebbe affossato, secondo Kissinger, ogni prospettiva di integrare la Russia e l’Occidente, ed in particolare la Russia e l’Europa in un sistema di collaborazione internazionale”.
Rileggendo questi scritti che, lo ripeto, hanno costituito secondo unanime opinione dei politologi e degli studiosi di geopolitica, una sorta di Vangelo per la politica internazionale degli Stati Uniti in questi ultimi trent’anni. Anche la “lettura” dei fatti più recenti, malgrado il caos apparente, diventa chiara. Il 2014 è l’anno in Ucraina della “rivolta colorata” di piazza Maidan e del colpo di stato filoccidentale che caccia il presidente ucraino filorusso che era stato regolarmente eletto. L’Ucraina, divenuta filoccidentale, viene “spinta a far parte della Nato”. Di qui la reazione estrema di Putin, la guerra per procura, che scoppia in Ucraina, il sabotaggio del North Stream che era l’asse della collaborazione tra Russia ed Europa, i tentativi di criminalizzare Putin e la russofobia che l’Inghilterra sparge a piene mani in tutt’Europa. Missione raggiunta dunque: ogni tentativo di integrare la Russia e l’Europa in un sistema di collaborazione internazionale è stato affossato per decenni, e forse più.
Ma a prender corpo con sempre maggiore evidenza è stato l’altro grande pericolo per l’egemonia americana che Brzezinski paventava: la Russia, sanzionata dall’Europa e dagli Stati Uniti è stata spinta nelle braccia della Cina. Putin non aveva altra strada. Di una Cina che non è più quella di trenta anni or sono, ma una potenza economica maggiore degli stessi Stati Uniti, specie nei settori strategici delle tecnologie avanzate e che a grande velocità sta diventando anche una potenza militare. E con i BRICS si era già formato un gruppo antagonista all’Occidente che alla Russia ed alla Cina aveva aggiunto l’India, il Brasile, il Sudafrica, e stava coagulando i Paesi del Sud del mondo, dell’Asia, dell’Africa e addirittura del Sud America ed attirando persino alleati storici degli Stati Uniti quali l’Arabia Saudita.
Una nuova Yalta per rompere l’abbraccio tra Russia e Cina
E’ questo risultato disastroso per gli Stati Uniti che Trump cerca ora di bloccare e di invertire, “sdoganando” frettolosamente Putin, non più “criminale” e addirittura neppure “invasore” della Crimea e intavolando una trattativa nella quale già ammette che l’integrità dell’Ucraina non è più un tabù, che di adesione alla Nato non se ne parla più, e non escludendo neppure che in futuro l’Ucraina torni a far parte della Russia. Una trattativa diretta con Putin, che taglia fuori non tanto la Cina (che dal braccio di ferro in Ucraina si era tenuta prudentemente fuori, pronta semmai a profittarne per ottenere l’annessione di Formosa), ma soprattutto taglia fuori l’Europa e la stessa Ucraina. Trump, in sostanza, ha preso atto della situazione mutata. L’avversario strategico degli Stati Uniti, il pericolo immediato, ora è la Cina. Aver messo la Russia alle corde, averla costretta a stringere un patto leonino con la Cina, è stato un errore colossale. Quell’energia a basso costo che dalla Russia fluiva verso l’Europa, ora va alla Cina, rafforzandone la potenza.
E l’Europa? L’Europa, già traballante, è stata messa K.O. ed ora è in stato confusionale. Come non bastasse la grave crisi economica provocata in Germania dalla fine delle forniture di gas russo a basso costo si è trasformata in crisi politica, con l’emergere del partito cosiddetto neonazista AfD come secondo partito, e primo in tutti i Länder della ex Repubblica Democratica tedesca. Escludendo ogni rapporto con la AfD, quello che si profila è un accordo tra cristiano democratici e socialdemocratici. Ma questa volta, più che una grande coalizione, sarebbe un “governicchien”. Intanto una Unione Europea in stato confusionale, barcollando, cerca di rimettersi in piedi. Trump vuole che gli europei contribuiscano in maggior misura alle spese della Nato per la difesa. Ma difesa da chi, se lui con la Russia si sta mettendo d’accordo in una sorta di nuova Yalta che tende a ridividere l’Europa in due sfere d’influenza, e intanto punta ad accordi coi singoli Stati europei, disgregando quel che resta, se qualcosa resta, del processo di unificazione europea?
L’Europa ha ricominciato a parlare di un esercito comune. Ma ne parla con Londra, su invito dell’Inghilterra, che dell’Unione Europea non fa più parte, e che invece da sempre ha “rapporti speciali” con gli Stati Uniti, tentando il gioco della serva padrona, l’ultimo che gli è rimasto. Su queste basi il disegno appare più che sconclusionato e destinato a dividere ulteriormente i Paesi europei. E va detto anche che ogni giorno che passa iniziative e dichiarazioni estemporanee di qua e di là dell’Atlantico mutano il quadro e aumentano la confusione. Con una costante però: la disgregazione progressiva dell’Unione Europea.
L’improbabile miracolo: una eterogenesi dei fini
Ha ragione il quotidiano dei Vescovi: ci vorrebbe un miracolo, e la forma potrebbe essere quella di una “eterogenesi dei fini”, cioè di un risultato opposto a quello dei fini che si perseguono. Trump vuole che l’Europa spenda di più per le spese dell’Alleanza atlantica, minacciando, altrimenti di uscire dalla Nato. Non lo farebbe mai, naturalmente. Se lo facesse, gli Stati Uniti perderebbero il loro “osservatorio” sulla periferia occidentale del continente eurasiatico, ed allora o la Russia dilagherebbe, o nella migliore delle ipotesi per l’Europa, e nella peggiore per gli Stati Uniti, si riallaccerebbero inevitabilmente quelle linee di collaborazione tra Russia ed Europa che, grazie alla guerra di Crimea, gli Stati Uniti hanno fatto saltare.
Ma questa pretesa che le Nazioni protette paghino al “protettore” un prezzo maggiore potrebbe anche, miracolosamente, sortire un effetto opposto. Cominciando a parlare più concretamente di esercito comune, hanno cominciato ad evidenziarsi in Europa alcune premesse che fino a ieri sembravano improponibili. La prima è che le maggiori spese militari non possono essere calcolate nei limiti di disavanzo di bilancio imposti dal Trattato di Maastricht. Se dovessero infatti esser prelevate da altri capitoli di spesa, sarebbe macelleria sociale e deflazione. La seconda è che, come osservava il quotidiano cattolico, i parametri di Maastricht non possono continuare ad essere la Bibbia dell’Unione europea. Debbono essere rivisti, e val la pena ricordare che questo era quello che già proponeva Craxi una trentina di anni fa. La seconda constatazione è che attualmente le spese militari dei Paesi europei per l’80% sono costituite da acquisti negli Stati Uniti. Un esercito “europeo” non può dipendere da industrie belliche di un altro Paese, ancorché alleato. Dunque: l’Europa può e deve rafforzare le proprie industrie belliche, gli eserciti nazionali debbono coordinare gli acquisti, le industrie belliche europee debbono coordinarsi a loro volta, ed ogni Paese puntare a specializzarsi nei settori in cui già eccelle.
Ed ecco allora che una industria bellica europea rafforzata e specializzata diverrebbe anche un poderoso fattore di sviluppo economico. Non è vero infatti che le industrie belliche siano, per loro natura, improduttive. Assorbono anzitutto occupazione, drenando disoccupazione. L’occupazione ben retribuita aumenta la domanda interna, la quale sollecita maggiore produzione per tutti i beni di consumo, creando per tale via ulteriore occupazione, o comunque impedendo l’emergere di ulteriore disoccupazione, che invece vi sarebbe in caso di “austerità” finanziaria e di vincoli di bilancio. Infine, e non è l’ultimo dei benefici, le ricerche e gli sviluppi tecnologici dell’industria bellica hanno sempre un “fallout”, cioè una ricaduta sulle industrie civili, promuovendone la modernizzazione e lo sviluppo.
A quel punto il “miracolo” sarebbe già realizzato: obbedendo ai perentori inviti americani avremmo una Europa capace di difendersi da sola, capace di coordinarsi nelle sue articolazioni nazionali e di esprimere una volontà politica autonoma e congiunta. E riallacciare da posizioni di forza i legami naturali con la Russia, sarebbe nella logica delle cose, cioè delle naturali spinte economiche. E tutto ciò grazie anche a Trump, ma soprattutto grazie a qualche nuovo leader che abbia cuore e intelletto di vero patriota europeo.
Giorgio Vitangeli