USA, Russia, Cina: un mondo amputato dell’Europa. Trump è americano, non occidentale
di Luigi Tedeschi - 10/03/2025
Fonte: Italicum
La presidenza Trump non rappresenta una svolta storica, né tantomeno una rivoluzione. Le violente esternazioni di Trump si configurano come un fenomeno mediatico atto a creare una immagine esaltata e roboante del primato della superpotenza americana nel mondo.
E’ del tutto evidente la continuità della politica trumpiana rispetto alle precedenti presidenze. Da Obama in poi, passando per Trump 1 e Biden, è progressivamente scomparsa l’immagine degli USA come “gendarme del mondo”, venendo meno l’impegno militare diretto nei conflitti locali. Si è sempre più accentuato il protezionismo economico americano, che ha sancito la fine dell’era della globalizzazione ed è stata ininterrottamente perseguita una politica di contrasto all’immigrazione. L’avvento di Trump non inaugura una nuova era, rappresenta semmai la fase terminale di un processo di trasformazione della strategia di dominio della superpotenza americana nel mondo.
Trump ha però gettato la maschera ideologica umanitaria, democratica e globalista con cui gli USA hanno in passato legittimato il loro imperialismo: l’espansionismo inteso come americanizzazione del mondo, sotto le mentite spoglie della esportazione della democrazia e dei diritti umani. L’America appare oggi agli occhi di tutti nella sua realtà di superpotenza militare, economica e politica che non cela più la sua innata aggressività.
Con Trump non viene meno l’eccezionalismo americano ma l’universalismo, che concepiva l’America come un modello da estendere su scala globale. Con l’America First viene semmai esaltato l’eccezionalismo americano e il suo primato, con le sue basi teologico – veterotestamentarie, sulle ceneri di un universalismo il cui fallimento ha generato una profonda crisi di identità nel popolo americano. All’unilateralismo americano, impostosi dopo la dissoluzione dell’URSS, ha fatto riscontro un ordine globale rivelatosi insostenibile per gli USA.
La governance mondiale degli USA ha comportato una sovraesposizione militare americana nel mondo, che ha prodotto solo continue sconfitte e generato profonde frustrazioni e fratture in un popolo che ormai non crede più nel mito del primato americano. Aggiungasi poi che il sistema neoliberista globale ha deindustrializzato l’America, distrutto il ceto medio, esasperato le diseguaglianze, abolito la mobilità sociale e minato la credibilità delle istituzioni democratiche, con le sue degenerazioni elitarie. L’elezione di Trump è stata determinata dalla fine del “sogno americano”.
L’eccezionalismo americano si configura oggi come rivendicazione di una identità originaria dell’America, quale “Fortezza America”. L’America trumpiana non è però isolazionista, ma vuole affermare il suo primato mondiale quale “Fortezza America”, istaurando una deterrenza tale da rendere la superpotenza impenetrabile ed inattaccabile da potenze ostili.
In tale ottica devono essere interpretate le affermazioni di Trump relative all’acquisto della Groenlandia, l’annessione del Canada e del Canale di Panama, quali territori di essenziale rilevanza strategica ed economica, necessari a preservare le rotte artiche e l’area del Pacifico dalla penetrazione russa e cinese. Per quanto concerne il Messico, al di là del contrasto all’immigrazione e al narcotraffico, Trump vuole innalzare barriere protettive contro l’invasione di masse ispaniche rivelatesi non assimilabili al modello anglosassone americano. E’ chiaro pertanto l’intento di preservare l’identità wasp a sfondo razziale degli USA. Trump è americano, non occidentale, né tantomeno atlantico. Il primato anglosassone è connaturato alla “Fortezza America” ed è suscettibile di estendersi a Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda e Australia: potrebbe prefigurarsi una confederazione anglosassone che abbia come epicentro gli USA.
Nell’era Trump, si assisterà alla rinascita dell’America o al suo fatale declino? Il mito teologico del destino manifesto, che costituisce il valore originario fondativo degli USA e che ha presieduto alla loro ascesa a potenza mondiale, contiene in sé anche i germi della loro dissoluzione, nella misura in cui ha generato un unilateralismo culturale che ha reso gli americani incapaci di conoscere l’altro da sé, di comprendere la diversità delle altre civiltà e dei loro valori. L’America ha una innata predisposizione a creare i propri nemici. Afferma a tal riguardo Lucio Caracciolo nell’editoriale del numero 1/2025 di “Limes”, intitolato “La Grande Componenda”: “Il rischio dell’America non è il declino, è il crollo. Perché fissata su se stessa si sta alienando il mondo. Mentre controlla compulsiva la febbre, dimentica che la sua salute è sempre relativa a quella dei rivali in movimento lungo le proprie traiettorie” …. “Quando l’America accetterà di non negoziare solo con se stessa, capirà che la prepotenza genera resistenza perché esistono culture e interessi diversi dai propri”.
Trump con la politica di dazi vuole riconfigurare il sistema economico. Mediante i dazi, Trump vuole ridurre il deficit commerciale che ha raggiunto nel 2023 i 1.151 miliardi e al contempo, reindustrializzare un paese che, a causa delle delocalizzazioni, ha visto il venir meno del suo primato nella produzione manifatturiera. L’America sconta le conseguenze della globalizzazione, che ha comportato il trasferimento dei settori produttivi a basso valore aggiunto in Cina e altri paesi con manodopera a basso costo.
E’ tuttavia assai problematico che con la politica dei dazi possa realizzarsi la reindustrializzazione dell’America. I dazi producono inflazione, incidendo specialmente sui redditi di quelle classi disagiate già impoverite, che hanno sostento Trump alle elezioni. Occorre rilevare che, data l’integrazione economica del mondo, molti beni vengono prodotti in altri paesi per essere poi assemblati negli USA. Pertanto il sottoporre a dazi le importazioni da Messico e Canada potrebbe penalizzare le imprese americane. La reindustrializzazione comporta tempi lunghi e i suoi risultati sono incerti, data la rilevante quota di investimenti che essa richiede, a fronte di un tasso di risparmio americano assai esiguo. Inoltre, la rilocalizzazione delle imprese già emigrate in Cina, si presenta assai problematica data la difficoltà di riprodurre in patria le catene di valore di imprese stabilitesi in una Cina dotata di tecniche produttive più avanzate e a costi inferiori. Gli USA non dispongono nemmeno di sufficiente manodopera specializzata per la manutenzione, che occorrerebbe importare.
Il primato americano si identifica con lo status del dollaro quale valuta di riserva nel mondo. Dagli anni ’90, la liberalizzazione degli scambi e l’avanzata del progresso tecnologico, hanno dato luogo ad un vorticoso incremento delle transazioni e l’imporsi di una economia finanziaria che ha fagocitato l’economia reale. La centralità del dollaro genera flussi di investimenti nei mercati finanziari americani che si rivelano essenziali per sopperire ai disavanzi delle partite correnti e sostenere l’abnorme debito pubblico americano, che nel 2024 ha superato la soglia dei 36.000 miliardi.
E’ la funzione di valuta di riserva mondiale del dollaro a produrre il deficit della bilancia dei pagamenti americana. Secondo una teoria economica denominata “Dilemma di Triffin”, un paese che emette una moneta internazionale è esposto necessariamente ai disavanzi delle partite correnti, data la forte domanda della valuta di riserva. Non è nemmeno ipotizzabile che il disavanzo possa determinare una svalutazione del dollaro che, incrementando l’export, possa in qualche modo compensare il deficit, data l’incontenibile domanda mondiale di dollari sempre crescente. Ed è proprio la forza del dollaro (che con i dazi si incrementerebbe), a favorire l’export negli USA ed impedire la riduzione del deficit.
Pertanto, occorre concludere che le politiche trumpiane incentrate sui dazi sono destinate a fallire, sia per quanto riguarda la riduzione dei disavanzi che i piani di reindustrializzazione. La politica dei dazi può semmai preservare il primato del dollaro, con la minaccia di imporre dazi del 100% nei confronti dei paesi del BRICS che non facciano uso del dollaro negli scambi internazionali, contrastando quindi il processo di dedollarizzazione in atto. Con la minaccia dei dazi Trump può inoltre esercitare pressioni sull’Europa al fine di costringerla ad incrementare le importazioni energetiche e di armamenti.
Per risanare il deficit, gli USA dovrebbero effettuare una radicale trasformazione del sistema neoliberista incentrato sulla finanziarizzazione dell’economia, riproponendo il modello keynesiano, con grandi investimenti pubblici nella produzione e incentivi alla domanda interna. Ma una simile trasformazione del sistema economico non è nelle intenzioni né nelle possibilità di Trump. L’ascesa di Trump deriva da conflitti interni al sistema neoliberista, in cui si scontrano gli interessi contrapposti dei Big dell’economia e della finanza e a decidere in ultima istanza sono i Big Three, cioè i grandi fondi di investimento (BlackRock, Vanguard, State Street).
La crisi di un capitalismo dilaniato dalle contraddizioni interne è ormai evidente. Gli USA sono un paese deindustrializzato, la cui sussistenza è legata al primato del dollaro: una economia finanziaria che esporta servizi e sopravvive erogando moneta. Trump o non Trump, la crisi del sistema neoliberista è irreversibile.
La Cina è cosciente della propria potenza
Trump vuole porre fine ai conflitti che tuttora coinvolgono gli USA in Ucraina e Medio Oriente, per poi affrontare la Cina, suo principale competitor economico e rivale strategico nell’Indo Pacifico.
La minaccia di imporre nuovi dazi ha provocato una dura reazione della Cina, che ha adottato analoghe contromisure protezionistiche sulle importazioni americane di materie prime, macchinari e auto. La reazione cinese ha avuto pesanti ripercussioni sulle borse americane. In realtà gli USA si rivelano impreparati al confronto sia tecnologico che industriale con la Cina. Il lancio del modello R1 cinese nel campo dell’I.A., che ha fatto crollare in borsa Nvidia, ne è la evidente dimostrazione.
E’ prevedibile che, al di là delle eclatanti esternazioni di Trump, la politica dei dazi USA verso la Cina sarà assai più cauta. La Cina infatti potrebbe reagire ai dazi di Trump rivolgendosi ad altri fornitori. Potrebbe incrementare le forniture energetiche russe, contrastando in tal modo il riavvicinamento in atto tra Trump e Putin.
Ma soprattutto occorre tener conto che, data la interdipendenza economica consolidata tra Cina e USA, le importazioni cinesi sono troppo importanti per sostenere la domanda interna americana. Trump, tra l’altro, vuole preservare il primato degli USA come “compratore in ultima istanza”, necessario a sostenere la domanda globale. Non si vede infine come gli USA possano produrre senza le importazioni cinesi.
E’ già in atto una guerra sia commerciale che finanziaria tra Cina e USA, la cui posta in gioco è il primato del dollaro come moneta di scambio internazionale. La politica di dedollarizzazione dell’economia mondiale intrapresa dai BRICS è appena agli inizi e non è stato finora istituito un sistema monetario alternativo al dollaro.
Pertanto la Cina ha implementato una strategia di contrasto alla valuta USA con l’emissione di titoli in dollari al fine di istituire un corso del dollaro al di fuori dei mercati finanziari americani. Di recente l’Arabia Saudita ha erogato un prestito in dollari alla Cina a tassi inferiori a quelli praticati dalla Fed.
La Cina, preso atto della impossibilità di sostituire il dollaro, persegue una politica di riciclaggio dei flussi di dollari provenienti dai titoli cinesi investiti nel debito pubblico americano, che alla loro scadenza vengono reinvestiti in operazioni in dollari esterne ai circuiti americani. Gli stessi avanzi dell’export dei BRICS in Occidente, vengono reinvestiti in dollari per effettuare operazioni in valute locali.
Ma soprattutto la Cina, manipolando il corso del dollaro, vuole instaurare una concorrenza con gli USA sui tassi di interesse, che la Fed dovrà mantenere necessariamente elevati, col risultato di aggravare la spesa per interessi sul debito americano. La Cina vuole creare un mercato parallelo del dollaro, con l’intento di deviare gli investimenti finanziari che oggi affluiscono nei mercati americani. Tali flussi sono di importanza vitale per gli USA, per contenere il deficit commerciale con l’estero e sostenere il debito pubblico. Il venir meno di tali flussi, determinerebbe il crollo della stessa potenza finanziaria americana. Quella cinese è una strategia finanziaria a lungo termine con importanti ricadute nella geopolitica. Infatti, una struttura finanziaria in dollari collocata fuori dagli USA, metterebbe al riparo i paesi ostili all’Occidente da eventuali sanzioni americane.
Occorre infine mettere in risalto la diversità strutturale tra l’economia cinese e quella occidentale. Mentre la Cina reinveste i propri profitti nella produzione e nell’innovazione, in Occidente, nel contesto di un sistema finanziario dominato dai fondi di investimento, i profitti vengono destinati alla distribuzione di dividendi e rendite finanziarie. La Cina è cosciente della propria potenza, mentre la potenza americana è invece legata alla volatilità di mercati finanziari, in cui lo spettro dell’implosione delle bolle speculative è sempre in agguato. E’ ovvio che alla lunga i Big dell’economia finanziaria, prosciugando le risorse per gli investimenti, finiranno per segare il ramo dell’albero su cui sono seduti.
Parafrasando Lenin, si può affermare che il capitalismo occidentale sta forgiando da se stesso la corda con cui impiccarsi.
Europa: Trump sta uccidendo un uomo morto
L’avvento di Trump ha avuto il pregio di rendere coscienti gli europei della loro nullità politico – culturale. L’Europa, rimossa la propria memoria storica, si è confinata nella post – storia, nella alienazione dalla realtà.
Un’Europa unitaria non è mai esistita e pertanto non sarà Trump a distruggerla. Trump sta solo uccidendo un uomo morto. Paradossalmente, l’unico simulacro di unità europea è venuto alla luce nella guerra russo – ucraina, nel contesto cioè di una totale subalternità dell’Europa alla Nato. Una unità realizzatasi mediante l’allineamento europeo ad una potenza esterna, che esercita la sovranità effettiva sull’Europa, gli USA. La UE, del resto, è stata concepita come organismo sovranazionale a cui è stata delegata la governance politica della Nato. Qualora la Nato non sussistesse più, l’esistenza della UE non avrebbe senso.
E’ inoltre scomparso lo slogan “democrazie vs autocrazie”, quale fantasma ideologico atto a legittimare la guerra della Nato contro la Russia. La UE è una istituzione sovranazionale priva di sovranità a cui sono stati devoluti i poteri sovrani degli stati e pertanto non può essere definita un ordinamento democratico. Senza sovranità non è nemmeno ipotizzabile la creazione di un esercito europeo.
L’Europa ha potuto svilupparsi economicamente in virtù della sicurezza strategica garantita dalla Nato. Dobbiamo però oggi constatare quanto la credibilità delle garanzie americane sia assai dubbia. Dal secondo dopoguerra in poi, gli USA hanno sempre abbandonato i propri alleati al mutare dei loro interessi strategici. La storia dei tradimenti americani è ben delineata da Marco Travaglio in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” del 15/02/2025 dal titolo “Begli amici”: “…. Trump non ha inventato nulla: quella di usare, spremere fino al midollo, mandare al macello e poi scaricare l’“alleato” di turno è una vecchia usanza degli Usa. Per informazioni, rivolgersi a Vietnam, Balcani, Afghanistan, Iraq, curdi, Libia e “primavere arabe”: prima spinti alla guerra, poi lasciati soli a seppellire i morti, a raccogliere i cocci e a pagare il conto. Ora tocca agli ucraini e alla Ue. In attesa del prossimo gonzo che ci casca”.
Aggiungasi poi che la superpotenza americana ha sempre potuto far a meno essere credibile nei confronti degli alleati. Osservava ironicamente Henry Kissinger: “Essere nemici degli USA può essere pericoloso, ma esserne amici è fatale".
Sul progetto di riarmo dell’Europa incombono prospettive inquietanti. Il disimpegno degli USA ha inaugurato la stagione delle guerre per procura e quella dell’Ucraina è infatti una guerra della Nato combattuta fino all’ultimo ucraino. Si vuole quindi militarizzare l’Europa per creare eserciti di truppe sacrificabili alle strategie della Nato, senza coinvolgimento americano. Così si è espresso a tal riguardo Andrea Zhok: “Come ricordavo un tempo ai beoti che gioivano per il fatto di essere sotto l'ombrello difensivo della Nato, la realtà è che noi non siamo SOTTO l'ombrello della Nato, noi SIAMO quell'ombrello, il primo a prendersi la pioggia”. L’abbandono degli ucraini al loro destino dovrebbe allarmare le menti dei leaders europei ottenebrate nel loro servile e irresponsabile atlantismo.
Sotto l’aspetto economico, la militarizzazione dell’Europa avrebbe effetti devastanti. Per una economia europea già in stato di stagnazione / recessione, il piano di riarmo europeo della Von der Leyen con l’acquisto di armamenti per il 78% dagli USA, comporterebbe uno stanziamento di 800 miliardi, che farebbe esplodere i conti pubblici. Il riarmo europeo si rivelerebbe per i bilanci statali insostenibile e pertanto, si renderebbe necessario il ricorso a nuovi finanziamenti esterni che accrescerebbero la dipendenza dai fondi di investimento americani dei debiti pubblici degli stati della UE. In assenza di crescita, l’insostenibilità del debito potrebbe condurre alla destabilizzazione degli stati.
La stessa politica dei dazi trumpiani produrrà effetti traumatici per l’economia europea. L’export europeo negli USA ammonta a 500 miliardi. I dazi colpiranno particolarmente Germania e Italia, che sono i maggiori esportatori negli USA. L’Europa non è in grado di reagire con adeguate ritorsioni.
Con il calo dell’export, la svalutazione dell’euro potrebbe ridurre in parte l’effetto dei dazi, ma incrementerebbe anche l’afflusso di capitali europei verso l’area dollaro. Attualmente il 60% del risparmio europeo viene investito nei mercati finanziari USA e nel tesoro americano. L’Europa non è nemmeno in grado di trattenere in patria i propri capitali per ritorsione, a causa della rilevante influenza sull’economia europea esercitata dai fondi di investimento americani, che stanno fagocitando il suo sistema finanziario. La UE è inoltre esposta al ricatto dei dazi, in virtù della sua dipendenza energetica e tecnologica dagli USA.
Con il ciclone Trump, emerge in tutta la sua drammaticità il fallimento del sistema economico europeo basato sull’export. L’istituzione di tale modello economico comportò per i paesi UE, la compressione dei salari, la riduzione dei consumi interni e tagli al welfare, onde rendere competitive le esportazioni. E’ dunque prevedibile che la UE, dato che la crescita del Pil è subordinata all’export negli USA, con l’imposizione dei dazi, accentuerà le politiche di austerity, allo scopo di recuperare competitività nei mercati americani.
L’ordoliberismus della UE è un meccanismo suicida. E’ infatti un sistema rigido che, oltre a produrre nuove povertà e diseguaglianze, non sarà comunque in grado di recuperare competitività, a causa degli elevati costi energetici, dovuti all’importazione di gas liquido americano, che ammontano a 58 euro per MWh, oltre il triplo rispetto a quelli del gas russo di 12/15 euro.
Si rileva infine, che l’industria europea potrebbe essere attratta dalle prospettive di delocalizzazione negli USA, in cui potrebbe usufruire di prezzi energetici pari a 1/5 di quelli europei, degli incentivi statali e di una pressione fiscale ridotta, secondo quanto previsto dal piano I.R.A. varato da Biden. La reindustrializzazione americana potrebbe realizzarsi mediante la delocalizzazione dell’industria europea negli USA.
L’Europa potrebbe però contrastare la politica protezionista americana emanando leggi che limitino il trasferimento dei capitali negli USA, vincolando ai circuiti interni i 33.000 miliardi di risparmio europeo. L’export potrebbe dirigersi verso nuovi mercati. La BCE, mediante l’istituzione di fondi comuni potrebbe finanziare la ricostruzione industriale europea, il welfare e la spesa corrente per sostenere la domanda interna. Ma tali misure richiederebbero trasformazioni strutturali dell’economia europea che le classi dirigenti non hanno né la capacità né la volontà politica di mettere in atto. Le riforme sistemiche presupporrebbero scelte di natura geopolitica che comporterebbero la fuoriuscita dell’Europa dalla sfera atlantica. Tali prospettive sono attualmente impensabili.
Questa Europa è condannata alla irrilevanza nel contesto del nuovo mondo multipolare. E’ stata integrata da generazioni nella sfera culturale, politica ed economica americana. L’americanismo, col venir meno delle culture identitarie europee, si è radicato nelle coscienze di una Europa che si considera nei fatti parte integrante degli USA. Tale sradicamento culturale è ben descritto da Costanzo Preve: “Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, ed in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici ed assiologici diversi, il codice del crimine ed il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine!
Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini.
Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori”.
I trattati che presiedettero alla fondazione della UE sancirono l’irreversibilità dell’unione europea. La UE è irreversibile come lo sono i suoi esiti fallimentari e come lo sarà la sua prevedibile e auspicabile dissoluzione.
L’Europa è in uno stato di coma profondo. Con l’avvento di Trump si sente orfana della Nato e si scopre al contempo atlantista e antiamericana: siamo alla farsa. Dinanzi al ritorno traumatico della storia, l’Europa è al redde rationem: ritrovare la coscienza di sé e della sua storia, o sciogliersi nell’acido del proprio nichilismo.