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Ucraina, il mondo al bivio

di Giacomo Gabellini - 05/05/2022

Ucraina, il mondo al bivio

Fonte: Italicum

Intervista a Giacomo Gabellini autore del libro “Ucraina, il mondo al bivio”, Arianna Editrice 2022

1)      I confini dell’Ucraina sono indefinibili e pertanto la sua identità unitaria si rivela labile. L’attuale Ucraina corrisponde alla repubblica socialista sovietica istituita da Stalin alla fine della seconda Guerra mondiale. Entro i confini ucraini convivono popolazioni etnicamente, culturalmente, linguisticamente e, anche dal punto di vista religioso, assai diverse, quali gli ucraini, i russi, i polacchi, gli ungheresi, i tartari ecc … Pertanto, con la definitiva rescissione dei legami politici, culturali ed economici con la Russia e la secessione delle regioni orientali e della Crimea (territori filorussi), l’identità ucraina non sembra configurarsi come quella di uno stato creato artificialmente, sulla base cioè delle sfere di influenza russe o americane? I valori unificanti non sono rappresentati solo dalla appartenenza alla Nato e alla Unione Europea, vale a dire dalla occidentalizzazione americanista e russofoba del paese? Non stiamo assistendo alla ennesima riproduzione della logica di Versailles, rivelatasi sempre fallimentare e foriera di potenziali ulteriori conflitti?

 Difficile prevedere con elevato margine di certezza la configurazione che assumerà lo Stato ucraino. Tutto lascia comunque intendere che il vero e proprio collante di quel che rimarrà dell’Ucraina sarà costituito da un nazionalismo dai tratti marcatamente russofobi e bramoso di rivalsa nei confronti del Cremlino. Molti tendono ad imputare questo risultato unicamente all’attacco scatenato dalla Russia, ma in realtà la radicalizzazione del Paese rappresentava un fenomeno già ampiamente riscontrabile ancor prima dello scoppio di Jevromajdan. Non va infatti dimenticato che, nel 2010, l’allora presidente Viktor Juščenko, salito al potere al culmine della Rivoluzione Arancione, conferì l’onorificenza di “eroe dell’Ucraina” a Stepan Bandera, leader dell’ala massimalista dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (Oun), composta in larghissima parte da novorussi-cattolici della Galizia reduci delle campagne irredentiste condotte contro la Polonia nei decenni precedenti alla “grande guerra”. Il 21 giugno 1941, all’arrivo delle truppe naziste, Bandera proclamò l'indipendenza ucraina e partecipò con l’Oun e il suo braccio armato (Upa, l’esercito insurrezionale ucraino) alla fondazione del battaglione Nachtigall, composto da volontari ucraini e sottoposto alla catena di comando dell’Abwehr (il servizio segreto militare tedesco). Operando fianco a fianco con gli invasori e con le divisioni ucraine delle Ss come la Galizia, l’Oun contribuì attivamente allo sterminio di decine di migliaia di ebrei ucraini e alla campagna militare tedesca contro l’Unione Sovietica. Il sodalizio con gli invasori si protrasse per diversi mesi, finché il mancato riconoscimento tedesco dell’indipendenza ucraina, promesso all’Oun alla vigilia dell’Operazione Barbarossa, non spinse Bandera e i suoi seguaci a rivolgere le armi contro i tedeschi. Il leader dell’Oun fu quindi catturato dalla Wehrmacht e successi­vamente liberato in base a un accordo con l’Abwehr che prevedeva la formazione di una di­visione ucraina delle Schultz-Staffeln incaricata di coadiuvare le truppe tedesche nella deportazione degli ebrei e nella repressione delle mino­ranze polacche. A loro volta, i polacchi si vendicarono alleandosi all’Ar­mata Rossa e mettendo a ferro e fuoco interi villaggi ucraini; ne scaturì una sanguinosa guerra civile allargata che avrebbe causato la morte di oltre 90.000 civili polacchi e 20.000 ucraini. La guerriglia anti-sovietica condotta dall’Oun sotto la direzione del leader militare dell’Upa Roman Šučevič si protrasse anche negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma nel momento in cui cominciò a profilarsi la concreta prospettiva della disfatta molti dei suoi esponenti di maggiore rilievo ripararono all’estero. Bandera, il suo fidato collaboratore Yaroslav Stetsko e l’ex membro del governo collaborazionista ucraino Lev Rebet si stabilirono presso Monaco di Baviera. Bandera e Rebet sarebbero stati raggiunti e assassinati da un sicario del Kgb tra il 1957 e il 1959, mentre Stetsko riuscì a sopravvivere e ad entrare nelle grazie di alcuni personaggi di primo piano della politica Usa come Ronald Reagan e George H.W. Bush. Altri militanti dell’Oun e dell’Upa usufruirono dell’intercessione del direttore della Cia Allen Dulles per trasferirsi in Canada e negli Stati Uniti, dove avrebbero istituito movimenti di esuli dalla spiccata vocazione ultra-nazionalista. In seguito a Jevromajdan, si è assistito per un verso a un processo di “nazionalizzazione delle masse” attuato mediante la proliferazione di statue e monumenti intitolati a personaggi come Bandera, Šučevič e Stetsko. Per l’altro, all’inquadramento nei ranghi dei corpi speciali e della polizia di esponenti di spicco dei movimenti estremisti quali l’Azov, l’Aidar, il Dnepr, Pravij Sektor, Natzionalnyj Korpus e C-14, grazie all’intercessione del potentissimo ministro degli Interni Arsen Avakov. È grazie all’impegno di Avakov e alle risorse messe a disposizione da oligarchi del calibro di Ihor Kolomojs’kyj – proprietario del canale televisivo che ha lanciato la serie Servo del popolo, che ha garantito a Zelens’kyj grande popolarità, e principale finanziatore della campagna elettorale dell’ex attore – che l’Ucraina è potuta assurgere a centro di gravità di primissimo piano per il mondo dell’estrema destra, in grado di attrarre nuovi militanti da ben tre diversi continenti attraverso un uso particolarmente efficace dei principali social network. C’è da chiedersi quali risultati l’Unione Europea speri di ottenere accogliendo tra i propri ranghi un Paese tenuto costantemente sotto scacco da elementi di questo genere.

 2)      La guerra russo – ucraina assume significati geopolitici che travalicano le motivazioni specifiche del conflitto. La crisi ucraina è infatti un conflitto mediato tra Usa e Russia, la cui posta in gioco è la sussistenza stessa di due grandi potenze. La Russia è un impero che, dalla ascesa di Putin al potere in poi, è animato dalla esigenza di sopravvivere al collasso dell’Urss e la perdita dell’Ucraina implicherebbe la dissoluzione della Russia stessa, dati i legami storico – culturali e l’interconnessione economica esistenti da secoli tra i due paesi. L’Ucraina sarebbe dunque parte integrante e terra ancestrale della Russia. Per gli Usa, verrebbe meno il loro ruolo di potenza mondiale qualora si affermasse un nuovo egemone eurasiatico (Europa o Russia). La fine della leadership americana in Europa comporterebbe anche il venir meno della strategia di contenimento della Cina nell’area dell’indo – pacifico. Non va quindi delineandosi la prospettiva di una conflittualità che potrebbe espandersi in tanti focolai di guerra estesi a tutta l’Eurasia, che darebbe luogo ad una terza guerra mondiale, seppure a bassa intensità, tra Russia ed Usa dalla durata indefinita?

 Come ha sottolineato l’influente politologo russo Sergeij Karaganov, l’importanza rivestita dall’Ucraina per la Russia dovrebbe essere fortemente ridimensionata. Non tanto in virtù del fatto che gli indiscutibili legami storici e culturali che uniscono i due Paesi potrebbero anche reggere al formidabile banco di prova costituito dall’aggressione russa, quanto perché la Russia si configura come una nazione inaggirabile sotto ogni punto di vista. L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo. Le principali categorie merceologiche di cui si compone l’export russo (petrolio, gas, materie prime, prodotti agricoli) delineano l’immagine di un’economia relativamente poco avanzata, se si prescinde da alcune voci discordanti (macchinari ed equipaggiamenti rappresentano la quarta fonte di entrate da export) e da alcune punte di eccellenza in campo aerospaziale, informatico e militare. Le attuali economie avanzate, strutturatesi nella forma odierna sulla base degli indirizzi strategici seguiti a partire dagli anni ’80, poggiano soprattutto su attività ad alto valore aggiunto riconducibili al settore terziario, che apportano un contributo alla formazione del Pil di gran lunga superiore a quello fornito dai macrosettori ricompresi nei settori primario e secondario. Nelle economie moderne, servizi finanziari e assicurativi, consulenze, informatica, nuovi sistemi di comunicazione e design risultano predominanti rispetto ad agricoltura, manifattura, estrazione di energia e minerali. Del resto, il Pil russo rimane di molto inferiore a quello giapponese, tedesco, francese ed anche italiano, ma si incardina su produzioni assolutamente indispensabili, perché inaggirabili per la soddisfazione dei bisogni primari. Idrocarburi, metalli, cereali, fertilizzanti, mangimi sono risorse imprescindibili per garantire riscaldamento e sicurezza sia alimentare che energetica. Condizioni assicurate in periodi di bonaccia, ma che divengono improvvisamente vacillanti in presenza di congiunture geopolitiche altamente conflittuali, in cui si riscopre il primato di petrolio, gas, alluminio, nichel, grano, fertilizzanti, ecc. rispetto a tutto il resto. La Russia riveste in altre parole un ruolo (geo)economico enormemente più incisivo e “ingombrante” rispetto a quanto non si evinca dall’analisi asettica dei dati relativi alla dimensione e alla composizione del suo Pil, tale da assicurarle una capacità di resilienza pressoché inconcepibile per ogni altro Paese. Nonché un ventaglio di opzioni alternative a quella consistente nel cercare ostinatamente di ritagliarsi un ruolo di coprotagonista in seno al “concerto occidentale”. Per l’Ucraina, invece, vale il discorso opposto. Pensare che la sopravvivenza di un Paese dotato di simili caratteristiche possa prescindere dalla restaurazione di un rapporto collaborativo con un colosso del calibro della Russia, con cui condivide 2.000 km di frontiera, è pia illusione.

 3)      Il duro regime sanzionatorio imposto dall’Occidente alla Russia mira a provocare, oltre che il default della Russia stessa, anche un cambiamento di regime che comporti la defenestrazione di Putin. La fine del regime di Putin infatti darebbe luogo, secondo i piani di Washington, ad una nuova espansione economica e politica dell’Occidente nell’Eurasia. Tali orizzonti sono credibili? Attualmente le sanzioni hanno provocato un riorientamento della Russia verso l’Asia, con nuovi accordi commerciali con Cina ed India, oltre al rafforzamento dei rapporti con i paesi arabi e del Medioriente, per i quali, l’import di cereali e fertilizzanti dalla Russia è di importanza vitale. Si profila dunque la creazione di nuove aree di scambio con divise estranee all’area dollaro (specie lo yuan cinese), al fine di aggirare le sanzioni. Assisteremo a breve termine ad una rilevante contrazione dell’area dollaro su scala mondiale? Mediante le sanzioni l’Occidente vuole imporre l’isolamento della Russia nel contesto globale. Ma non sarà invece l’area atlantica dominata dal dollaro a finire in una condizione di isolamento e marginalizzazione sia economica che geopolitica?

 Le sanzioni non sono riuscite a provocare cambi di regime in Paesi di gran lunga meno attrezzati per attutire l’urto come l’Iran e la piccola Cuba, figuriamoci per la Russia. Dove, come era ampiamente prevedibile per chiunque abbia un minimo di conoscenza dello spirito di quel popolo, un sondaggio realizzato da un organismo tutt’altro che vicino al Cremlino come il Levada Center (qualificato come agente straniero da Mosca) ha certificato che l’indice di gradimento di Putin da parte della popolazione russa si attesta al di sopra dell’80%. L’attacco contro l’Ucraina ha impresso una brusca accelerata al processo di riorientamento geopolitico ed economico della Russia verso est e verso sud imperniato proprio sull’inaggirabilità strutturale della Federazione nel commercio internazionale. Corollari di questo cambio di registro sono l’esclusione del dollaro negli scambi bilaterali, la messa a punto di sistemi di pagamento alternativi a Swift, la creazione di infrastrutture di comunicazione alternative a quelle egemonizzate dagli Usa. In poche parole, la Russia sta sferrando un attacco simultaneo contro i pilastri dell’assetto internazionale su cui gli Usa hanno fondato il proprio predominio. In prospettiva, il conflitto e la campagna sanzionatoria che ne è seguita potrebbero determinare una segmentazione dello scenario internazionale “globalizzato” in blocchi geoeconomici molto meno comunicanti rispetto a quanto visto sinora. Il primo si presenta come una sorta di G-7 allargato che assomma circa un miliardo di persone, fortemente disomogeneo dal punto di vista degli equilibri commerciali e caratterizzato da una posizione finanziaria netta aggregata profondamente negativa. Sul piano politico-culturale, questo blocco – e segnatamente il suo Paese più potente, gli Stati Uniti – contesta con sempre maggior vigore il principio dell’eguaglianza formale degli Stati stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite per perorare l’introduzione di elementi discriminatori favorevoli alle democrazie, che magari deprivino Russia e Cina del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il secondo ruota attorno al “triangolo strategico” – per usare un’espressione di Evgenij Primakov – Russia-Cina-India, riunisce oltre 3,4 miliardi di persone, associa in larga maggioranza Paesi con saldi commerciali attivi e registra una posizione finanziaria netta aggregata ampiamente positiva. Il blocco di nazioni gravitante attorno al “triangolo strategico” Russia-Cina-India ricomprende strutture economiche in larga parte complementari, che dispongono di energia, materie prime, terreni coltivabili, industria, capacità di consumo e conoscenze tecnologiche in forte ascesa. I Paesi che ne fanno parte manifestano in genere una spiccatissima insofferenza nei confronti della pretesa dei Paesi occidentali a ergersi a portavoce dell’intera comunità internazionale, dalla quale rimangono evidentemente escluse tutte le nazioni sprovviste dei requisiti politici economici e culturali stabiliti in maniera completamente arbitraria e discrezionale dallo schieramento euro-atlantico. L’Unione Europea dipende dalle importazioni di energia dalla Federazione Russa e sopravvive inanellando avanzi commerciali sempre più colossali realizzati soprattutto verso Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese che si riflettono nella sistematica compressione della domanda interna attuata attraverso catastrofiche politiche di consolidamento fiscale. Gli Stati Uniti, con un debito commerciale stratosferico (859 miliardi di dollari nel 2021) e una posizione finanziaria netta tremendamente negativa (oltre 13.000 miliardi di dollari nel 2021), non dispongono più di un tessuto industriale degno di nota, producono soltanto servizi e importano ogni genere di prodotto attraverso la stampa a ciclo continuo di dollari. Per gli Usa, l’accelerazione del processo di deterioramento della posizione dominante di cui il dollaro è titolare dal 1945 dovuta all’abuso delle sanzioni e ai giganteschi squilibri strutturali che gravano sull’economia nazionale rappresenta una minaccia epocale. Il riequilibrio di una situazione tanto critica non può prescindere dal “confinamento” di Nordamerica ed Europa entro il perimetro di un’area energetico-tecnologico-commerciale di respiro transatlantico che garantisca anzitutto la recisione dei legami di dipendenza tra il “vecchio continente” e i due nemici giurati degli Usa, vale a dire Russia e Cina. Qualora il progetto di Washington dovesse andare in porto, per l’Europa si prospetterebbe un futuro da colonia imbarbarita, precarizzata e depauperata degli Stati Uniti.

 4)      La dissoluzione dell’URSS ha determinato l’espansione ad est della Nato. La stessa crisi ucraina è del tutto coerente con la strategia americana di penetrazione nell’Eurasia, che comporterebbe lo spostamento indefinito ad est dei confini della nuova cortina di ferro. Lo smembramento della ex URSS ha determinato un decremento della componente europea all’interno della Russia, sia in fatto di territori che di popolazione. La minaccia espansionistica della Nato ha condotto ad un riorientamento economico e geopolitico della Russia verso l’Asia. Lo sviluppo del crescente interscambio economico e l’esigenza di una difesa comune nei confronti dell’espansionismo americano, hanno dato luogo al sorgere di un nuovo asse geopolitico costituito da Cina e Russia. In tale contesto, per la Russia le entrate scaturite dalle forniture di gas all’Europa non sono più così determinanti. La politica americana improntata alla russofobia, già ereditata storicamente dalla Gran Bretagna, non è dunque responsabile di questa riconversione in chiave asiatica della politica estera russa? La memoria storica dovrebbe ammonire l’Occidente. Qualora negli anni della Guerra fredda l’URSS e la Cina di Mao fossero state alleate, quale sarebbe stato il destino dell’Occidente? Non solo. La rescissione dei legami storico – politici tra Russia ed Europa, non comporrebbe il venir meno del secolare ruolo geopolitico svolto dalla Russia, quale ponte tra Europa ed Asia e, nello stesso tempo, quale avamposto di difesa dell’Europa dalle penetrazioni asiatiche all’interno dell’Europa stessa?

La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata correttamente definita da Putin come la principale catastrofe geopolitica del XX Secolo, perché ha ridotto circa 25 milioni di russi etnici residenti in Ucraina, nei Paesi baltici e in Asia centrale al rango di stranieri in casa propria, se non di veri e propri apolidi. D’altro canto, il fallimento sostanziale dei colloqui di Pratica di Mare del 2001 e il processo di espansione della Nato verso est hanno privato la cosiddetta “cortina di ferro” di una precisa collocazione geografica. Se nel corso della Guerra Fredda correva “da Stettino a Trieste”, per usare un’espressione formulata da Churchill nel 1946, attualmente si sviluppa nello spazio intercorrente tra Mur­mansk e Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza dell’Alleanza Atlantica a ridosso dei confini russi sottrae al Cremlino lo spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costrin­gendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui la fermezza con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione. Il principale effetto generato dalla fervente russofobia atlantista è stato quello di ricalibrare lo spirito di iniziativa del Cremlino verso oriente, e segnatamente nei confronti del Repubblica Popolare Cinese. Tra Mosca e Pechino vige attualmente un rapporto di collaborazione che va costantemente intensificandosi, focalizzato soprattutto nei settori sensibili dell’energia, della difesa e dell’alta tecnologia. Nell’ottica statunitense, il rapporto di felice convivenza instaurato dalla “strana coppia” in oggetto non è destinato a durare per ragioni storiche, culturali e geopolitiche già emerse nel corso della Guerra Fredda. A differenza da allora, quando la “diplomazia triangolare” di Nixon e Kissinger esacerbò le tensioni sino-sovietiche ponendo così le basi per l’arruolamento fattivo della Repubblica Popolare Cinese nel fronte occidentale e, a ricasco, per l’isolamento di Mosca, Russia e Cina perseguono attualmente obiettivi sotto molti aspetti coincidenti o quantomeno compatibili, e risultano entrambe arroccate a difesa di quel diritto internazionale che gli Usa non esitano a calpestare con ostinata sistematicità. Si tratta, in altre parole, di nazioni che hanno individuato – chi per volontà deliberata (Cina), chi come “scelta obbligata” (Russia) – la traiettoria strategica da seguire per procedere allo smantellamento dell’ordine mondiale definito dalle logiche atlantiste, a cui l’Europa nel suo complesso rimane ancora tragicamente ancorata. Fintantoché il “vecchio continente” non si porrà nell’ordine di idee di svincolarsi dall’ottuagenaria “tutela” statunitense per instaurare un concreto rapporto di collaborazione di respiro eurasiatico che restituisca alla Russia il fondamentale ruolo di ponte tra est ed ovest, vi saranno ben poche possibilità di arrestare il declino politico, economico e culturale che investe l’Europa.

 5)      È una opinione tuttora generalizzata, che questa guerra rappresenti una trappola tesa dall’Occidente, al fine di logorare la Russia e determinare la caduta di Putin. Secondo quest’ultimo invece l’invasione dell’Ucraina sarebbe “una questione di vita o di morte per la Russia”. È evidente che questa guerra trascende la questione ucraina. Il progressivo deterioramento dei rapporti tra la Russia e l’Occidente, avrebbe indotto Putin ad una svolta geopolitica epocale della Russia, che comporterebbe una revisione integrale della strategia russa verso l’Asia e la fine della politica della integrazione modernizzatrice della Russia nell’Occidente. Questa definitiva rottura tra la Russia e l’Occidente non genererà nel prossimo futuro una radicale trasformazione degli equilibri mondiali, con la configurazione di un mondo multipolare, con il tramonto dell’unilateralismo americano e la fine della globalizzazione imposta dal modello economico neoliberale made in Usa, che verrà sostituito da tante globalizzazioni di dimensioni continentali?

 A mio parere, gli Stati Uniti hanno profuso notevoli risorse quantomeno dal 2004 per trasformare l’Ucraina in un coltello puntato contro il fianco della Federazione Russa. Prova ne sono l’appoggio scoperto alla Rivoluzione Arancione, l’intensificazione dei rapporti tra alcuni potentissimi oligarchi (Viktor Pinčuk in primis) con il clan Clinton, la graduale penetrazione della Nato negli apparati di sicurezza di Kiev, il sostegno palese alle forze radicali che hanno guidato Jevromajdan, il sabotaggio dei deboli e contraddittori tentativi di mediazione di Germania e Francia (emblemizzato dal noto «Fuck the European Union!», pronunciato nel 2014 dalla funzionaria del Dipartimento di Stato Victoria Nuland all’ambasciatore Usa a Kiev Geoffrey Pyatt), l’artificioso mantenimento in vita dello Stato ucraino tramite i crediti a fondo perduto erogati dal Fmi (in violazione del suo statuto), la fornitura di armi e addestramento alle forze militari e paramilitari ucraine. L’obiettivo strategico perseguito da Washington consisteva nell’aprire una frattura insanabile tra Europa e Federazione Russa, perché nella logica degli “apparati” statunitensi che manovrano da sempre la politica da dietro le quinte il pericolo mortale, addirittura superiore rispetto a quello incarnato dall’avanzata a tutto campo da parte della Repubblica Popolare Cinese, rimane la sinergia tra le risorse naturali e la potenza militare russa da un lato, e le tecnologie e la potenza industriale europea – e segnatamente tedesca – dall’altro. Ma c’è di più. La “nuova cortina di ferro” che sorge dalle sponde del Mar Baltico a quelle del Mar Nero potrebbe verosimilmente fungere da argine rispetto alla Belt and Road Initiative cinese, che minaccia di trasformare l’ex Celeste Impero nel fulcro di un nuovo ordine internazionale fondato sul superamento della fase unipolare guidata dagli Stati Uniti.

 6)      Allo stato attuale l’Ucraina è già riconosciuta come parte integrante dell’Europa. Tuttavia i protagonisti esclusivi del conflitto russo-ucraino sono gli USA e la Russia con la totale emarginazione dell’Europa. In una eventuale adesione dell’Ucraina alla UE, si riproporrebbe la politica di dominio economico della Germania. Quella cioè di inglobare l’Ucraina nell’Europa dell’est, quale paese subalterno all’area economica tedesca. L’Ucraina diverrebbe un rilevante fornitore di materie prime e mano d’opera a basso costo, oltre che un territorio appetibile per le delocalizzazioni industriali. Ma, mi chiedo, il modello di espansionismo economico tedesco già sperimentato nell’est europeo, è oggi replicabile, dato lo stato di conflittualità interno ed esterno dell’Ucraina destinato a prorogarsi anche nel dopoguerra e in considerazione del profondo mutamento della strategia geopolitica globale americana? La Germania non è potuta assurgere a potenza economica mondiale nel contesto di un allineamento politico e militare all’Alleanza atlantica, di una Nato cioè che oggi invece si contrappone agli interessi della Germania?

Nei primi mesi del 2014, quando le tensioni interne all’Ucraina raggiungevano il culmine, la Germania assunse un atteggiamento a dir poco ambiguo, ma palesemente dettato dalla volontà di trarre il massimo vantaggio da quella situazione estremamente critica. Più specificamente, Berlino ambiva non solo a reclutare l’Ucraina nel novero dei fornitori diretti di materie prime per l’industria tedesca, ma a inglobarla tout court nel blocco manifatturiero a maglie strettissime costituito meticolosamente dalla Germania a partire dalla riunificazione. L’obiettivo, in altre parole, era quello di integrare l’Ucraina nella periferia fordista facente capo all’hub industriale tedesco, di cui facevano già parte Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria e Romania. Riproponendo il falso pretesto della penuria di operai altamente specializzati sul fronte interno, le imprese manifatturiere tedesche intendevano ottenere il via libera per l’allargamento all’Ucraina del fenomeno, già sistematicamente applicato al resto dell’Europa cento-orientale, delle reverse maquiladoras, coniato in riferimento agli stabilimenti messicani in cui si assemblano prodotti statunitensi dall’elevato valore aggiunto. In tale contesto, l’industria tedesca ha mantenuto il cervello operativo in patria, trapiantando oltreconfine alcune sue produzioni di punta così da ricompattare quella Mitteleuropa che le risulta maggiormente “appetibile”, per ragioni culturali e di prossimità geografica, agli stabilimenti italiani, spagnoli e nordafricani su cui aveva puntato durante la Guerra Fredda. L’ambizioso progetto espansionistico perseguito da Berlino culminò in un sostanziale fallimento, per effetto dell’ostilità non tanto russa ma soprattutto statunitense. Nel 1990, Berlino aveva ottenuto da Washington il placet per ricostruire il proprio “cortile di casa” in Europa centro-orientale – e quindi per perseguire i propri interessi economici – in cambio della saldatura del Paese riunificato allo schieramento occidentale, in conformità al noto accordo verbale raggiunto all’epoca dal presidente Mikhail Gorbačëv e dal segretario di Stato James Baker in base al quale l’Alleanza Atlantica avrebbe inglobato la Germania al suo interno senza tuttavia espandersi “di un pollice” ad est del fiume Elba. L’intesa, la cui esistenza è stata smentita dal segretario generale della Nato Stoltenberg ma confermata tanto dall’ex ambasciatore statunitense a Mosca Jack Matlock quanto da un documento reperito di recente dal settimanale «Der Spiegel» negli archivi nazionali britannici, è stata violata già a partire dal 1997, con l’entrata di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca nei ranghi dell’Alleanza Atlantica. Fatto sta che, in virtù delle sue pesanti implicazioni di natura commerciale e geopolitica, il modello mercantilista tedesco entrò nel mirino di Washington già ai tempi dell’amministrazione Obama, con il noto – e assai strumentale – scandalo Dieselgate e le sanzioni comminate a Deutsche Bank, ma è indubbiamente sotto Trump che è scattata la vera e propria escalation. Coniugandosi con l’adozione di una serie di misure di stampo protezionistico, la ridefinizione del Nafta secondo una logica smaccatamente intesa a colpire l’export tedesco ha inflitto un duro colpo all’economia tedesca, esposta come nessun altra alle dinamiche esterne. La postura statunitense nei confronti della Germania non ha registrato alcuna variazione di rilievo nemmeno in seguito all’insediamento dell’amministrazione Biden, come testimoniato dalla forte pressione economica e politica esercitata dagli Usa per bloccare la realizzazione del gasdotto Nord Stream-2. Una continuità sostanziale, a riprova del fatto che il mercantilismo teutonico poteva essere tollerato come “male necessario” in epoca di Guerra Fredda, non certo nell’attuale assetto geopolitico tendente verso il multipolarismo.

 7)      Questa guerra inciderà pesantemente sul destino dell’Europa. Incapace di svolgere un ruolo geopolitico autonomo, che avrebbe potuto scongiurare questa guerra tra popoli europei, in quanto tale strategia neutralista avrebbe comportato la rottura con la Nato, l’Europa è condannata a subirne le conseguenze economiche e politiche, quale area geopolitica subalterna agli Usa. Soprattutto, non si verificherà un declassamento della potenza economica tedesca, dato il venir meno della sua importanza politica e strategica nell’est europeo, dei saldi legami energetici con la Russia e delle potenziali prospettive di espansione economica nel commercio con la Cina? Inoltre, con il riarmo della Germania nel contesto atlantico, è credibile la prospettiva di una trasformazione della Germania stessa, da leader economico indiscusso in Europa a potenza geopolitica continentale in funzione del contenimento della Russia nell’est europeo e garante della salvaguardia della leadership americana in Europa?       

 Le dinamiche innescate dall’attacco russo all’Ucraina hanno portato a una netta modifica delle finalità originarie perseguite dagli Stati Uniti attraverso la manipolazione dell’Ucraina, consistenti essenzialmente nella separazione dell’Europa dalla Russia. La guerra e la campagna sanzionatoria che ne è seguita rischiano infatti di trasformare concretamente l’Europa in una colonia anche economica degli Stati Uniti, perché deprivano il “vecchio continente” delle forniture a basso costo di materie prime, energia e prodotti agricoli su cui si fonda la competitività della sua industria, e spalancano allo stesso tempo il mercato europeo ad armi, shale gas e derrate agricole statunitensi. Si prospetta un rovesciamento dei tradizionali rapporti commerciali  transatlantici, caratterizzato dall’accumulo di surplus strutturali nell’interscambio con l’Europa di cui gli Usa – Paese debitore per eccellenza sotto ogni punto di vista – intendono servirsi per prolungare la loro tendenza all’importazione massiccia di beni cinesi nonostante il declino costante del dollaro come moneta di riferimento internazionale. In tale contesto, pensare che, attraverso il riarmo, la Germania possa affrancarsi dal rapporto di vassallaggio che la lega agli Stati Uniti fin dal 1945 rappresenta una pia illusione. Specialmente nell’attuale congiuntura che vede il partito ultra-atlantista dei Verdi – che deve il proprio successo alla campagna propagandistica incarnata da Greta Thunberg, puntualmente sparita dai radar ora che si parla di importare shale gas Usa, dall’impatto ambientale letteralmente devastante – esercitare un condizionamento decisivo sulle politiche del governo guidato dal cancelliere Olaf Scholz. All’atto pratico, l’Europa non riesce nemmeno ad immaginare un futuro caratterizzato dalla ricostruzione del rapporto con gli Stati Uniti su basi non dico di parità, ma quantomeno di subordinazione meno marcata rispetto a quella che si registra ancora oggi.

 a cura di Luigi Tedeschi