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Un racconto sulla nostra mania di raccontare

di Pierluigi Fagan - 12/07/2024

Un racconto sulla nostra mania di raccontare

Fonte: Pierluigi Fagan

Secondo il grande psicologo cognitivo Jerome Bruner, per gli umani la vita è un racconto . Noi ci raccontiamo, raccontiamo ad altri, ascoltiamo continuamente “storie”. In effetti il nostro cinema interiore non è muto e limitato alle immagini di mondo, ma ha anche il sonoro, l’interprete, il commentatore, il regista, il produttore, il critico ed il suo stesso pubblico. Tutte le nostre teorie sono racconti.
I racconti degli scienziati che lavorano con pazienti afflitti da split-brain, testimoniano invariabilmente come una metà del cervello è costantemente impegnata a dare ragione a quello che l’altra metà ha fatto o detto senza essere quella metà che ha fatto o detto.
Una delle più potenti intuizioni della neonata scienza cognitiva è stata prodotta da Leon Festinger nel 1957, la dissonanza cognitiva . Il nostro impegno autorale a raccontare continuamente noi ed il mondo, è come un potente ferro da stiro che deve continuamente appianare la superficie rugosa, contraddittoria, illogica, ansiogena del mondo e degli altri nel mondo. Nel racconto sul mondo, mettiamo a posto il mondo, siamo demiurgi.
Questo ci permette di comprendere e catalogare il presente, ci dà il senso di permanenza reiterata ovvero la continuità del nostro Io nelle dimensioni passato-presente-futuro, ci aiuta a costruire la percezione del mondo per capire come averci a che fare. Se qualcosa non funziona, possiamo sempre introdurre nuovi elementi, giustificare a posteriori, rimareggiare piccoli errori, modificare trame, rovesciare prospettive, cambiare tutto per non cambiare niente.  Siamo autori della nostra stessa identità, dell’identità narrativa che è molto più importante, ai nostri occhi o meglio orecchie, dell’identità fattuale. Ogni immagine di mondo, quindi, è anche un racconto sul mondo.
Vanno da sé due cose. La prima è quanto la nostra stessa identità razionale ma anche emotiva è legata alla proprietà e presunta verità del nostro racconto, quanto cioè siamo poco disponibili ad averne dubbio o falsificazione o relativizzazione. La seconda è quanto è facile per chi vuole aiutarci (tra virgolette) offrirci suoi ben articolati “racconti sul mondo” in cui tutto torna, tutto è a posto, tutto ha armonia ed accordo con i nostri sacri principi. Se già la sola “immagine di mondo” non è mondo ma una sua riduzione a nostro uso e consumo, fatta coi mezzi limitati che abbiamo a disposizione, il suo racconto è una ulteriore costruzione personale nel migliore dei casi, una costruzione voluta da terzi e dataci come razionalizzazione certificata di verità, di cosa e quanto è giusto pensare questo o quello, orientare il giudizio, esprimere assenso o vibrato dissenso.
Ci sono molte intercapedini, finti fondali, quinte semoventi nel nostro teatro sul mondo, in effetti non abbiamo quasi mai davvero a che fare col mondo in quanto tale, sempre e solo con una versione privata di realtà amalgamata con deliziosa fantasia...