Una rivoluzione geometrica
di Stefano De Rosa - 27/05/2023
Fonte: Italicum
L’introduzione del sistema maggioritario nel 1993, imposta da una spinta moralizzatrice antipolitica, pretendeva in modo surrettizio di sovrapporre concettualmente, da un lato, il proporzionalismo elettorale e la rappresentatività e, dall’altro, il maggioritario e la governabilità. Dopo 30 anni, sappiamo che le cose sono andate diversamente. Le interruzioni dei governi Berlusconi (1994 e 2011), Prodi (1998 e 2008), Letta (2014), Conte (2019 e 2021) costituiscono prove inconfutabili del fallimento della retorica maggioritaria che non ha garantito la governabilità.
Gli insuccessi strutturali del maggioritario – con ribaltoni, “golpe” pilotati, cambi di casacca giustificati dal divieto dell’obbligo di mandato – si sono incaricati di dimostrare non l’inefficacia di un sistema elettorale funzionante in altre realtà più consolidate, bensì l’inapplicabilità di una asserita proprietà taumaturgica alla realtà italiana.
Preso atto di ciò, quel che si vuole qui proporre è una integrazione della dialettica destra-sinistra: essa normalmente viene dispiegata come un continuum di punti collocati lungo una linea con agli antipodi le posizioni estreme di sinistra e di destra che rispondono – ecco il nocciolo – a temi esclusivamente politici (es. immigrazione, sicurezza, geopolitica, bioetica, relazioni internazionali).
L’integrazione consiste nell’aggiungere l’altro fondamentale criterio in grado di dividere le posizioni tra una sinistra e una destra: l’elemento economico. Anche l’aspetto economico, cioè, va coniugato alle dialettiche posizioni di destra e di sinistra. Da un punto di vista topologico, il risultato ottenuto consiste nel passare, quindi, da una retta ad una superficie, un piano cartesiano dove l’asse delle x misura da sinistra a destra le posizioni politiche e l’asse delle y misura dal basso (la sinistra) verso l’alto (la destra) quelle economiche.
Tale passaggio meta-politico dalla retta al piano presenta l’indubbio merito di meglio evidenziare una molteplicità di posizioni che l’approccio lineare finisce per occultare o marginalizzare, nonché di renderle più riconoscibili (e preferibili) dal corpo elettorale. Infatti – e qui veniamo all’oggetto del nostro intervento – la riconduzione delle questioni politiche ed economiche alle dimore di destra e di sinistra permette di definire quattro aree sul piano cartesiano. Quattro poli di attrazione ai quali riferire, grosso modo, le sensibilità politico-partitiche, ferme restando le numerose posizioni intermedie, soprattutto quelle collocate sui rispettivi crinali di separazione.
Iniziando il nostro percorso in senso orario, la prima area (o quadrante) in basso a sinistra è occupata da soggetti politicamente ed economicamente di sinistra. Qui troviamo gli epigoni dell’egualitarismo del merito e dei risultati, dell’immigrazione ideologicamente intesa come arricchimento, del meticciato etnico e culturale, della bioetica à-la-carte, dell’eskimo in redazione, dell’indiscriminata equidistribuzione delle ricchezze personali e dei popoli, dell’appiattimento retributivo, dell’antagonismo e dell’invidia sociale, della ricchezza come colpa. È qui che il destino coincide con l’utopia egualitaria.
Nel secondo quadrante in alto a sinistra troviamo i soggetti politicamente di sinistra, ma con il portafogli a destra. È l’area ove maggiore è la concentrazione di potere, di affarismo e di coscienze rese immacolate dalla tessera di partito giusta. È il tempio dei cosiddetti poteri forti, dalle grandi banche alle industrie, dai gruppi editoriali progressisti all’intellettualismo militante, dagli chef stellati ai registi “impegnati”, passando per cattedre universitarie utilizzate come intolleranti sezioni del partito della decostruzione woke. È l’area dove si confondono i costosi desideri con i diritti civili ad esercizio individuale. È qui che si abitano i quartieri ZTElly, con un occhio all’armocromia senza però abbandonare la più prosaica armocrazia.
È, insomma, il luogo d’elezione – nella doppia accezione del termine – della casta dirigente, dei tanti proni alla dittatura della globalizzazione, i quali da essa – sia in termini economico-finanziari sia socio-culturali – traggono vantaggi e privilegi. È il luogo per eccellenza agli antipodi dei valori identitari e comunitari, percepiti – questi ultimi – come fastidiosi ed ingombranti fardelli del passato ed ostacoli per il futuro.
Nella terza area in alto a destra trovano posizione soggetti politicamente ed economicamente di destra. Si tratta dell’ambito dove perbenismo di facciata e benessere sono intrecciati da una fitta rete di relazioni sociali e chiusure mentali, dove tradizione ed affari si puntellano vicendevolmente, spesso sotto il comodo riparo di un associazionismo partitico o religioso. È un’area che combatte a parole una globalizzazione che erode porzioni di sovranità politica e culturale, ma che con essa conclude affari, traendo ingenti profitti dalla corsa al ribasso dei diritti sociali e dal dumping fiscale. È l’area – al pari della seconda – incline alle sirene atlantiste ed europeiste, insofferente alle ragioni sindacali o alla critica del neoliberismo.
Il quarto quadrante in basso a destra è occupato da soggetti politicamente di destra ed economicamente di sinistra. È l’area caratterizzata dalla gerarchia dei valori – a cominciare da quella dell’intelletto –, dalla tutela del merito, dalla preminenza dell’etica, dal senso dello Stato, dall’affermazione del primato identitario e comunitario, dalla rivendicazione di sovranità politica ed economica, dalla condanna delle dittature sovranazionali, dall’auspicato posizionamento dell’economia sotto il controllo della politica, dall’attenzione al lavoro e alla sua difesa contro gli attacchi delle speculazioni finanziarie, dalla tutela dei diritti sociali conquistati dai lavoratori, dalla protezione del risparmio nazionale contro l’affarismo dei banchieri, dall’attuazione di modelli partecipativi, dalla solidarietà intergenerazionale.
È, insomma, l’area della sensibilità sociale e sindacale, della coniugazione di una sana concorrenza economica temperata dall’azione delle categorie. Che, coerentemente, riconosce al CNEL la funzione primaria di custodia della competenza, della professionalità, della rappresentanza degli interessi e delle istanze del mondo della produzione e del lavoro.
La quadripartizione dell’agone politico-economico che abbiamo proposto consente sinteticamente di cogliere con nettezza alcune dinamiche altrimenti meno comprensibili. Poiché il secondo quadrante può essere validamente reputato l’area funzionale alla diffusione del pensiero unico e del neoliberismo – e, quindi, allo smantellamento delle sovranità politiche ed economiche nazionali – esso finisce per esercitare un irresistibile richiamo dalle aree limitrofe, la prima e la terza.
Trovandosi il quarto agli antipodi del secondo quadrante – il vero avversario con cui misurarsi – compito dell’azione identitaria e comunitaria sarebbe, allora, quello di svolgere una efficace azione magnetica di segno opposto: forte del suo patrimonio ideale, dovrebbe cercare di attrarre consenso dal primo quadrante su condivisi argomenti economico-laboristi di opposizione alla dittatura della finanza e all’egemonia neoliberista. Analogo approccio dovrebbe coinvolgere il terzo quadrante, stavolta su temi politici quali, ad esempio, la difesa dell’identità culturale nazionale, la lotta all’immigrazione disordinata, la salvaguardia di territori e popolazioni dall’impianto federalista.
Soltanto attraverso questa “contaminazione attiva”, il quarto quadrante – che potrebbe configurarsi graficamente come il cono inferiore di una clessidra (essendo quello superiore costituito dalla seconda area) – potrebbe accogliere, nel tempo, il consenso proveniente dalla prima e dalla terza area e così conseguire l’auspicato svuotamento progressivo del cono superiore. Alla politica e all’economia sinora considerate si potrebbe aggiungere un altro elemento: la cultura. È proprio il quarto quadrante, difatti, quello che meglio può coniugarsi alla funzione qualitativa di una cultura non conformista, una cultura rispettosa della ricchezza della tradizione, una cultura critica verso le degenerazioni della politica e dell’economia, verso la mediocrità e l’omologazione del mainstream.
Un solo spunto di riflessione si vuole proporre: le recenti vicende del Salone del libro di Torino. L’irruzione di un gruppo di sedicenti femministe invasate da teorie gender che impedisce la presentazione del libro del ministro Eugenia Roccella non è soltanto un episodio di inaudita gravità in una pseudo-democrazia a disagio con chi non condivide l’unica vulgata ammessa.
A prescindere dalle idee del ministro, ciò che è più pericoloso e che ben rappresenta il livello di degrado morale dei corifei del pensiero dominante è invece il comportamento ignavo del direttore del Salone – che non vale neppure la pena di nominare – incapace di condannare la violenza femminista e ben lieto di acquisire, in un promettente gioco di specchi, benemerenze antifasciste per futuri incarichi “culturali”, dopo essersi già fatto notare nel 2019 per aver estromesso dal medesimo Salone la casa editrice Altaforte.
Impedire il confronto delle idee, sottrarre il diritto di parola ad un ministro della Repubblica è squadrismo da anni Venti del XXI secolo, molto più pericoloso di quello di cent’anni fa, poiché beneficia – questo – di complicità culturali e coperture mediatiche radicate in sovrastrutture sociali difficili da smantellare. Si tratta di incrostazioni mentali che non possono essere rimosse con un voto politico o con lo spoils system. Per bonificare l’egemonia culturale al potere da ottant’anni, negata da chi la esercita, occorreranno decenni.
Analogo è l’ostracismo preventivo e fuorviante che ha colpito Alain de Benoist, libero pensatore e saggista francese, reo di presentare, sempre al Salone di Torino, il suo libro, “La scomparsa dell’identità”. Un affronto che gli zelanti custodi del recinto ideologico e dell’egemonia dell’informazione non potevano tollerare. Non si può, allora, non rilevare che chi, senza conoscerlo, critica de Benoist – colui che da oltre quarant’anni presidia posizioni “oltre l’Occidente”, denuncia la perdita di memoria storica, nonché “la rottura tra l’opinione pubblica e la classe politica di tutte le tendenze, tra la sinistra e il popolo, cioè tra la sinistra e il socialismo, e tra la democrazia e il liberalismo” (“élements”, febbraio-marzo 2023, in “Diorama letterario”, marzo-aprile 2023, p. 4) – si dichiara cartina di tornasole della falsità e della connivenza tra capitalismo apolide, comunismo, uni-versalismo, estremismo ambientale, oligarchie finanziarie, deliri razziali dell’ideologia woke, transumanesimo, profanazione della natura, censura delle idee, cancel culture, demonizzazione e discriminazione dell’avversario, violenza intellettuale.
Ce n’è abbastanza per sostenere che la battaglia culturale da intraprendere è lunga e non facile. Per semplificare con una formula, ci permettiamo di individuare in quel percorso ideologico da Gobetti a Gramsci, che non ammette dissenso, il filone al quale opporsi. È dalla rivendicazione di un Risorgimento liberale e massonico incarnazione di un antifascismo intransigente che si giunge all’analisi gramsciana sulla struttura politica e culturale della società, con il fulcro incentrato sul concetto di egemonia di un gruppo sociale da esercitare sull’intera società.
Prendere le distanze dall’Occidente razionalista erede dei Lumi ed evitare le sirene liberal-progressiste e liberal-conservatrici – assieme alla logica egemonica di matrice marx-gramsciana che le sottende – deve costituire l’impegno per impedire di immolare e disperdere un patrimonio di valori politici, economici e culturali sull’altare della presentabilità talassocratica.