Una generazione in pentola
di Adriano Segatori - 02/04/2023
Fonte: Alma news
Jean Twenge, docente di psicologia all’Università di San Diego, da una ricerca tra il 2012 e 2015 sui bambini e gli adolescenti, coniò il termine di “fiocco di neve” per definire la
generazione formatasi sui computer, sui social e sull’illusione tecnologica.
Una generazione denervata, demotivata, sostanzialmente depotenziata nei desideri e nella volontà.
Cresciuta in una atmosfera di totale accudimento creata dagli adulti per uno snaturato intento di affetto e di bene, non ha potuto usufruire di quelli antigeni emotivi e di quelle intrusioni mentali che servono a stimolare e a potenziare il sistema immunitario psicologico.
Perché se c’è, in natura, un sistema immunitario biologico, esiste anche – purtroppo sottovalutato quando non ignorato – un sistema immunitario psichico che si costruisce dalla nascita, si rinforza durante l’infanzia e l’adolescenza, dà dimostrazione della propria efficienza e forza nell’età adulta.
Gli antigeni sono costituiti da frustrazioni, fallimenti, difficoltà, delusioni, insoddisfazioni che, se affrontate con giudizio e coerenza dagli adulti significativi – genitori ed insegnanti, ad esempio – servono a creare le basi per uno sviluppo equilibrato del carattere ed una strutturazione adeguata della personalità. Questi antigeni erano e sono approcci alla realtà commisurati all’età e allo sviluppo.
Un esempio per tutti degli errori psicologici è stata l’introduzione delle interrogazioni programmate, che introducono falsamente l’idea che il mondo debba essere necessariamente costante e sicuro nelle sue manifestazioni, escludendo quindi ogni incertezza, ogni idea di rischio, la minima eventualità di precarietà. E di aberrazioni educative si possono contare decine.
Invece di creare giovani e adulti forti e coraggiosi – e questa è la denuncia sostenuta da Crepet e da tutte le ricerche internazionali – si è plasmata una generazione debole, insicura e sostanzialmente impreparata ad affrontare la realtà: proprio come il fiocco di neve perfetto e impeccabile mentre volteggia nell’aria, ma che si scioglie toccando terra, simbolo concreto di una realtà che non perdona.
E così, mentre i disturbi psichici aumentano, e con essi le manifestazioni più estreme, dall’autolesionismo al suicidio al rifugio nelle dipendenze, cresce anche un’altra forma di chiusura, quella domestica.
Gli hikikomori – in giapponese significa “stare in disparte”, “defilarsi” – sembravano una patologia legata alla cultura nipponica, e invece sono tra noi, o meglio, fuori dal contesto sociale. Lontani da un mondo ritenuto incomprensibile, difficile da affrontare, ostile nella competitività, vivono già nel virtuale di una fisica realtà separata. Psichicamente anestetizzati, se non morti, sono stati generati da un accudimento patologico, da una idea malata di sicurezza, da un presupposto bacato di riparo dall’impegno e dalla fatica del vivere. E come l’inflazionata rana di Chomsky sono stati bolliti a puntino da un potere trasversale che non voleva più una gioventù ribelle e sovversiva, però benefattore di supporti psicologici per una resilienza impotente e innocua.