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Uccidere il meno possibile

di Giuseppe Gorlani - 12/05/2023

Uccidere il meno possibile

Fonte: Giuseppe Gorlani

Un ragno dalle zampe sottili e lunghe, un opilionide, sta fermo da ore in un angolo del bagno, appeso alla propria ragnatela. A metà mattina cambia posizione di poco. Immobile, senza cibo: dev’essere un provetto meditante. Ha un corpo esile, perfetto, che ha raggiunto il suo massimo sviluppo. Si nutre di mosche e altri piccoli insetti, suggendone la vita. Niente di mostruoso: è la legge. La vita si nutre di vita e per far ciò uccide. Mors tua vita mea.

Tra gli umani che hanno scelto, per varie ragioni, di non nutrirsi di animali né dei loro prodotti – latte, uova, miele – molti inorridiscono di fronte a una simile norma e si ritraggono dalla realtà, proclamando di non uccidere, mai. E invece lo fanno quotidianamente, ripetute volte, camminando, prendendo il treno o l’automobile, zappando nell’orto, pulendo la propria abitazione o in altro modo.

Quel che la saggezza chiede all’uomo è sottilmente diverso dal non uccidere tout court; l’imperativo da realizzare, infatti, è uccidere il meno possibile, arrecando sofferenza solo per lo stretto necessario. Inoltre, è imprescindibile trasformare l’uccisione in “sacrificio”, affinché il medha, l’essenza sacrificale, possa circolare. Di sicuro c’è una bella differenza tra il sopprimere un coniglio e il frantumare una manciata di chicchi di riso, benché in entrambi i casi si uccida. E altresì vi è un’enorme differenza tra l’uccidere per difendere la propria famiglia o la propria patria e l’uccidere gratuito, mossi da ambizioni suscitate da prepotenza o avidità e finalizzate al sopruso. Alcuni sciocchi obiettano: “Ma come si può affermare che il riso soffra meno del coniglio?”. Si può, per il semplice fatto che la coscienza è onnipervasiva. Ne deriva la facoltà di sentire tutto. Purché si sappia uscire dalla prigione di un’individualità chiusa in se stessa.

In ogni caso, sia che ci si nutra di animali come di vegetali, non ci si sottrae alla responsabilità dell’uccidere. Il sacrificio, pertanto, ha la funzione di restituire la responsabilità di un tale atto cruento agli Dei che hanno dato il via alla molteplicità con lo squartamento in trentasei parti del Purusha, l’uomo cosmico. Si mangerà così in santa pace il proprio cibo trasformato in oblazione, ma si eviterà per quanto possibile di togliere la vita agli animali, cibandosi di cadaveri. Significativamente la dieta vegetariana, insieme ad altri precetti morali, veniva richiesta a chi chiedeva di essere iniziato ai Misteri d’Occidente e d’Oriente. Purificarsi, adesso e nei tempi passati, equivale a rendere la propria vita giusta ed armonica, cosicché la mente si plachi, dando spazio all’intuizione e al silenzio.

La domanda di cui sopra è simile a quella di chi chiede: “Ma in che modo si può sapere che cosa significa morire? Da vivi è impossibile averne contezza”. Non è vero, lo si sa. Se non avesse conosciuto la morte, come avrebbe potuto Eraclito dire: «Attendono gli uomini quando muoiono cose che non sperano ne credono»?[i]

La vita e la morte sono aspetti coesistenti dell’Essere che ciascuno è. «La morte è il vero lavoro della vita».[ii] Ma si potrebbe pure affermare: la vita è il vero lavoro della morte. La saggezza gnostica non si discosta da tale verità: «La morte e il concepimento si trovano intimamente uniti e formano un tutto unico. Il sentiero della vita è formato dalle impronte degli zoccoli del cavallo della morte».[iii] Moriamo, nasciamo e perduriamo ad ogni istante. Si è certi di essere, non di sottostare alla morte, intesa quale conclusione definitiva. Conclusione di chi? Nascere e morire sono concetti, sogni, incubi, emozioni, momenti nel “gioco” cosmico; essere è coscienza di Sé. Davide Susanetti nota: «L’iniziazione è dunque un’esperienza di morte o, meglio, è l’emozione stessa del morire e di ciò che accade dopo quell’istante».[iv] 

Viviamo smarriti in una intricata boscaglia di luoghi comuni. Quando il profano si imbatte in scritture sapienziali resta sorpreso dal fatto di non capire pressoché nulla. Per alcune correnti ermetiche la dodicesima carta dei Tarocchi, l’Appeso, rimanda all’esigenza di capovolgere la prospettiva convenzionale e di vedere con un occhio diverso. La Conoscenza può rivelarsi assai pericolosa per il normale svolgimento della vita umana, compromettendone l’equilibrio precario. Da ciò deriva la frequente incapacità di distinguere tra insania e Risveglio.

Persino presso i cristiani – che hanno un rapporto controverso nei confronti della natura – alcuni ordini monastici prescrivono il vegetarianismo. L’uccidere superfluo, dettato da passioni egoistiche, l’oscillare da un estremo all’altro sono attività nemiche della contemplazione.

Elifas Levi, cattolico, che auspicava una riconciliazione tra la propria religione e l’alta magia, scriveva: «La purificazione del mago deve consistere nell’astinenza dalle voluttà brutali, in un regime vegetariano e dolce, nella privazione di ogni liquore forte, nel regolare le ore di sonno».[v]

Se è vero, come l’intelligenza profonda suggerisce, che l’Uno è Tutto e il Tutto è Uno, allora non ci si potrà sottrarre alla consapevolezza di uccidere se stessi, quando si uccide. Soltanto la necessità, il rispetto e il sacrum facere ci metteranno al riparo dai contraccolpi karmici. Sinesio di Cirene, in consonanza con la sapienza fissata negli Oracula Chaldaica o nel Corpus Hermeticum, ma dalle radici immemorabili, scrive: «Tutto, insomma, può essere segno di tutto […] Dovrebbero – io credo – armonizzarsi l’una con l’altra le parti di codesto tutto permeato dallo stesso sentimento e respiro, in quanto membra d’uno stesso e compiuto organismo. […] Saggio è solo colui che conosce la parentela che stringe le parti del cosmo».[vi]

Nel Mahabharata impressiona la deferenza che i guerrieri dei due schieramenti, Pandava e Kaurava, tributano ai propri nemici. Combattono ferocemente, senza violare le norme che disciplinano le tenzoni, pronti ad uccidere o a morire, ma poi accorrono solleciti al fianco dello sconfitto per riceverne eventuali richieste o le ultime parole. Emblematico è il caso di Bhishma, comandante dell’esercito dei Kaurava, che, trafitto da numerose frecce, attende cinquantotto giorni la situazione astronomica favorevole per abbandonare il corpo, circondato dalla venerazione generale. Nel frattempo, trasmette la propria saggezza a tutti quelli che gliela richiedono.

Yudhishtira, campione del Dharma, che ha dovuto sottostare brevemente alla descensio ad inferos per l’unica bugia detta, riconosce che il cibo carneo è adatto agli kshatrya, ma per quanto lo riguarda, essendo egli orientato verso la Liberazione, preferisce il cibo vegetariano.

Fondamentale è ricordare che il vegetarianismo non è una “religione”, né un’ideologia da interpretare fanaticamente, bensì una prassi commensurata a determinati fini o a una particolare sensibilità. Il cibo che non infligge pena superflua si armonizza con l’ahimsa, il divieto di nuocere, appartenente a yama: il primo passo sulla via dello Yoga. «Ahimsa non significa astenersi dalla violenza. Ma esercitare la violenza – che comunque c’è e coinvolge chiunque – in un certo modo senza ferire».[vii] Georges Ohsawa, padre della Macrobiotica (la dieta dei monaci Zen) sottolinea come arrechi danno a sé e agli altri anche il mangiare due mele al giorno dove tutti ne possono mangiare una sola. A ben considerare, qualsiasi aspetto del nostro agire deve essere proteso alla pace interna ed esterna.

 

(Lo scritto è tratto dal volume “Maritare il mondo” in corso di pubblicazione presso La Finestra Editrice, Lavis, TN.)



[i] Fr. 27, trad. di Franco Trabattoni, Mi 1989.

[ii] Elifas Levi, Il rituale dell’Alta Magia, Roma, p.8.

[iii] Samael Aun Weor, Corpi solari, Fi 1991, p. 54.

[iv] La Via degli Dei, Roma 2018, p. 21.

[v] Op. cit., p. 23.

[vi] Sinesio, Opere, a c. di A. Garzya, I sogni, To 1999, p. 557.

[vii] Roberto Calasso, Ka, Mi 1996, p. 180.