Una via con il cuore
di Lorenzo Merlo - 23/06/2024
Fonte: Lorenzo Merlo
In nome della scienza e del materialismo abbiamo generato una cultura senza cuore. Ma il potere infinito che è in noi non può essere reciso da noi stessi. Almeno finché qualcuno, sempre in nome del progresso, non ci muterà in replicanti.
Egocentrismo
L’egocentrismo affonda le sue radici nella concezione della realtà come esterna a sé. Una verità scientista per la quale ne paghiamo tutti le conseguenze. L’io concepito alla stregua di noi stessi, riteniamo sia il confine di noi rispetto al mondo esterno, all’altro. Il problema monta quando anche l’altro concepisce se stesso e il mondo alla medesima maniera. Saremmo dunque monadi che percorrono le vie dell’esistenza secondo un ordine da noi stabilito o – per altri, all’opposto – secondo ordini di forze superiori, comunque inconoscibili ed esterne, nei confronti delle quali non possiamo nulla.
Un bel colpo al cerchio della botte egocentrica lo ha dato De Cartes. Il suo binomio, res cogitans e res extensa, sebbene sorto per dire che il mondo si genera dal pensiero in poi, di fatto, ha finito per sancire e patrocinare la separazione della dimensione metafisica da quella fisica. Una vera e propria boa culturale, intorno alla quale tutti hanno virato per andare a prendere la poppa e veleggiare sospinti dal vento illuminista ovvero, attestare definitivamente il suprematismo razionalista, la indiscussa verità esclusiva ed assoluta della modalità di ricerca analitico-materialista della realtà e, quindi, la concezione meccanicista del mondo, del sapere, della vita, dell’uomo. Un vento fresco al quale nessun capitano ha ritenuto di rinunciare, convinto che lo avrebbe condotto verso i lidi della conoscenza. Come biasimarlo? L’uomo esplora forse per definizione: non avrebbe potuto restare in porto o limitarsi a navigare le rotte già note. Quella analitico-materialista era la novità e, in quanto tale, portava in sé la dote della sua stessa legittimazione, cioè le ragioni storiche di essere avvenuta. Il punto dunque non è lei ma un altro, ed è forse giunto il momento per avvedersene. Quel suprematismo culturale ha inquinato i pensieri degli uomini fin dal loro insorgere, ha ridotto il loro potere creativo, infinitamente più ampio di quello ristretto nel piccolo campetto di gioco della logica, estremamente più idoneo a fagli vivere una vita libera dai gioghi del produttivismo.
In termini meno evidenti ma più profondi, ha reciso il legame con l’origine, con il tutto. Ha gettato via il senso del sacro, come si butta un oggetto di cui non sappiamo la storia, con il quale non abbiamo legami affettivi, che non rappresenta per noi altro che un’inutilità, un ingombro, un imbarazzo.
La vulgata illuminista – ben lontana dall’idea kantiana, la quale aveva solo precisato il valore e il potere del razionalismo, senza alcun intento di renderlo tsunamico nei confronti del pensiero storico delle culture che lo avevano preceduto – non è stata l’ultima a scolpire nella roccia della verità l’idea della separazione degli oggetti del mondo. A celebrare l’egocentrismo oggi sovrapponibile all’individualismo, dopo l’epopea dei lumi si è succeduta quella del capitalismo, quindi quella del liberismo, poi quella della scienza – che sarebbe meglio chiamare tecnologia – e, finalmente, ad oggi, il digitale e il culto dell’intelligenza artificiale, quali espressioni del futuro anelato, in quanto ancora vendute-imposte-concepite come progresso. Tutti elementi dai confini osmotici, caratterizzata dalla coerenza di concezione materialista del mondo e dell’esistenza.
Ma ancora una volta, non ci sarebbe problema se tutta quest’onda, ultimamente incarnata dal there is no alternative – una formula che implica anche il bellicoso tentativo di restare a galla del capitalismo occidentale – non comportasse una crescente distanza dell’uomo dalla sua natura, dalla sua potenza, dal suo benessere.
Se la guerra è ineludibilmente legata all’avidità da un lato e all’umiliazione dall’altro, è su questi aspetti che l’educazione e la politica dovrebbero soffermarsi.
Basta guardare gli ultimi secoli di storia, detta progresso dai fuochisti del treno su cui stiamo viaggiando, per riscontrare quanto la politica non abbia risolto un solo problema, fatto eccezione per quelli funzionali al potere e alla sua crescita materiale. Perfino la salute delle persone è finita ad essere merce da mercato, regolata dal profitto economico. Più fame, più bolsi, più disoccupati, più alienati, più malati, più vecchi, più consumi, più tristezza, più rassegnazione, più lontani dall’esistenza che i beni materiali non possono sostituire, meno forza interiore, più valori effimeri, più dipendenze, più appropriazione di valori da ritenersi in diritto di guerra nei confronti di chi ne ha altri, più violenza, più frustrazione, più psicopatologie e malattie serie in crescendo da rampa di lancio verso la morte di tutti, più intellettualismo e zero ascolto. Tutti in terapia – un’altra dipendenza – a cominciare da quelli che qualcuno sta ancora andando a votare.
Il Tutto
Tra tutti gli elementi di quell’elenco progressista appena enumerato, scegliendo “più dipendenze” il tempo e il discorso recedono al momento che ha preceduto il getto a mare del bambino con l’acqua sporca. Più dipendenza ci riporta al punto in cui, nell’incantesimo d’aver trovato la via illuminante nell’intelligenza razionalista-cognitiva, non abbiamo esitato a credere d’esserci liberati dai mostri del passato bigotto e superstizioso e dalla natura finalmente assoggettabile ai desiderata del capitale. Ma le superstizioni del passato sono state sostituite da quelle intoccabili del presente, e quella natura a differenza dell’industria non genera scarti e ha in sé il criterio, per nulla artefatto, del riciclo. Ciò che fa quella natura – che stiamo fustigando in un divertimento aguzzino – è sempre entro la realizzazione dell’intero e nel rispetto del Tutto. Non di una parte, secondo volubili vezzi e vizi arbitrari di un mondo considerato separato e altro da noi. Il momento della dipendenza è stato quello in cui abbiamo perso la via con un cuore a favore di quella vanesia degli interessi personali.
Nell’acqua sporca di cui ci siamo liberati per dedicarci al progresso materiale, c’era il necessario per sostenere una stirpe culturale foriera di evoluzione esistenziale fondata sulla forza emozionale autoguaritrice e il suo potere di essere seme di conoscenza e consapevolezza. La cui negazione in noi ci porta alla malinconia, alla vulnerabilità, al diritto del rancore e della vendetta e alla malattia. Avvertire e riconoscere in noi questo potere, valorizzarlo nell’educazione e nella politica, ci porterebbe a costruire società che con l’attuale non avrebbero nulla a che vedere.
La dipendenza dall’egocentrismo è il perfetto antidoto ad una evoluzione individuale. Quando questa avviene però, si osserva con orrore ciò a cui ci eravamo abituati, ciò che ci faceva sentire intrappolati. Ma evolvere è proprio divenire capaci di vedere come siamo caduti nell’abitudine e nella dipendenza dell’orwelliana società, estranea a quasi tutto il genere umano. Ed è anche prendere coscienza su come emanciparci da tanta aberrazione, per ritornare a noi stessi, per evitare gli esiti esiziali dei suoi valori. Uno stato di sofferenza è un’eventualità sempre imminente che ci attende percorrendo vie senza cuore, come lo sono quelle della vanità e dell’orgoglio. E ogni sofferenza vissuta egocentricamente, cioè non come sofferenza di tutti gli uomini o cristica, non ha mai in sé doti evolutive. Nell’acqua sporca che abbiamo gettato c’era il potere di conoscenza e liberazione dell’amore, arcano numero uno. Buttato perché la scienza non aveva detto di tenerlo, curarlo, coltivarlo.
Un potere che non ha bisogno d’essere studiato, Professori e abecedari, master e lodi non servono a nulla a ciò che vive silente sotto la superficie di tutti noi. Nessuna università potrà essere al nostro pari nel riconoscere che non c’è evoluzione senza riconoscere noi stessi all’origine di ogni dolore. È questa la scuola aperta a tutti, senza numero chiuso, né abbagli meritocratici, della quale possiamo godere. Osservando che chi non la frequenta, cioè chi non dà alle proprie sofferenze una evidente insegnamento non evolve, ovvero resta nel suo egocentrismo e sprofonda ancora di più.
Senza un’evoluzione individuale non vediamo l’origine delle emozioni, non sappiamo confrontarci con esse che diventano gomitoli di lana in mano a cuccioli di gatto, cioè incidenti frontali. Sono relazioni infernali. Vita invivibile. Sono i prodromi della cosiddetta pazzia, permanete instabilità e dipendenza, questa volta sì, da una forza superiore e ignota a noi.
Una cultura che abbia in sé l’uomo, e non solo la sua avidità o pusillanimità, comporterebbe l’evidenza che in certi terreni il seme cresce e che in altri no. Allora la modalità meccanicistica di intendere il prossimo, la gerarchia moralistica con il quale lo giudichiamo verrebbe meno a favore del rispetto e di un criterio sociale libero dal monopolio produttivistico, un criterio con un cuore.