Un incubo temporale
di Michele Vignodelli - 01/05/2021
Fonte: Arianna editrice
La maggior parte dei fisici moderni ci dice in sostanza che lo scorrere del tempo non è una realtà fondamentale ma una rappresentazione della nostra mente, allestita dalla nostra biologia (ad es. Carlo Rovelli, L'ordine del tempo). Il fatto che sia un certo giorno e una certa ora sarebbe una fantasia condivisa da una rete vivente che esiste in una dimensione meta-temporale. Se è così, la linearità del tempo, proiettata fuori da questa rete, deve essere una illusione. Una illusione perversa, che ci ha portato a devastare le comunità umane e più che umane credendo di essere in cammino verso un futuro infinitamente remoto e definitivamente risolutivo (o di definitiva cancellazione).
Che ne sappiamo veramente? Il tempo è un'esperienza fondamentale e irriducibile di movimento, simile a quelle della musica e dei colori, anche loro “immaginati” dalla nostra biologia. Senza di noi non ci sarebbero né colori né temporalità. Memoria, istantaneità e anticipazione sono integrati nella temporalità percepita, essenziale. Tutto sembra muoversi attorno a un centro ordinatore, il “presente”, collocato più o meno a metà strada della mia persistenza materiale come persona. Chi considera la propria collocazione cronologica è sempre “nel mezzo del cammino”. Questa collocazione così speciale non può evidentemente essere né casuale né fortuita. L'esistenza di questo “presente” presuppone infatti un “passato” di memoria soggettiva definita, non troppo lunga né troppo breve, e un futuro immaginabile altrettanto definito. L'istantaneità, l'esserci non è infatti un punto astratto, ha un corpo che per condensare deve potersi collocare in un paesaggio cronologico concluso, che riconosciamo come nostro. Il presente è un'intenzione, un'urgenza che non può dilatarsi troppo senza dissolversi. Per immaginarci qui dobbiamo essere gli stessi che erano lì e saranno là. La presenza copre un arco breve e ben definito in cui possiamo immaginarci senza incertezze e discontinuità, come su un binario, avanti e indietro, restando riconoscibili a noi stessi, al nostro intento. Il presente vede sé stesso e si posiziona su questa traccia che ci definisce grazie a un breve passato.
Da dove lo facciamo? Da dentro il tempo o da fuori? Se fossimo schiacciati nel presente non ci potrebbe essere coscienza temporale. Se lo facciamo da fuori vuol dire che la nostra collocazione qui è immaginata entro una scena ben definita, contenuta a sua volta nella nostra presenza, nella nostra piena integrità fisiologica. Il passare del tempo è uno sfogliare il nostro album di fotografie, anche se non è altrettanto innocuo. La nostra integrità cosciente lo avvolge e lo contiene, ma lo scorrere del tempo sembra consumarla. Questo limite, questa finitezza è in effetti necessaria, perché permette il riconoscimento di sé, che avviene solo perché la coscienza è avvolta su sé stessa a stretto giro e così il tempo è contenuto in sé stesso. La coscienza infatti è coscienza di essere coscienti, e questa richiede una stretta ricorsività temporale.
Essenzialmente la coscienza è un occhio che si osserva, un volto che riconosce sé stesso e l'adesso si accende di questa sorpresa, che normalmente manca perché siamo immersi negli eventi. La stretta conclusione temporale che apparentemente consuma la coscienza in realtà genera l'indispensabile cortocircuito che la produce, perché la vibrante sorpresa di “esserci”, pienamente noi stessi, è un ri-conoscersi, un ri-trovarsi, un “eccomi”. La non integrità, l'assenza creata dal passare del tempo è comunque rappresentata, immaginata dall'interno di una condizione di integrità, che a sua volta viene riprodotta come percezione di sé solo dal tempo stesso che la consuma e così la confina e la rinnova. Quindi il nostro “adesso” immaginato è un eco, una risonanza di sé, che la nascita e la morte riverberano e amplificano, come una cassa armonica, in questa nostra vibrante sospensione esistenziale. E' un vedere che diventa visto, che risalta da un'assenza immaginata e strettamente annidata in sé stessa. Appariamo a noi stessi solo da un apparente, ricorrente scomparire. Tutte queste apparizioni, compresa quella della nostra scomparsa, si generano a vicenda in una modalità necessariamente ricorsiva, non lineare.
Sì, perché da dove arriva il futuro? Da un nero abisso senza fondo? Dal “nulla”? Come potrebbe presentarsi così perfettamente leggibile e a fuoco se non fosse già lì? Questo nostro “adesso”, questo “eccomi”, è chiaramente l'alzarsi di un sipario su una scena già pronta: è la sorpresa del nostro disvelamento da un punto di vista invisibile che diventa visto e così scivola nel passato. Nella scena che il presente svela è contenuto lo spettatore. L'esistenza cosciente è un caleidoscopio rotante, annidato a spirale su sé stesso, dove la superficie riflettente è la nostra assenza. E' questo guscio, questa ricorsività su piccola scala a metterci in risonanza: la coscienza è un vedere che è possibile vedere solo perché è già stato visto, perché ruota intorno a sé stesso. L'allestimento mentale della presenza è un gioco a riconoscersi, una risonanza autoreferenziale: la sua costruzione nasce da un gioco concluso e abissale di echi in uno spazio definito e nostro, che la contiene e la rende vibrante a sé stessa. Ed eccoci qui, sospesi al centro di un vibrante ologramma circolare, che funziona solo perché è piegato su sé stesso. Ovviamente è impossibile descrivere a parole l'abisso da cui scaturiamo, ma è possibile intuirne la forma necessariamente semplice, coerente, circolare, un po' come quando riusciamo a fotografare un inafferrabile buco nero.
La presenza accade come disvelamento istantaneo di un già visto, si illumina solo quando gli occhi entrano nel proprio campo visivo, riconoscendosi, collocandosi in una trama narrativa. Per rendersi visibile a sé stesso, per collocarsi in questo paesaggio narrativo e riconoscersi come “adesso” occorre una ricorsività che lo accenda della propria luce: la nostra presenza è un jamais vu, un ricordo che prende vita, diventa “adesso” grazie al sipario riflettente della nostra finitezza, che lo rende riconoscibile a sè stesso. Il presente è un'intenzione che per rendersi identificabile e collocabile, raccontabile a sé stessi e agli altri deve venire da sé stessa, non da un vuoto abissale. Il presente è un presente a sé stesso, è un riverbero della sua stessa memoria, o non è.
La morte quindi non è un muro contro cui ci sfracelliamo né un pozzo senza fondo, ma è fondamento del nostro essere nel mondo, uno specchio liquido che rende coerente, tiene insieme la forma dell'ologramma mentale della nostra presenza. Se il sipario della finitezza non fosse uno specchio saremmo tutti già morti senza esserci mai riconosciuti vivi; se non ci fosse non saremmo mai nati. Nascita e morte sono lo specchio concavo che accende il fuoco della nostra presenza, generando la coerenza espressiva del nostro volto interiore: sono generatori di vitalità, continuamente operanti. Siamo perché siamo un'urgenza vitale univoca, concentrata e coerente, sostenuta dal suo stesso consumarsi, che la contiene e la rigenera.
Sul piano psicologico, l'inizio della mia memoria sfuma in fantasia e immaginazione, di fatto il “prima” più remoto è indistinguibile da un “dopo”: è lo stesso luogo mentale. Tutto il resto, le narrazioni di una storia millenaria che si proietta in avanti in escatologia cosmologica, sono solo racconti che con la realtà essenziale, esistenziale del tempo non hanno nulla a che fare. Il tempo vive della nostra vita, e nient'altro. La linearità del divenire è quindi una costruzione intellettuale priva di sostanza concreta, esistenziale. Genera un paradosso: non può essere infinita e d'altra parte non può avere confini e cominciare dal nulla. Il tempo cosmico, proiezione intellettuale di quello esistenziale, deve avere la sua stessa struttura: finita senza un confine, cioè circolare. Questo circuito temporale riverberante genera un volto sensibile e ne è a sua volta generato, i nostri lineamenti espressivi sono memoria di una mortalità vissuta e operante, che ci contiene e ci esalta. Il tempo non può “smettere”, può solo far girare la mia apparente collocazione, allestita per costruire una persona e la sua storia, una maschera sociale narrante. Il flusso temporale riverbera dentro la sfera che lo contiene: quando arriva al limite terminale della possibilità di rappresentarmi storicamente il mio volto di eterno bambino si libera della sua maschera cronologica, può svincolarsi dalla narrazione e immaginarsi nell'unico “luogo” in cui esisto come pura possibilità: l'infanzia, il passato estremo. La fine è di per sé inizio: “sempre” è la finitudine riverberante che risuona nell'intensità di questo adesso. “Ti amerò per sempre” non vuol dire per un tempo infinitamente lungo, dove nessuna presenza e nessun amore sarebbero possibili, ma per tutto il nostro tempo, prezioso e unico. La musica, espressione essenziale della temporalità, comincia da una assenza musicale, da un levare, un cessare, non da un silenzio abissale privo di memoria e di attesa. La musica non si crea, si riconosce.
La mia nascita è la mia morte, così la mia presenza in vita non è casuale, fortuita e assurda, ma necessaria, la morte è il presupposto necessario della mia narrazione temporale. Che quindi non può portarmi da nessun'altra “parte”. In un tempo lineare infinito questa presenza sarebbe impossibile (non condenserebbe mai nessuna storia), mentre un tempo lineare finito è esso stesso impossibile (perché non può cominciare dal nulla o finire). Il tempo vero, essenziale, è annidato in sé stesso, si genera dal suo venir meno, comincia dalla fine. Quindi non può alimentare nessuna fondamentale preoccupazione o speranza.
Le religioni rivelate, le filosofie, la scienza hanno costruito la percezione che siamo fragili nullità circondate da un'oceano di morte che ci ingoierà tra un attimo. Ma perché non è già successo? Perché siamo qui, sensibili e certi di esserci anche tra un'ora o un giorno, nonostante la congiura cosmica contro la nostra vita? C'è una ragione molto solida: non ci sono alternative all'esserci. Questo vuol dire che la fragilità della vita è solo un'apparenza, dovuta al nostro identificarci totalmente con un corpo, osservato o meglio immaginato da QUALCUNO che evidentemente è separato da tutto ciò che osserva e immagina come un minuscolo, precario, inessenziale pupazzo biologico confinato nel tempo. Il sé è un'immaginazione di sé, rappresentata teatralmente da un cervello che a sua volta è sempre e solo l'immaginazione di un cervello. Il serpente della nostra presunta nullità ingoia sé stesso.
Un tremendo trauma sociale ci ha fatto percepire la coscienza localizzata all'interno di un cranio: un delirio solipsistico è diventato ovvio solo attraverso un vissuto di separazione, una ri-traumatizzazione infantile su cui si è costruita la fede, l'economia, la civiltà. Il cervello non è stato creato dall'evoluzione per immaginarsi la sede della felicità e della sofferenza, ma per vedere volontà ed emozioni nel paesaggio. Fisiologicamente siamo animisti, sentiamo volizione nelle facce e riconosciamo facce ovunque, sulle rocce, sulle cortecce e nel fogliame. L'io è un filo evanescente in una trama di facce che costituisce il paesaggio vivente. Il tempo è il respiro delle loro storie, quindi non può ingoiarle e “andare oltre”. Cammina insieme a loro, grazie a loro, il suo passo è il nostro, così ogni cammino è un percorso circolare, un ritornare a casa, all'inizio. Nascita e morte sono la stessa porta che si apre e si chiude sulla vita. Lo slancio vitale che fa avanzare il tempo invisibilmente lo ricarica. Perché bisogna essere molto giovani per vedersi vecchi. La vecchiaia consuma anche sé stessa. Così ogni caduta è lo slancio per una rinascita, ogni notte è un'aurora. La vita è questa tensione, che non può consumarsi senza rigenerarsi. Così la Terra è dimora definitiva. Quel QUALCUNO non è il contenuto di un cranio perso nel mondo: è un paesaggio senziente, cosciente ed eterno.
Una violenta mazzata in testa, quindi, mi fa molto male, mi impedisce di diventare vecchio, ma non può far “sparire tutto”, perché la coscienza non è “lì”, nel cranio, ma nel paesaggio vivente e atemporale, da cui rinascono continuamente le necessarie rappresentazioni soggettive, i singoli drammi esistenziali. Il finale di una commedia non è certo la fine del Teatro, ma il suo completamento, la sua essenza, la sua fonte. Il teatro cosciente non è nella testa di un personaggio, del pupazzo immaginato che siamo singolarmente: le singole morti sono solo dei finali che riaprono il sipario allo sviluppo delle singole storie. Dal “nulla” non può cominciare nulla, quindi qualunque storia deve cominciare dalla sua fine, dal suo oblio gravido di attesa. In termini cosmologici, il “big start” e il “big end” devono essere lo stesso evento, lo stesso orizzonte degli eventi che riproduce l'Essere eternamente, e che noi vediamo sdoppiato solo per il modo in cui siamo fatti.
La scienza stessa sta sbarcando faticosamente a questa conclusione (cfr. Biocentrismo di Robert Lanza), girandoci intorno per non negare i suoi fondamenti riduzionistici e solipsistici. Il racconto di un'esistenza solitaria in attesa disperata di Salvezza, sull'orlo di un disfacimento definitivo nel “nulla”, è funzionale a degli schiavi al servizio dei meccanismi impersonali che hanno ingoiato le autentiche comunità “più che umane” a partire da diecimila anni fa, disgregandole e rimodellandole in forme patologicamente distorte, compartimentate. E' ora di rialzare la testa, di riconoscersi vibranti della nostra finitezza, eterni di un tempo che è avvolto su questa nostra Terra.