Un anno con il mostro
di Marcello Veneziani - 06/02/2021
Fonte: Marcello Veneziani
Un anno è passato sotto la tirannia planetaria del virus e non accenna a cambiare la vita sul pianeta terra; non torna alla normalità, alla vita aperta a viso aperto, ai viaggi e ai lavori, agli incontri e agli abbracci. Alla libertà.
Viviamo di passato e di futuro, il presente è sospeso, ci limitiamo a sopravvivere. Ci ha tolto il respiro, il covid, viviamo in apnea. La clausura, l’inattività, la stasi non ci hanno spinto alla meditazione, alla preghiera e alla lettura. Anzi pensiamo, preghiamo, leggiamo meno di prima. Non ha migliorato l’umanità il confronto drammatico con il limite, la malattia e la paura.
Tutto ciò che era considerato fino a ieri positivo si è fatto nocivo con la pandemia: la libera circolazione, l’interdipendenza, lo sconfinamento globale, la socialità. Contaminarsi è tornato ad essere un male.
Un vecchio, nefasto motto diceva: colpirne uno per educarne cento. Il virus ha colpito uno e ne ha atterrato, e atterrito, cento. Neanche l’uno per cento dell’umanità ha patito la malattia con vere sofferenze; uno su mille è morto a causa del virus (da noi un po’ di più), concause a parte. Ma è bastato per immobilizzare il mondo e spaventare l’umanità. Un trauma globale.
Una sparuta minoranza ne ha rifiutato integralmente la psicosi, la diagnosi e i dispositivi di sicurezza: i “negazionisti” in piena pandemia somigliano ai pacifisti in piena guerra. Negano ma non fermano la tragedia, si sottraggono solo alla coscrizione obbligatoria. Per loro il male non è il nemico o il virus ma la mobilitazione armata per combatterlo.
Secondo la versione ufficiale il virus è nato per caso, da un fatto accidentale. Lasciate che io persista nel dubbio che sia invece un mostro nato in laboratorio dalla volontà di potenza, nell’incrocio tra scienza faustiana, apparato militare e dominazione politico-economica. E lasciate che aggiunga: ci sono i profittatori della pandemia, come ci sono i profittatori in tempo di guerra. Ossia chi lucra sulla pandemia, conservando o rafforzando il suo potere e fatturato.
A un anno dalla sua apparizione, tentiamo una lettura non sanitaria, non politica né giornalistica del contagio. Alessandro Baricco propone una narrazione del virus oltre la cronaca e le polemiche in un libretto, Quel che stavamo cercando, uscito da Feltrinelli. Riprende un antico tema: il mito. Vede la pandemia come una “creatura mitica”, una costruzione collettiva in cui confluiscono “diversi saperi e svariate ignoranze”. Le creature mitiche, spiega, sono prodotti artificiali, figure in cui la comunità racconta i propri timori e le proprie convinzioni. Ma artificiale non vuol dire irreale. La pandemia non è immaginaria, dice Baricco; e reali, benché oscure – aggiungiamo noi – sono le origini del virus.
Non a torto Baricco nota la deriva scientista della nostra società che ci ha resi incapaci di leggere il mito, riducendolo a magia o ignoranza superstiziosa. È col mito che gli umani spiegano il mondo, ma oggi preferiscono perdersi nel caso e nel caos; l’irrazionalità che segue ai razionalismi presuntuosi ma incapaci di spiegare la realtà e il mistero. “Il destino degli umani è tessuto con il filo del mito”. Esistono tuttavia, e Baricco non lo dice, miti di fondazione e miti di distruzione, miti cosmogonici e miti catastrofici che narrano la fine di un mondo. La pandemia appartiene a questi ultimi. E nel mito (a cui dedicai un libro) c’è qualcosa che va oltre l’umano. Non conoscendo il mito o forse rifiutando di addentrarsi nel suo mondo, non volendosi avvalere dei suoi studiosi e delle sue tradizioni, Baricco ripiega nell’inconscio, aggrappandosi a Jung. Non c’è traccia, per esempio, di Mircea Eliade.
Baricco evidenzia il nesso tra pandemia ed era digitale, fondati entrambi sul contagio e la trasmissione. Ma poi è debole la prosecuzione dell’analisi e la conclusione; e suona un po’ come un fervorino finale, quasi un happy end moralistico, seppur rattenuto, il suo richiamo all’amore, creatura mitica come la pandemia, però benefica. Ma l’amore non salverà il mondo, non può salvare. Nella sua pienezza l’amore è un dio che trascende l’umano, la vita terrena, la storia. Ecco la parola impronunciata, Dio. “Ormai solo un dio ci può salvare” fu titolato il libro-intervista dell’ultimo Martin Heidegger, uscito alla sua morte, il 1976.
Baricco evoca il mito ma lo lascia a metà, non vi si addentra, preferisce lasciarlo nell’inconscio o nel racconto, non lo affronta sul piano metafisico che è il suo terreno. Evoca una parola potente al suo fianco, il destino, ma non la adopera; forse teme di risvegliare energie e visioni. Ma se la pandemia è creatura mitica, solo nel mito, solo nell’amor fati che accetta il destino, si può oltrepassare la paura di vivere e di morire e trovare il suo senso.
A questo punto, molti chiederanno di tornare a terra; il virus si affronta con i mezzi empirici antichi (il distanziamento, la maschera, l’igiene) e nuovi (le terapie, i farmaci). Molti diranno che non un dio, non l’amore, non il mito ma il vaccino potrà salvarci. Il mito non è una cura per sopravvivere, dà senso alla vita e alla morte; è un rimedio spirituale, non sanitario. E’ su un altro piano, impone un salto. Non evochiamolo per poi abbandonarlo per strada.
I miti non sono vaccini; danno una chiave di lettura, ci fanno vedere il mondo con altri occhi, sotto altra luce, ci aiutano a capire e affrontare gli eventi, ma non risolvono le situazioni, non riparano dal male. La condizione umana resta invariata, cioè mortale, precaria, esposta al pericolo, immersa nel mistero.
Se la pandemia è un tunnel, il mito è una luce. Non un farmaco.