Una generazione edonista
di Lorenzo Merlo - 22/02/2020
Fonte: Il giornale del Ribelle
Nella giovinezza, adagiati sui diritti che il percorso ci offriva non avremmo accettato la critica che ci diceva d’essere in errore, d’essere i fautori di un futuro mortificato. Non lo avremmo accettato; senza se e senza ma. Ciò che vedevamo per noi era nel nostro diritto prendercelo. Gli altri, quelli che sarebbero venuti dopo, non c’erano e il futuro era semplicemente un affare nostro. Ora che i tempi ci permettono sguardi prima accecati dalla vanità, ci crucciamo di fare qualcosa di utile e riparativo per chi verrà poi. E lo facciamo con esuberanza intellettuale, elevando noi stessi a senatori della saggezza. Ma guardare avanti ora, dà la sensazione che non serva. Che il tempo sia passato mentre carriera e svaghi, ideologie e interessi privati sfilavano la vita come sabbia tra le dita. I nuovi giovani trovano il mondo che noi gli abbiamo lasciato e lo credono il solo possibile. Come accadeva a noi. Nessuno di loro è disponibile a rinunciare a quanto vede alla sua portata. Si affacciano al mondo dalla finestra delle loro brevi vite. Avvertono il potere che l’infanzia non gli permetteva. Iniziano ad interpretare e a credere e a credere di aver capito. Sono in un flusso che travolge loro e ciò che incontrano. Banalmente sono costretti a rispettare le spinte della loro biografia. Non lo sospettano ma sono repliche da sempre sulla scena del mondo. Parlano di novità. Ci mettono convinzione e determinazione. Dentro il ciclo dell’avanguardia avanzano impudichi di ciò che poi si pentiranno. Si risolleveranno però dal senso di colpa con un così va il mondo qualunque.
Questo è quanto la generazione in scadenza ha di fronte, o alle spalle se si preferisce. Il confronto è ad armi impari: il dialogo non ha terreno per divenire essere. Nonostante l’età – di una vita intera evidentemente trascorsa dentro la sterilità dei dogmi – ci si cilicia di accanimento intellettuale. Ci si appella alla ragione, che non sa evitare di richiamarsi al buon senso, impiegato come fosse un napalm d’intelligenza capace di azzerare le difficoltà di comunicazione. Ma è semplicemente incapace di riconoscere come stanno le cose: l’esperienza non è trasmissibile. Le nostre buone parole non saranno che ulteriori interruzioni generazionali, qualunque esse siano perché il medium è il vecchio e i giovani lo sentono. Nessuna ragione è mai bastata a raggiungere le profondità delle emozioni. Una schiuma dalla dinamica incontrollabile, dal centro soggettivo, che riempie i vasi fino all’ultimo capillare dei nuovi esploratori. Non resta che la coercizione e poi la compressione, quindi lo scontro e se possibile la soppressione. Ognuno di noi pieno di sé non è in grado di ricreare la filologia delle ragioni dell’altro. Dovremmo essere pieni di femminino, allora sì la relazione sussisterebbe, lo scontro si ridurrebbe. Continueremo a dileggiarle e criminalizzarle quelle ragioni diverse. Continueremo a ergerci a giudici di un mondo intero nonostante il nostro scranno galleggi su una corteccia tra le acque bianche dell’illusione. Azioni sobrie a nostro parere. Necessarie per alleviare il vuoto che ci separa dai nostri figli. Un abisso che abbiamo riempito di idee che avevamo credute rispettabili. Ma ora è chiaro, erano solo fatui fuochi di una vanità che, travestita di buone ragioni, sempre ci aveva guidato senza farsi sentire e riconoscere. Un mantello autoreferenziale di valori ne aveva sempre assorbito i rumori e gli umori.
Non resta che riconoscere che il mondo che chiamiamo realtà è solo una specie di punto di attenzione permanente. Non resta che riconoscere che la continuità reiterata delle nostre convinzioni perpetua i sentimenti con i quali a nostra insaputa costruiamo la storia, qualunque essa sia. Piccola, personale, grande, mondiale, universale. Abbiamo fatto di noi stessi una cosmogonia. Con noi stessi selezioniamo il mondo utile ai nostri destini e non ce siamo accorti, l’abbiamo chiamato scienza. Non resta che l’umiltà prima di morire dopo una vita spesa a cavallo dell’arroganza di quattro idee qualunque scambiate per autorevoli. Non resta che vedere quanto nel nostro piccolo ambito potevamo pure avere ragionevoli argomenti e, ora, paragonarlo a ciò che non avevamo ancora visto. Che non credevamo esistesse. Che non avevamo pensato. Non c’è che da scappare dalla vergogna d’essersi creduti chissà che. O anche solo qualcosa, con qualche diritto, con qualche dovere di dire la nostra, soprattutto se avessimo potuto farle seguire strascichi di dati e referenze titolate. Uomini, la cui missione è stata tradita da loro stessi: invece di andare oltre le infinite forme e trovare i pochi arcani hanno preferito moltiplicarle a propria immagine e somiglianza. E giù titoli e riconoscimenti accademici o che dir si voglia. Giù inchini a profusione e premi al migliore. Strati di autoreferenza scambiati per vita vera. Soldatini inquadrati sotto la propria bandiera. Radunati in piccoli e grandi eserciti a cui immolare la propria libertà dal conosciuto. Ma alla fine solo grotteschi e immondi soldatini di Enrico Baj. Altroché la mela di Eva. Ma lo spirito necessario per dubitare del sistema? Nulla di fatto. Comprato.
Era preferibile allungare le braccia verso il camion dei benefit. Pannocchie distribuite in un immenso campo profughi dalle tende insonorizzate e con la theatre tv.
Ora nell’ora della morte si sente la paura. Paura di una presenza che non avevamo avuto il tempo di ammettere o di considerare. Paura che mai avremmo se avessimo speso una vita in armonia con la natura, se avessimo saputo rifiutare le lodi e i binari della laurea. Quel passaggio verso la morte avverrebbe grandiosamente. Come grandiosi sarebbero stati i parti verso la vita. Nessuna meschinità ci farebbe tremare fino nelle ossa. Avverrebbe così che i nostri giovani avrebbero l’esempio che non hanno avuto. Che avrebbero il necessario per sapere che significa amare e armonia, e quanto povero sia credere che capire abbia maggior senso.