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Un cavaliere del Caucaso di Tolstoj dà voce al complesso di colpa dell’Europa

di Francesco Lamendola - 02/09/2017

Un cavaliere del Caucaso di Tolstoj dà voce al complesso di colpa dell’Europa

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Da molto tempo la società europea soffre di un male incurabile, l’odio di sé e il disprezzo della propria identità, delle proprie radici, dei propri valori; odio e disprezzo che si accompagnano, da un lato, all’esaltazione acritica e spesso ingenua o caricaturale dei presunti meriti delle altre culture, dall’altro a un inestinguibile senso di colpa per tutti i mali, veri o anche immaginari, che l’Europa ha, o avrebbe, inferto agli altri popoli e alle altre civiltà. Oggi questa tendenza ha raggiunto il culmine e si coniuga perfettamente con l’atteggiamento di accoglienza illimitata e indiscriminata che molti europei si sentono in dovere di praticare nei confronti delle massicce immigrazioni africane e asiatiche nel loro continente, atteggiamento che non è condiviso da tutta la popolazione ma che sta ricevendo un impulso e un sostegno determinante dalla Chiesa cattolica, da molti membri del clero e specialmente dal papa Francesco, che ne ha fatto una delle priorità assolute del suo pontificato, anche a costo di compiere clamorose invasioni di campo nella politica degli Stati sovrani: ieri per criticare aspramente il “muro” che Donald Trump dichiarava di voler erigere (in realtà, completare) alla frontiera con il Messico, oggi per esortare il Parlamento italiano ad approvare la legge sullo ius soli, di cui dovrà occuparsi fra qualche settimana. È una sindrome patologica di colpa, simile a quella determinata dal genocidio degli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale, che ha avuto, come riflesso permanente, una sistematica presa di posizione pro Israele in tutte le questioni che hanno opposto questo Paese alle nazioni arabe vicine, e alla stessa popolazione araba della Palestina, dopo la sua nascita il 14 maggio 1948 e dopo le successive guerre arabo-israeliane della seconda metà del XX secolo. Poiché gli Europei hanno commesso innumerevoli e abominevoli violenze e atrocità ai danni dei popoli del Terzo Mondo, dai conquistadores e dalla tratta dei negri in poi – così ragionano, o sragionano, gli integralisti dell’accoglienza totale, gli stessi che non se la sono mai presa calda per i milioni di poveri europei o per gli innumerevoli reati e crimini compiuti dai sedicenti profughi, perfino durante il periodo di attesa per sapere se le loro domande di accoglienza sono state accolte oppure no – adesso è venuto il turno dell’Europa di farsi perdonare, di risarcire quei popoli, di prodigarsi per aiutare quella umanità sofferente: tanto più che le condizioni di miseria di quei Paesi, si dice e si ripete, sono in gran parte il frutto del colonialismo e del neocolonialismo.

Ci sarebbero molte, moltissime cose da dire su ciascuna di queste affermazioni e sulle relative conclusioni, ma questa non è la sede adatta. Ci basterà osservare, di sfuggita, che le società africane, asiatiche e americane di prima dell’arrivo degli europei, non erano sempre dei paradisi in terra, ma attanagliate da problemi secolari dovuti non a cause esterne, bensì alle stesse attitudini di quei popoli e delle loro classi dirigenti; che i conquistadores hanno, senza dubbio, compiuto eccidi e crudeltà, ma forse non così terribili se, alla fine, gran parte della popolazione indigena del Centro e Sud America è sopravvissuta (a differenza di quella del Nord America, realmente decimata) e che, comunque, il governo spagnolo varò anche delle leggi a protezione degli indios, per i quali molto si spesero anche  missionari cattolici; che la tratta dei negri fu resa possibile dalle guerre tribali e dall’avidità e dal cinismo dei capi locali, che vendevano la carne umana ai trafficanti europei, e che non fu appannaggio dei soli europei, visto che una tratta dei negri esisteva anche sulla costa orientale dell’Africa, gestita dagli arabi, i quali non vi rinunziarono se non alla fine del XIX secolo e solo perché costretti, con la forza, dagli europei medesimi; che il colonialismo, accanto a pagine deplorevoli e vergognose, ne annovera anche di dignitose e talvolta di esemplari, e, comunque, consentì ai popoli del Sud del mondo di venire a contatto con la cultura occidentale e le università occidentali, ove trovarono di che mettersi a pari con i giovani europei e anche di elaborare le teorie che li avrebbero condotti al guidare i movimenti di liberazione: perché la dignità della persona e il rispetto dei suoi diritti inalienabili li appresero dagli europei, non dalle proprie culture, salvo rare eccezioni; infine, che il neocolonialismo sta sfruttando, sì, l’Africa, l’Asia meridionale e l’America latina, mediante le multinazionali e le grandi banche occidentali, ma lo stesso sfruttamento mondiale, e sia pure in forme diverse (ma neanche tanto, nella sostanza) lo stanno subendo tutte le popolazioni del pianeta, compresi gli europei, sempre più messi alle corde (vedi il caso della Grecia) da meccanismi di usura spietata che non sono, di per sé, “europei”, visto che mordono a sangue anche i popoli del nostro continente, ma che sono nelle mani di una minuscola élite finanziaria mondiale, peraltro in gran parte non europea, la quale sta ultimando il suo ambizioso e secolare disegno di dominio sull’intera umanità. Quanto ai cosiddetti “migranti”, neologismo inventato per impietosire e confondere le carte in tavola, si tratta, al 90%  e passa, di persone appartenenti al ceto medio africano a asiatico, che hanno la disponibilità di pagare 3 o 4.000 dollari per un viaggio incerto e pericoloso, non perché minacciate da “guerra e fame”, come recita il mantra buonista dei cattolici progressisti e della neochiesa “misericordiosa” di papa Bergoglio, ma perché si sono convinti che l’Europa è talmente ricca, che basta arrivarci per diventare ricchi a propria volta, e quindi vendono le loro proprietà e i loro beni inseguendo un miraggio di benessere e non premuti da una necessità inderogabile di sopravvivenza. L’ultima leggenda da sfatare è che l’Europa egoista, brutta e cattiva, non faccia niente per aiutare i Paesi poveri, specie dell’Africa; la realtà è che somme considerevoli sono stanziate e versate ogni anno, ma il 70% di esse, secondo stime più che ragionevoli, anzi, ottimistiche, si perde per strada prima di arrivare ai destinatari: e a farle sparire sono, in massima parte, gli stessi governanti o gli amministratori africani. Ci sarebbe poi un’altra verità scomoda, scomodissima, talmente scomoda che nessuno, o quasi nessuno, osa mai dirla, preferendo subire il ricatto della cultura politically correct, interamente dominata dalle leggende e dalle mitologie buoniste, progressiste e imbevute di odio di sé, che è la moneta corrente della nostra classe intellettuale dalla seconda metà del Novecento in avanti: la scarsa propensione di molte popolazioni africane, e anche di altri Paesi poveri del Sud del mondo, al lavoro. Sì, lo sappiamo: dire una cosa del genere equivale a infrangere uno dei principali tabù del politically correct e ad attirarsi l’eterna inimicizia di tutti i progressisti, laici e sacerdoti, di casa nostra: pure, è necessario che qualcuno la dica, una buona volta, perché i fatti sono fatti e coi fatti non si litiga, sono le idee che devono inchinarsi davanti ad essi e non viceversa. Ora, chiunque abbia un po’ di pratica dell’Africa o un po’ di familiarità con delle persone che vi abbiamo abitato abbastanza a lungo, sa di che cosa stiamo parlando: e lo sanno anche i missionari e le missionarie che vivono laggiù e che hanno deciso di dedicare la loro intera vita all’aiuto di quelle popolazioni povere. Si tratta di questo: per svolgere il lavoro che, normalmente, è capace di fare un bianco, ci vogliono dieci o venti africani. Il fatto è che nella cultura africana, per tutta una serie di ragioni storiche e culturali che ora non staremo a discutere, non esiste la cultura della laboriosità, come l’abbiamo noi europei: si lavora se e quando è necessario per procacciarsi il cibo, altrimenti non ci si preoccupa per il futuro. Intanto, si mettono al mondo sempre più bambini, con la massima tranquillità: la bomba demografica africana cresce di giorno in giorno e a metà del secolo scoppierà, quando avrà toccato la cifra pazzesca di 2 miliardi e mezzo di persone.

Ora, l’auto-disprezzo e l’auto-colpevolizzazione degli europei rispetto ai popoli degli altri continenti partono, come sempre, da una ristretta frangia di scrittori e intellettuali, i quali, verso la seconda metà dell’Ottocento, hanno cominciato a denunciare le politiche nefande delle loro nazioni in Africa, in Asia e altrove; e se un Jack London, per esempio, non aveva problemi ad asserire che, nelle isole della Melanesia, il bianco deve imporsi e comandare, anche con la forza, perché quei popoli sono troppo barbari e pigri per capire se non la legge della forza bruta, altri scrittori, come Joseph Conrad, col romanzo Cuore di tenebra (Hearth of Darkness, 1899), aprivano la stagione delle autoaccuse e delle autoflagellazioni, presentando ai loro lettori, in Europa, il tipico europeo in Africa come un avvoltoio, un mostro, un individuo senza cuore, proteso unicamente a sfruttare gli indigeni e a fare soldi con qualsiasi mezzo. Questa, lo ripetiamo, non è una menzogna, ma non è neppure la verità: diciamo che è una parte della verità. È probabile che l’uomo europeo moderno fosse tormentato per suo conto dai sensi di colpa, e che fosse in cerca di un oggetto di cui servirsi per concretizzarli; ma alla radice di quei sensi di colpa difficilmente vi è il capitolo controverso del colonialismo, che ha avuto le sue ombre e le sue luci. È più probabile che esso abbia cause più remote, più profonde e più strutturali. È la stessa forma mentis dell’uomo moderno che nasce da una forzatura e da una deviazione: la civiltà moderna stacca violentemente l’uomo da Dio e dalla giusta misura di se stesso, e lo scaraventa, con l’aiuto della tecnica, a delle altezze stratosferiche, ove non è capace di mantenersi. Inevitabilmente i suoi limiti umani si fanno sentire e ne ricava fallimenti, sconfitte, depressione. Comunque, l’oppressione dei popoli coloniali aveva il vantaggio di semplificare tutto: senza bisogna di scavare troppo in profondità, l’uomo bianco poteva contemplare il proprio lato egoistico e violento e avere ampia materia di riflessione sulla propria natura malvagia e sulla propria inclinazione alla crudeltà e all’ipocrisia (perché giustificava le sue azioni nefande con una missione di civiltà). In questo senso, Conrad è stato l’anti-Kiping: proprio nello stesso anno, infatti, in cui usciva Cuore di tenebra, il 1899, Rudyard Kipling, il bardo dell’imperialismo britannico, pubblicava la poesia The White Man’s Burden, nella quale esortava gli Americani a non scoraggiarsi se la loro missione di civiltà nelle Filippine era mal ripagata da quel popolo ingrato, che lottava contro di loro, perché il destino della razza bianca, specie anglosassone, è quello di portare avanti la civiltà, anche a costo della incomprensione e dell’ostilità dei popoli stessi che ne verranno beneficiati.

In realtà, il più meditato romanzo anticolonialista della letteratura europea è, secondo noi, Un cavaliere del Caucaso di Lev Tolstoj, che appartiene all’ultima fase creativa del grande scrittore russo: terminato nel 1904, quando egli aveva più di settant’anni, verrà pubblicato solo nel 1912, postumo, in Germania. Vi si narrano le lotte del popolo ceceno contro i Russi e, in particolare, le gesta del nobile Chadzi Murat, il quale, per ragioni personali, si rivolta contro il capo della resistenza all’invasore, Samil, e si allea coi Russi in odio a lui, divenendo un traditore del suo stesso popolo; ma finisce poi tragicamente, nel tentativo di salvare la propria famiglia. In questo romanzo della vecchiaia, scritto quando le sue idee socialiste, anarchiche e umanitarie avevano raggiunto la punta estrema, causando anche la sua scomunica ed espulsione dalla Chiesa ortodossa, che egli contestava radicalmente in nome di un ideale evangelico integrale, Tolstoj dava sfogo non solo ai sensi di colpa dell’europeo verso le altre razze, ma anche a quelli suoi personali, dato che, da giovane, si era arruolato ed era andato a combattere proprio in quelle terre, nel 1851, che la Russia stava conquistando definitivamente, estromettendo da esse l’influenza sia dell’Impero ottomano che di quello persiano. Da buon filantropo, nell’animo di Tolstoj riaffiora tutto il filone del “buon selvaggio” di matrice illuminista; ed egli riveste il suo eroe ceceno, che lotta eroicamente per la sua terra, di molte delle qualità morali che rifiuta di riconoscere, invece, ai suoi compatrioti, rei di aver voluto portare in quelle regioni, appunto, la civiltà dell’uomo bianco, e anche la religione cristiana contro quella islamica, tradendo, così, secondo la sua visione molto schematica e semplicistica, lo spirito stesso del Vangelo.

Ha osservato la studiosa Vanna Bosia nella nota introduttiva al romanzo (in: L: Tolstoj, Un cavaliere del Caucaso; titolo originale: Chadzi Murat; traduzione dal russo di Giacinta De Dominicis Jorio,  Torino, SAIE, 1959, pp. XII-XIII):

 

In questo romanzo, attraverso una narrazione piana e pacata, [Tolstoj] esprime una severa condanna della violenza. L’imperialismo russo gli appare come un sistema inaccettabile (vedi ad esempio la distruzione dell’”aul” di Sadò da parte dei Cosacchi).

Il mondo russo è descritto come un’accolita di gente senza dignità, servile, adulatrice, pronta a qualsiasi compromesso pur di conservare i privilegi del proprio rango. Il mondo caucasico, per opposto è simbolo della fierezza e dignità personale. Il caucasico è feroce, vendicativo ma pieno di dignità.[…]

Tolstoj, servendosi di un episodio della guerra tra i Russi e i Ceceni, vuole bollare l’aristocrazia russa e lo stesso Zar Nicola I, una società marcia, godereccia, senza cuore; solo dedita all’adulazione. Lo Zar è capriccioso, vittima dell’adulazione, crede di essere l’unica persona magnanima ed onesta di tutta la Russia. È sorprendente apprendere con quanta impudenza osi proclamare che “in Russia per fortuna non c’è la pena di morte”, mentre nello stesso tempo condanna un povero studente polacco a dodicimila frustate!

 

Certo, bene ha fatto Tolstoj a informare i suoi lettori che anche i Russi, nella conquista del Caucaso, avevano adoperato metodi riprovevoli contro le popolazioni civili, distruggendo villaggi indifesi; magari anche gli Americani avessero avuto, allora, chi li informava di come erano andate realmente le cose nella strage di Sand Creek, o in quella di Wounded Knee, invece di coltivare sanguinosi sogni di vendetta contro i Sioux di Toro Seduto, rei di aver difeso le loro terre e i loro villaggi contro il “povero” colonnello Custer, uno psicopatico incosciente e sanguinario che aveva disonorato l’esercito statunitense. E tuttavia, Tolstoj è andato molto oltre il segno: per amore di una sua tesi preconcetta, ha voluto dipingere i Russi come i portatori di tutti i vizi, e contrapporre ad essi i nobili cavalieri ceceni, i quali, pur non immuni da pecche – la vanità, l’ambizione – appaiono, nel complesso, infinitamente migliori dei loro avversari. Eppure qui si sta parlando di uno dei primi casi di guerra santa islamica contro i cristiani, con tutta la sua mistica e i suoi rituali; e sappiamo come i combattenti ceceni di oggi abbiamo proseguito la loro lotta, anche in forme di brutale terrorismo a danno di persone innocenti e perfino di bambini. Lo sguardo di Tolstoj, accecato dai suoi sensi di colpa e dai suoi pregiudizi antieuropei e anticristiani, non ha saputo spingersi abbastanza lontano: chissà cosa penserebbe oggi lo scrittore, davanti al fenomeno della guerra santa che i fondamentalisti islamici hanno lanciato ai quattro angoli del globo. Il fatto che i Russi, negli anni 50 del XIX secolo, abbiamo avuto la meglio sulle popolazioni montanare del Caucaso, non toglie che la mistica della guerra santa si apprestava a rinfocolare l’odio antieuropeo e anticristiano e che non sempre le cose finivano come nel romanzo del Nostro; a Khartoum, per esempio, la capitale del Sudan, la rivolta mahdista culminò nel massacro della guarnigione egiziana e nell’uccisione dello stesso generale Charles Gordon, la cui testa venne portata in trionfo per le vie, fino al campo del Mahdi, l’inviato di Allah contro gli infedeli (26 gennaio 1885).

Tolstoj era diventato, specie nell’età matura, l’equivalente – fatte le debite proporzioni e i debiti distinguo - di colui oggi, in Italia, si presenta come un cattolico di sinistra. Vedeva il bene tutto dalla parte degli “altri”, dei non europei, dei non cristiani, dei “poveri”, e il male tutto dalla propria. Era schiacciato dai sensi di colpa, così come lo è il protagonista del suo (brutto) romanzo, Resurrezione, nei confronti della ragazza che aveva sedotto in gioventù, e poi dimenticata. Prima di scrivere queste ultime opere, il conte Tolstoj (perché era un conte) aveva giocato a  fare il don Lorenzo Milani del suo paese, creando una scuola rurale a Jasnaja Poljana, nelle sue vaste proprietà, e inaugurando un modello anarchico di pedagogia; ciò che non gl’impediva, ogni tanto, di lasciar emergere il suo lato collerico, e autoritario, quando vedeva che la natura dei bambini non era del tutto angelica e innocente, come avrebbe voluto immaginarsela: a un ragazzino che aveva preso una matita non sua, applicò sulle spalle il cartello con la scritta: Ladro e lo tenne in un angolo della classe, per tutta la mattina. Poi si pentì, si vergognò e glielo tolse, facendolo a pezzi. Sono i tipici eccessi emotivi di chi non vuole accettare che le idee, le proprie idee nobili e buoniste, altamente umanitarie, possano anche avere torto davanti ai fatti.

Che Dio ci scampi e liberi dallo zelo fondamentalista di codesti cristiani progressisti, i quali, pur di non dover ammettere che i cattivi non sono sempre quelli della propria razza, della propria cultura e della propria religione, ma lo sono, talvolta, e magari anche in misura maggiore, gli “altri”, quelli che vengono immaginati come buoni solo perché hanno la pelle di un altro colore e sono “sfruttati”, “poveri”, “diversi”, farebbero qualunque cosa, anche carte false, in una vera e propria rincorsa del razzismo all’incontrario. Vediamo ai giorni nostri, nella nostra società e nella nostra Chiesa, quanti danni stanno facendo costoro. Sono dei danni talmente gravi, che ci vorranno generazioni intere per porvi rimedio, ammesso che ciò sia mai possibile…