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Un governo (quasi) Bannon per Salvini. E rischio Tsipras per M5S

di Alessio Mannino - 05/03/2018

Un governo (quasi) Bannon per Salvini. E rischio Tsipras per M5S

Fonte: Alessio Mannino

I populisti hanno vinto le politiche 2018 in Italia? Sì. Nel senso che il popolo, quello che lavora ed è torchiato dalle tasse (ceti medi al Nord), o quello che vorrebbe lavorare o è precario e s’arrangia, spesso in nero (proletarizzati, soprattutto al Sud), ha premiato le due forze che più si sono spese per rappresentarlo senza più tabù, rispettivamente Lega e Movimento 5 Stelle. Detto fine, il popolo si è rotto le palle. E per la precisione non ne può più dei seguenti soggetti:

– del Pd di Matteo Renzi, l’arrogantello che si crede Napoleone, con i rampanti renziani tanto gonfi di protervia quanto di vuoto intellettuale. Rivendicare successi e meriti che non ci sono stati o, se ci sono stati, sono evaporati (gli 80 euro del 2014, un’era fa), blaterando di un Paese che ha retto grazie a loro, ha gettato benzina sul fuoco della rabbia popolare. Cretineria politica pura a difesa dell’establishment puro. Lo spot della propaganda piddina che girava nelle ultime ore di campagna elettorale, pur simpatico con quel padre di famiglia deluso convinto a fatica da moglie e figli a votare Pd, era già un’ammissione preventiva di batosta. Il nulla renziano è stato messo a nudo. Ora l’opposizione interna, guidata da un altro nullologo che non ha neppure la personalità di Renzi, ovvero Orlando, dovrà capire se ha ancora senso un centrosinistra in Italia sulle basi di sempre: europeismo con appena qualche accenno di critica a Bruxelles ma sempre a guardia armata dello status quo, gestione a rubinetto dei flussi migratori (il ministro degli interni Minniti non è bastato, a dare un’immagine diversa dal tradizionale immigrazionismo), politiche del lavoro sostanzialmente liberiste (Job’s Act), preferenza ai diritti civili individuali (legge Cirinnà) rispetto a quelli sociali, indifferenza o disprezzo verso la questione della sovranità monetaria e finanziaria, antropologia dell’ottimismo obbligatorio, grottesca strumentalizzazione dell’antifascismo per coprire la vacuità ideale e ideologica. Qua c’è da ripensare tutto. Compreso il destino di Renzi:  fonderà un suo partitello personale?

– di Silvio Berlusconi, pugnace ma spesso arrugginito per non dire rimbambito, a cui non sono risultati sufficienti i voti degli anziani. Nè tanto meno aver indicato all’ultimo momento un candidato premier, Antonio Tajani, la cui presa sull’opinione pubblica è inversamente proporzionale alla quantità e ai metri quadrati di interviste che i mega-giornali periodicamente gli dedicano. Forza Italia esce umiliata dal confronto con il rivale interno all’alleanza, la Lega, un po’ perchè il Berlusca ha fatto il suo tempo, un po’ perchè in questi anni si è liquefatta sul territorio. E anche perchè, con il suo moderatismo filo-Ue e pro-euro, non intercetta il sentimento di ribellione che domina a destra. Un partito quasi superfluo: ecco la fotografia degli azzurri dopo la giornata di ieri.

– della sinistra veterotestamentaria, popolata da zombie revanscisti (D’Alema, Bersani), gruppi pressocché insignificanti (gli ex Sel) e personaggi lunari come Grasso o spocchiosi come la Boldrini. Il radical-chicchismo di queste conventicole è ormai un fenomeno per studiosi di psicologia: sono pervicacemente, ostinatamente, disperatamente tetragoni a ogni analisi aggiornata della società (si leggessero ad esempio cosa dice dell’immigrazione Sahra Wagenknecht della tedesca Die Linke: «pensiamo che né per la Germania né per i paesi di origine sia opportuno promuovere e favorire la migrazione di manodopera. E non abbiamo interesse a creare ulteriore concorrenza in Germania nel settore a basso salario dando alle imprese ancora di più la possibilità di giocare mettendo l’uno contro l’altro, perché tanto avranno sempre qualcuno che a causa della situazione personale è disposto a lavorare per un salario peggiore. E vorremmo anche un ordine economico globale che impedisca alle persone di essere cacciate dalle loro case»). Marco Rizzo col suo micro-partito comunista li strabatte, quanto a consapevolezza e lucidità. Ma alla parola “comunismo” ormai chiunque scappa (e con buone ragioni, sia chiaro). I sinistri da apericena e marcia rituale stanno alla sensibilità del popolo come un film di Kurosawa ad una spaghettata fra amici.

– dei politicanti che s’inventano sigle, siglette e partitini pronto-uso pur di restare incistati nel Palazzo come saprofiti. Gente specchiabilmente indispensabile come Flavio Tosi, Raffaele Fitto o Maurizio Lupi (“Noi con l’Italia”, ma l’Italia non con loro), Beatrice Lorenzin (Civica Popolare: ma popolare di che?), Insieme (insieme con pochi intimi nostalgici di quell’eccitante epopea che fu il prodismo, roba hot). Questa gente dovrebbe sparire dall’agone, prima o poi. Invece qualcuno riesce sempre a sfangarla, vedi Antonio De Poli dell’Udc. Anni e anni di dedizione a vivere di politica insegnano pur qualcosa. Ma non abbastanza, almeno per i brand (hanno riesumato perfino lo scudocrociato democristiano, in un impeto di marketing macabro).

– della religione erasmusiana dell’Europa. Vedi quel poco che ha racimolato la Bonino, che doveva essere la rivelazione dello show elettorale. Diciamo la verità: quel “più Europa” non era un nome, era una minaccia.

– della insulsa, antistorica e controproducente guerra immaginaria fra fascisti alle porte e antifascisti baluardo della democrazia. Casapound e Forza Nuova erano e restano marginali, segno che finchè rimangono abbarbicati, sia pur in modi e forme diverse, all’antico retaggio, non acchiappano. Specularmente, l’antifascistissima lista dei centri sociali Potere al Popolo – che si rifà alla “Francia indomita” di Mélènchon senza aver capito un’acca della sua formula, a modo suo sovranista – prende il consenso del proprio mondo e basta, segno che il ritorno del Duce è buono solo come titolo per una commediola da cinema. Quel che ha dichiarato la statista Carofalo dice tutto: per lei, hanno vinto qualunquismo e razzismo e morta lì. Superba capacità analitica. Forse giusto un po’ troppo innaffiata di alcol.

– dei mezzi toni e delle mezze misure sulle due preoccupazioni che assillano l’italiano medio: la mancanza di lavoro e la sicurezza, legata specialmente alla presenza di immigrati. Reddito di cittadinanza targato M5S da una parte, chiusura delle frontiere by Lega dall’altra, per quanto proposte più o meno fattibili, hanno certamente esercitato un richiamo potente. Ma a livello ancora più basico, di subconscio di massa, è la verginità politica del primo (“proviamoli, gli altri hanno già fatto tutti schifo”) e la semplice durezza della seconda (“Salvini parla chiaro a favore degli interessi nazionali”) ad aver fatto, almeno secondo chi scrive, la differenza. Chi “non ce la fa” a mettere la crocetta sul Carroccio 2.0, ma ha finito da un pezzo di credere al centrosinistra, si è ammassato sui grillini. Chi vede nell’immigrazione sistematica e continua, comprensibilmente anche se esageratamente, il primo problema italiano, e vorrebbe tornare “padrone a casa nostra” detestando euro e diktat sovranazionali (dimenticandosi però, con curiosa distrazione, che oltre alla Ue c’è anche la Nato, a tenerci al collare), ha schienato Berlusconi lasciando nella sua nicchia Fratelli d’Italia, e ha fatto schizzare in alto i leghisti.

– delle alchimie poltronare della partitocrazia e della sua perversa fantasia combinatoria. Un “governo Bannon” di legislatura (in foto, dal nome dell’ex stratega di Trump che sul Corsera ha auspicato un patto duraturo M5S-Lega) sembra difficile: Salvini ha già rivendicato la premiership nel centrodestra avendo battuto Forza Italia, e Di Maio non dovrebbe voler rischiare le percentuali plebiscitarie nel Mezzogiorno dei disoccupati e degli statali coalizzandosi con una Lega che rappresenta tutt’altro elettorato (la piccola borghesia settentrionale impoverita e sfiduciata). Resta possibile un governo di scopo,anche in una variante Bannon in do minore: intesa Salvini-Di Maio (e chi ci sta) per rifare la ignobile legge elettorale e tornare alle elezioni nel giro di un anno – benchè si sa come finiscono queste cose in Italia: si va avanti a oltranza. Qualunque sarà il Presidente del Consiglio incaricato di succedere a Gentiloni dopo il 23 marzo, dovrà sottostare alla richiesta Ue di una manovra correttiva in primavera, e i pentastellati non dovrebbero avere alcun interesse a portare questa croce come titolari unici di Palazzo Chigi, passando così come gli Tsipras alla pummarola, ovvero quelli che promettono di contestare l’eurocrazia e i “mercati” e poi chinano la testa obbedendo (scenario probabile in ogni caso, d’altronde la metamorfosi “liberale” del Movimento va già in questa direzione “normalizzatrice”, e infatti i divinizzati “mercati” non sembrano essersi impressionati più di tanto dalla prevedibile ascesa degli pseudo-antisistema). Il centrodestra dovrà far la conta dei seggi in parlamento ma se non dovesse avere la maggioranza, anche la Lega come il M5S avrebbe tutto il vantaggio di mantenere quanto più intatto il credito acquisito per tornare alle urne, in una spericolata “opzione Weimar” che però finirebbe col favorire più il M5S. Il quale ha davanti a sè un’impresa tutto meno che facile: capitalizzare il successo strepitoso evitando, complice l’impreparazione media del suo personale politico, di far esplodere le possibili contraddizioni interne e disperdere l’enorme delega ricevuta dal popolo.

– dell’astensionismo come tentazione e scelta: la disobbedienza cartacea è rimasta sotto il livello di guardia del 30%. Segno che, per quanto ridotta ad una giornata di file al seggio, la democrazia rappresentativa resta l’ancora a cui il cittadino si aggrappa per illudersi di avere un potere sugli eventi. E infatti ci si fionda con l’animo di mandare sonoramente a quel paese una politica elitaria regolarmente considerata odiosa e parassitaria (questa è l’essenza viscerale del populismo), o di esprimere una preferenza più di dovere che di passione (questa è la via di chi opta per i partiti più riformisti e gradualisti). Due Italie che sanno parlarsi sempre meno.