Una questione di tempo
di Pierluigi Fagan - 01/05/2022
Fonte: Pierluigi Fagan
Ricorre oggi la c.d. “festa dei lavoratori”. Questa data venne fissata a seguito di vicende su cui qui sorvoliamo, originatesi negli Stati Uniti, ai tempi della Rivoluzione industriale. Tali vicende presero forma di violenti scontri di piazza, attentati veri o presunti, arresti, condanne a morte. Tutto ciò seguiva l’idea di estendere a tutta l’America una legge fatta nell’Illinois nel 1866, appunto un secolo e mezzo fa. La legge prevedeva, per prima, la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore.
Sulle otto ore di lavoro al giorno si scontravano due interessi. Quelli degli imprenditori e loro logica detta capitalistica e quelli dei lavoratori. L’interesse dei lavoratori era semplicemente di tipo umano ovvero riservare otto ore per dormire, otto per lavorare, otto per tutto il resto. In quel “tutto il resto” si concentrava l’essenza umana. L’essenza umana, infatti, solo per ragioni biologiche ha bisogno di dormire otto ore, ma è questione del corpo immobile, quando dormiamo non siamo coscienti e non abbiamo relazioni tra noi e col mondo. Altresì, quando lavoriamo siamo coscienti ed in relazione ma in contesti e fini che non scegliamo liberamente. È la nostra convenzione sociale che determina il meccanismo per cui per far funzionare la vita associata e la stessa nostra al suo interno, vendiamo il nostro corpo e la nostra mente per un pacchetto di ore giornaliere, per giorni, mesi ed anni, fino a quando non lavoriamo più e poco dopo moriamo. C’è chi ne trae anche soddisfazione, materiale ed anche ideale, ma è spesso un far di necessità virtù, non è esattamente e convintamente per tutti una nostra scelta. Sicuramente non è una scelta libera.
Una libertà, per quanto relativa, è riservata alle altre, ultime, otto ore. Spesso, questo pacchetto di tempo in cui sfogare la nostra essenza umana è a sua volta limitato. C’è da curare la nostra persona, occuparsi di faccende domestiche, accudire i nostri amori ed affetti, andare e tornare dal lavoro, mangiare. Rimane un po’ di tempo, talvolta, per stordirci ovvero fare cose senza troppo impegno per distrarre la mente sovraccarica. Così ogni giorno, così più o meno per sempre. La nostra condizione umana così settata ai tempi moderni, riserva così da poco e per niente tempo per curare il nostro diritto primario.
Il nostro diritto primario è quello di esser soci di una società che richiederebbe tempo di attenzione ed azione come ogni socio riserva alla società di cui possiede diritti societari. Non solo è un diritto, ma sarebbe anche un dovere in quanto se non ci curiamo noi della nostra società non si vede chi altro dovrebbe curarsene. In realtà sono in molti a curarsene, ma ognuno di coloro che possono farlo lo fanno ovviamente nel loro interesse, nel loro disegno, non certo nel nostro, anche loro sono soci naturali come noi solo che, a differenza di noi, hanno modo di far valere quel diritto e noi no.
Dipendiamo non solo dal nostro corpo, dalla nostra rete sociale affettiva ed amicale, da coloro a cui abbiamo venduto un terzo del nostro tempo-vita, dipendiamo anche ma forse soprattutto dalla nostra società perché come tutti gli animali sociali, siamo vincolati al fatto che la nostra sfida adattativa al mondo la giochiamo in squadra che è appunto la società. Ma pur essendone soci naturali, non abbiamo sufficientemente tempo per occuparcene. Ciò determina la nostra condizione sociale. Quanto tempo hai dedicato a studiare il mondo intorno a te, quanto ne sai, da chi l’hai saputo, quante occasione hai di dire la tua, di confrontarti con altri, di discutere e con ciò apprendere da altri o aiutare altri ad apprendere. Così fino alla domanda finale che è l’essenza della politica: chi decide ed in base a cosa decide?
L’insieme di questa descrizione porta a molte distorsioni. Molti non hanno la più pallida idea della loro società e del mondo in cui questa è posta. A molti sfugge l’inestricabile complessità di tutto ciò. Questo provoca ansia che si somma al risentimento perché, nel frattempo, la nostra condizione sociale provoca molte contraddizioni, frustrazioni, problemi. Ci sono molti apparati, qualcuno li ha chiamati dispositivi o strutture, utili a deviare la nostra ansia e risentimento, utili come omeostatica del sistema sociale ovvero come farlo funzionare e mantenerlo in parziale equilibrio nonostante sia obiettivamente dotato di poco senso e perennemente disequilibrato. Tutto ciò ha un fine primario ovvero evitare in ogni modo noi si eserciti i nostri diritti naturali di socio di società. Occupatevi di tutto ma non della vostra società e questo perché così se ne può occupare chi ha interesse essa sia fatta così e non cosà.
La cosa è nota anche perché ha una sua banalità, come vedete è semplice sebbene porti poi a molta complessità emergente dai suoi funzionamenti. In ciò, dispiace notare come molti di coloro che si sono potuti dedicare a questo problema comune a noi tutti, almeno quelli che se ne sono occupati dal punto di vista comune di coloro che subiscono questo ordine disequilibrato che gli stessi definiscono “ingiusto”, abbiano fatto tanti tentativi di sovvertirlo, ma evitando la strada più semplice. Risuona qui un detto di Bertold Brecht “è il semplice che è difficile a farsi”.
La via più semplice e tuttavia più evidentemente difficile a seguire, è in quel risultato ottenuto nell’Illinois un secolo e mezzo fa: diminuire il tempo di lavoro per investirlo in tempo per esercitare i nostri diritti societari naturali. C’è stata una implicita sfiducia nella capacità umana di poter decidere per sé il proprio meglio, anche da parte di quei pochi che hanno avuto il loro tempo per studiare la faccenda e pur animati da buoni intenti di aiuto agli altri meno fortunati che quel tempo non l’hanno avuto, l’hanno sprecato.
Diceva un filosofo che il compito della filosofia dovrebbe essere aiutare la mosca ad uscire dalla bottiglia. La mosca vuole volare libera, vede la libertà davanti a sé attraverso la trasparenza del vetro, ma quando cerca di accedervi sbatte contro qualcosa di duro ed impenetrabile. L’attività umana più nobile ovvero il pensiero del pensiero dovrebbe aiutare a trovare la soluzione ovvero quel piccolo foro che unico, fa uscire dalla prigione trasparente, che è poi quello in cui incautamente si è attraversato finendo nella prigione.
Ma così, fino ad oggi, non è stato. Abbiamo diverse teorie emancipative, ma hanno tutte un difetto fondamentale. Il difetto fondamentale è che per praticare qualsiasi di esse, si deve presupporre una massa sociale, altri con cui praticarle, altri con cui fare fronte comune, ci si emancipa in gruppo non da soli. Per cambiare l’ordine sociale, si deve comunque formare una massa critica in grado di incidere nelle decisioni dell’assemblea dei soci. Per farlo però, ci vorrebbe il tempo. Tempo per leggere, studiare, discutere, dibattere, cambiare idea e farla cambiare ad altri, organizzarsi, trovare il modo stesso di come organizzarsi stante che non è facile (a partire dal ricatto dei soldi, servono soldi per fare qualsiasi cosa nella nostra forma di società, quel “il tempo è denaro” che è la formula stessa del nostro ordine sociale), rendersi immuni dalla potenza di fuoco contrario che può contare su enormi capacità ed armi da usare per convincere i nostri stessi simili delle più assurde assurdità in modo siano loro ad avversare i nostri progetti emancipativi che pure converrebbero pure a loro.
Noi siamo animali intenzionali, per uscire dalla bottiglia ci vuole l’intenzione e la conoscenza, la conoscenza si nutre di tempo, non averlo ci porterà per l’eternità a sbattere contro il vetro.
Un secolo e mezzo è tanto tempo, ma la questione umana-sociale è sempre là in quella intuizione dei lavoratori americani intenzionati dalle prime teorie politiche emancipative: riprendersi il proprio tempo. Tempo come condizione di possibilità necessaria senza la quale ogni altra condizione, intenzione, progetto su noi e sul mondo non può avere soddisfazione. Tempo da investire nell’esercitare il nostro naturale diritto-dovere di soci naturali di società. Interesse questo personale, ma legato giocoforza ad una rivendicazione sociale, fatta in società.
Speriamo di non dover buttare via un altro secolo e mezzo prima di capirlo. Anche perché il tempo, per noi, ha questa antipatica abitudine, ad un certo punto finisce.