Un secolo di degenerazione antropologica
di Federica Francesconi - 27/10/2020
Fonte: Ereticamente
Se c’è un motto che racchiude l’essenza dell’ideale dell’Uomo nuovo dal punto di vista tradizionale questo è senz’ombra di dubbio il celebre Memento audere semper coniato nel 1918 da Gabriele D’Annunzio. Per il Vate ricordarsi di osare ciò che per l’uomo comune è inosabile significava sentire dentro di sé “l’idealità del mondo”, cioè sentire di essere tutt’uno con il principio vitale che anima l’universo intero e spezzare così il confine artificiale creato dalla mente fallace tra l’io e il mondo. Fu questa concezione vitalistica dell’essere umano che lo spinse a osare l’impresa di Buccari in cui eroismo, disprezzo della morte e amore patriottico portato fino alle sue estreme conseguenze si fusero per creare un evento di epica bellezza che trascese lo spazio ed il tempo. Per D’Annunzio l’Uomo nuovo non poteva essere forgiato utopisticamente attraverso il richiamo teorico a un’ideologia. No, l’Uomo nuovo doveva essere generato dal sangue versato per un ideale. Per il Vate era l’esperienza del sacrificio di sé, il donarsi anima e corpo a una causa, che avrebbe plasmato la nuova umanità. La I Guerra Mondiale e poi l’impresa di Fiume furono per D’Annunzio e per quanti vi aderirono il battesimo di fuoco della nuova umanità, esperienze trasfiguranti e rigeneranti che impressero una svolta nel carattere di una parte dell’italianità imborghesitasi dopo decenni di politica attendista e molliccia.
Se c’è, invece, un’epoca in cui la degenerazione antropologica di fine ciclo cosmico ha preso piede questa è proprio quella che stiamo vivendo, con la sua inarrestabile deriva liberticida in nome di una tanto fasulla quanto irraggiungibile prevenzione sanitaria e con la riduzione dell’essere umano a cavia su cui sperimentare perversi protocolli sanitari. E se è esistito un pensatore che ha previsto le tendenze disumanizzanti dell’epoca attuale questo è stato Nietzsche, il filosofo dell’antimodernità. Nella prefazione al suo capolavoro, Così parlo Zarathustra, Nietzsche profetizzò l’avvento di un prototipo di umanità che descrive in termini molto plastici: “Prossimo è il tempo del più spregevole tra gli uomini, che non saprà neanche più disprezzare se stesso. Ecco, io vi mostro l’Ultimo uomo. […]Nessun pastore: un sol gregge! Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è la stessa cosa: chi la pensa diversamente ripara volontario al manicomio”. Qui Nietzsche sembra profetizzare l’avvento dell’egualitarismo e del Pensiero unico inventati dalle liberaldemocrazie occidentali, che non ammettono alcuna forma di dissenso. Chi si discosta dal pensiero conformistico dell’umanità-gregge è considerato un folle da emarginare ed isolare socialmente. E ancora: “Noi siamo assennati e sappiamo tutto ciò che è avvenuto; abbiamo dunque diritto d’irridere ogni cosa. […] Si hanno i propri svaghi del giorno, e quelli della notte; ma si tiene in gran conto la salute”. L’Ultimo uomo ha particolarmente cara la salute. Come non riconoscere in questa immagine l’attuale ossessione del genere umano per il contagio da Covid? Il suo rinunciare a diritti e libertà, fino a pochi mesi fa percepiti come intoccabili, in nome di un’immaginaria purezza? L’Ultimo uomo è colui che secondo Zarathustra, la voce narrante dietro cui si nasconde il filosofo tedesco, pensa di aver inventato la felicità. Egli è felice della sua pochezza e mediocrità, si accontenta di svaghi illusori e salutismo e non sa più “generare una stella danzante”, non sa più “che cos’è amore, che cos’è creazione, che cos’è brama, che cos’è un astro”. Nietzsche ci sta dicendo in pratica che l’Ultimo uomo non è più capace di desiderare. La parola “desiderio” deriva dalla radice latina de-sidera, che letteralmente significa “mancanza di stelle”, e allude quindi al non riuscire più ad avvertire la privazione di qualcosa che potrebbe condurre al Bene. L’Ultimo uomo pensa di vivere la migliore e la più appagante delle vite, non aspira più a qualcosa che la potrebbe completare e arricchire, ripiegato com’è nel godimento di piccoli e passeggeri piaceri che lo portano a rinunciare a volere intensamente altri orizzonti di senso e di azione. Ma desiderare che cosa? Per esempio il cambiamento e il miglioramento di sé, del genere umano e del mondo intero. Senza desiderio non c’è consapevolezza della propria condizione di schiavitù. I milioni di uomini occidentali che in questo
momento di transizione epocale vivono terrorizzati e semireclusi a causa dell’emergenza Covid non sono più capaci di desiderare il Bene e la Bellezza, non li sanno più nemmeno concepire sul piano immaginativo. Per loro le stelle si sono spente, esiste solo un eterno presente fatto di igienizzazione, mascherine chirurgiche e rinuncia progressiva alla libertà. Le assonanze tra l’Ultimo uomo nietzschiano e l’attuale umanità irretita dalla paranoia da contagio sono a dir poco inquietanti. L’Ultimo uomo è l’incarnazione del canone inverso della pòlis: se per Platone la politica è sostanzialmente basiliké techné, ovvero arte suprema della sovranità esercitata mantenendo un equilibrio tra bene individuale, bene comune della collettività e giustizia, oggi questo equilibrio è stato rovesciato a favore di una (in)giustizia che non tiene più conto tanto del bene comune quanto del bene dell’individuo. Oggi la più potente menzogna seduttiva esercitata da una politica mercenaria del dispotismo dell’Alta finanza è quella secondo cui la privazione di fette sempre più consistenti della libertà individuale è legittimata dalla preservazione della salute collettiva. Si tratta di un vero e proprio ricatto che agisce sulla psiche già di per sé fragile dell’Ultimo uomo: sotto la copertura ideologica della difesa della salute si privano i cittadini dei loro diritti inalienabili, non ultimo il diritto ad immaginare altri presenti, altri futuri. L’autoreferenzialità del potere politico, economico e scientifico è tale che può essere assimilata al concetto di hybris della tradizione sapienziale greca. Ma se il potere è libero di esercitare a briglie sciolte la hybris, l’arroganza che gli deriva dal suo essere autoreferenziale, è perché l’uomo contemporaneo è alienato da se stesso. Il processo di alienazione dell’essere umano è iniziato secoli fa e non è riconducibile solo ed esclusivamente, come sosteneva il materialismo dialettico, alla sfera terrena dell’esistenza. L’alienazione riguarda anzitutto e soprattutto il piano spirituale dell’Essere, e colpisce la capacità dell’uomo di generare “stelle danzanti”, cioè la sua innata disposizione “erotica” a volere, a lanciarsi verso mete in apparenza irraggiungibili. Oggi a dominare sono la passività, la rassegnazione, l’accontentarsi di una vita miserabile in nome di una falsa sicurezza sanitaria. L’essere umano vive sempre più isolato dai suoi simili in una bolla virtuale lontano da relazioni umane soddisfacenti. Intere sfere dell’esistenza dell’attuale umanità sono ormai avviate sulla via della virtualizzazione: il lavoro, le amicizie, la sessualità. Lo smart working, i Social Network, You Porn sono diventati la cifra attraverso cui misurare l’alienazione umana. Si tratta di un processo che il Covid ha indubbiamente accelerato, ma che era in essere ben prima della diffusione della falsa pandemia e che affonda le sue radici nella perdita della capacità di de-siderare, cioè nella perdita della capacità di entrare in contatto con altre dimensioni dell’Essere. L’Ultimo uomo è un uomo a una dimensione, un uomo che è spinto a ritenere razionale, e quindi accettabile, cioè che della società ipertecnologica non è razionale. Gli attuali processi digitalizzanti della società postmoderna con le loro false promesse di emancipazione e miglioramento della vita sia individuale che collettiva hanno trovato nell’Ultimo uomo la perfetta cavia sperimentale, il supporto umano ideale per imporsi senza resistenza in una società già scossa da una crisi economica senza precedenti.
Siamo distanti anni-luce dall’ideale antropologico che a partire dal primo quarto del secolo scorso prese il nome di “Uomo nuovo”. Che cos’era l’Uomo nuovo? Era un progetto formativo mirante a forgiare una nuova collettività, un nuovo corpo sociale, una nuova “razza” spirituale, una italianità più consapevole, secondo presupposti antitetici a quelli borghesi incentrati sull’individualismo e sulla riduzione ad oeconomiam di tutti gli aspetti della vita umana. L’Uomo nuovo doveva diventare padrone del suo destino, mosso da un indomito dinamismo che lo poneva al di fuori degli schemi socialmente usuranti e limitanti dell’ideologia borghese. Non casualmente il paradigma dell’Uomo nuovo nacque e si propagò in Europa, in particolare in Italia, dopo la durissima esperienza della I Guerra Mondiale con il suo carico di speranze frustrate e di ribellione contro i valori borghesi, ritenuti non a torto responsabili della catastrofe umana e spirituale a cui i popoli europei, disorientati e indeboliti, erano andati incontro. Dopo la pausa del Ventennio il progetto pedagogico dell’Uomo nuovo venne definitivamente liquidato dalle sinistre pseudoprogressiste come retaggio di un’epoca demonizzata dalla storiografia ufficiale e sbrigativamente relegata nell’alveo dei totalitarismi. A quel punto a partire dal Dopoguerra l’avvento dell’Ultimo Uomo profetizzato da Nietzsche non incontrò più alcuna resistenza. I segni della presenza in mezzo a noi dell’Ultimo uomo, “la più disprezzabile tra le razze”, per usare le parole del filosofo tedesco, sono sotto i nostri occhi. Un’umanità che ha paura della sua stessa ombra, votata al più bieco materialismo, senza alcuno slancio spirituale ed ideale, tutta protesa a godere dell’immediatezza e convinta per giunta di aver inventato la felicità ma eternamente infelice. Oggi vediamo questa umanità che ha perso la bussola ed è acerrima nemica di ogni sano idealismo, piegarsi ubbidiente alla dittatura sanitaria. Un’umanità schiacciata, umiliata, vessata che, come dice Zarathustra, non sa più nemmeno provare disprezzo per la condizione miserabile in cui si trova. E’ innegabile che la falsa pandemia da Coronavirus abbia impresso un’accelerazione all’avvento dell’Ultimo uomo, che pur di sopravvivere, pur di non morire, accetta di tutto, persino di essere ridotto ad automa privato di tutti i diritti e di tutte le libertà. Siamo agli antipodi dell’idea dell’Uomo nuovo, improntato al dovere etico di fuggire la paura della morte, anzi, di cercarla con tutti i mezzi e tutte le forze come realizzazione concreta dell’ideale in cui crede, sia esso la difesa della Patria o dell’ideologia politica di appartenenza, come meta finale di una vita vissuta in accordo alla propria visione del mondo.
Ed è proprio la mistica del sacrificio di sé, da non intendersi ingenuamente come autolesionismo o rassegnazione passiva, l’asse portante dell’ideale dell’Uomo nuovo. Un’incarnazione concreta di tale mistica è riscontrabile, oltre che nell’impresa di Fiume, anche nella battaglia di El Alamein, di Bir el Gobi e in altre imprese militari in cui l’Uomo nuovo del Ventennio dette prova di “essere” e non di “avere” come imponeva l’ideologia borghese. La missione dell’Uomo nuovo ruotante attorno al triplice imperativo Dio-Patria-Famiglia, nell’epoca del controllo digitale totalitario è stata sostituita dall’obbedienza cieca ed irrazionale al dio mercato, dall’adorazione dell’idolo dell’economia disumanizzante, dal cosmopolitismo apolide e dall’avversione per i legami sociali. Ci troviamo davanti a una mutazione antropologica di portata epocale in cui tutti i valori che fino a poco tempo fa avevano tenuto insieme, almeno in Occidente, un’umanità estremamente divisa, sono rigettati in nome di una globalizzazione che predica non solo il piegarsi ma anche lo spezzarsi del baricentro interiore. Il motto Flectar ne flangar, “mi piegherò ma non mi spezzerò” è solo un ricordo nostalgico appartenente a un’epoca mitica. E così le centrali di potere sovranazionali, vere azionatrici delle leve di tutti i cambiamenti, spesso in peggio, che coinvolgono l’intero globo, hanno preparato astutamente da almeno un secolo il terreno per far accettare all’umanità nel modo più naturale possibile la desacralizzazione della Patria, spazzata via dalla globalizzazione a trazione neoliberista. Oggi il massimo dell’offerta sacrificale che gli ultimi uomini arrivano a concepire come forma di ubbidienza cieca a un regime sanitario totalitario, che ogni giorno che passa li priva di un pezzetto di dignità, è “state a casa”. E così, se l’Uomo nuovo del Ventennio fu lo sbocco di un’umanità temprata dalle sofferenze e dai sacrifici della guerra, che dire dell’Ultimo uomo contemporaneo se non che è lo sbocco naturale dell’ultima fase dell’Età Oscura? Ma noi, uomini e donne che non si piegano e non si spezzano di fronte all’inevitabile tracollo della civiltà, sappiamo che ad ogni Età Oscura segue ciclicamente una nuova Età dell’Oro, in cui un’umanità ripulita dalle scorie del materialismo risorgerà dalle ceneri nella sua sfolgorante bellezza. L’Uomo della prossima Età dell’Oro che verrà, come profetizzato dal poeta latino Virgilio nella IV Egloga, “riceverà la vita dagli dèi, e vedrà gli dèi/ mischiati agli eroi ed egli stesso sarà visto da essi/ e reggerà il mondo pacificato dalle virtù del Padre”. Dunque, armiamo le nostre anime di inosabile e abbeveriamoci, noi uomini e donne rimasti ancora in piedi sulle rovine della civiltà, alla fonte della Bellezza, e che il nostro ubriacarci di Essa faccia da esempio e da monito a un’umanità derelitta che ha perso se stessa e il ricordo della sua missione nell’universo, in modo che ognuno di noi, come un secolo fa il Vate, possa dire a se stesso, fiero di se stesso: “Io ho quel che ho donato”. Quel che ho donato all’ideale, alla causa, a me stesso e all’Assoluto, e che qualsiasi diavoleria il potere di questo mondo inventi, non mi sarà tolto per l’eternità, varcando così le Età, i mondi e gli ultramondi.