Vaccino e immunità al cambiamento
di Igor Giussani - 15/04/2020
Fonte: decrescita
Stiamo lavorando a una risposta di sistema per riportare famiglie, imprese e persone a ricominciare a vivere pienamente le proprie esistenze. Lo faremo quando la comunità scientifica consegnerà al mondo il vaccino, ma nel frattempo dobbiamo tenerci pronti ed essere all’altezza. Fino a quando non avremo un vaccino il distanziamento sociale è l’unica arma che abbiamo (Ministro della salute Roberto Speranza)
Siamo qui, rinchiusi nelle nostre case, con una sola certezza: torneremo alla vita di sempre quando arriverà un vaccino in grado di fare sparire questo nuovo coronavirus. (Roberto Burioni)
Normalmente per arrivare ad un vaccino da commercializzare il tempo medio è di 2-3 anni. In quest’occasione penso che i tempi saranno molto molto più brevi, sicuramente non saranno quelli abituali che si hanno per un vaccino. Il vaccino contro il virus sta facendo un percorso che è a tempi di record. Credo si possa essere fiduciosi per ottenere qualcosa in tempi straordinariamente rapidi e questo ci conforta molto. (Presidente della Società italiana di pediatria Alberto Villani)
Leggiamo ogni giorno di molteplici equipe di ricerca nel mondo impegnate a realizzare un vaccino contro il Covid-19, alcune delle quali annunciano di essere vicine all’obiettivo, anche grazie alla dichiarazione di pandemia da parte dell’OMS che velocizza la fase di sperimentazione. Prese con le dovute cautele, sono certamente buone notizie, anche perché finora c’era ben poco da stare allegri: per quanto attiene ai sette ceppi di Coronavirus in grado di infettare gli umani, a oggi non esistono vaccini o farmaci antivirali considerati validi dalla comunità scientifica per la prevenzione o per il trattamento delle patologie indotte, neanche per quelli che, come il SARS-CoV, sono già noti dal 2003. In veterinaria, esiste un vaccino per il FCov responsabile della peritonite infettiva felina (FIP), che però non rientra tra quelli ‘core’ previsti per i gatti domestici, essendo la sua efficacia alquanto contestata.
Tuttavia, l’eventuale produzione di un vaccino va inserita nella giusta prospettiva, cioé quella della transizione per un radicale cambiamento, non della panacea per “tornare alla vita di sempre”. Scrive giustamente Loretta Napoleoni:
Il coronavirus non ci sconfiggerà, ma ciò che potrebbe far crollare la nostra civiltà è come ci comporteremo dopo la pandemia. Se torniamo alla vita che stavamo conducendo fino a dicembre 2019 – il consumo costante come se le risorse fossero davvero infinite – un altro virus molto più forte e più sinistro comparirà, e questa volta potrebbe essere l’ultimo.
Peccato però che giusto una riga prima affermi:
Troveremo il vaccino, è solo una questione di tempo.
Non c’è nulla di male nella speranza e nell’ottimismo fondati, tuttavia la certezza granitica che emana la frase tradisce proprio quella mentalità da superare, a prescindere dal fatto che il vaccino veda la luce o meno. In sostanza, su che basi poggia la sicurezza della Napoleoni? Sull’idea che sia sufficiente sganciare enormi somme di denaro per far sì che scienza e tecnica risolvano magicamente un certo problema. Mutatis mutandis, è lo stesso atteggiamento che portava Milton Friedman a definire “stupide proiezioni” le analisi del Club di Roma in quanto, a suo dire, la finitezza delle risorse era un problema inesistente perché i meccanismi di mercato permettevano di arginare qualsiasi limite fisico.
Se davvero non vogliamo tornare alla vita che conducevamo prima del dicembre 2019, non basta qualche piccola riforma in stile sviluppo sostenibile, occorre un profondo cambiamento culturale se non proprio antropologico, in quanto la pressione eccessiva sugli ecosistemi non è stata fine a se stessa, bensì funzionale ad alimentare la crescita indefinita del benessere materiale. Le restrizioni e le morti premature di oggi sono il contrappasso per l’ambizione di avere sempre di più e di incrementare senza soste la speranza di vita; per essere ancora più espliciti, questa malattia e i rischi che stiamo correndo si devono proprio ai tentativi di instaurare una società dove il concetto stesso di malattia sia stato definitivamente debellato e gli individui non corrano pericoli oltre a quelli che sono disposti consapevolmente ad accollarsi.
Chi ha visto il film di Quentin Tarantino Grindhouse – A prova di morte ricorderà la ‘vettura a prova di morte’, con cui il crudele protagonista Mike McKay (interpretato da Kurt Russell) dà sfogo alla sua misoginia uccidendo orribilmente giovani donne che incontra sul suo cammino. La pellicola è ispirata alle automobili modificate utilizzate dagli stuntman, caratterizzate da particolari abitacoli progettati in modo che il conducente possa uscire incolume da impatti normalmente fatali, permettendo così ai registi di girare le tipiche scene spericolate che contraddistinguono i film d’azione.
Almeno dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, pare che il compito primario della tecnoscienza positiva e filantropa (quello cioé non impegnata a servire l’industria bellica) sia stato di trasformare la società umana in una gigantesca macchina a prova di morte, avallando così azioni pericolose e sconsiderate dell’umanità-stuntman per poi assumersi l’onere di mettere a posto i cocci (o almeno la polvere sotto i tappeti).
La ricerca medica ha ricoperto un ruolo di primo piano perché, altrimenti, i danni sanitari provocati dall’inquinamento ambientale e dalla devastazione della biosfera dovuti all’industrializzazione sarebbero stati talmente ingenti da compromettere l’avvento di quella che Paul Crutzen ha definito era dell’Antropocene. Gli attuali otto milioni di decessi annui nel mondo per l’inquinamento atmosferico, insieme ad altri fenomeni collaterali, devono evidentemente essere considerati un olocausto ragionevole da immolare sull’altare del Moloch dello Sviluppo, dal momento che non suscitano particolari clamori.
Ovviamente, nessuno si lamenterà se la medicina che ha permesso di sdoganare tutto ciò ci elargirà quel vaccino che i vari Speranza, Burioni e tanti altri prefigurano con toni quasi messianici. Comunque, se davvero si vuole voltare pagina, urgono alcune riflessioni indifferibili. In questa sede ne propongo quattro, secondo me fondamentali:
nell’era dell’overshoot e delle ferite profonde inferte alla biosfera, compito fondamentale della scienza è evidenziare i limiti naturali per sviluppare una tecnica che aiuti a convivere al meglio con questi, anziché tentare di aggirarli ignorandone le conseguenze;
in medicina, l’enfasi sulla prevenzione deve essere almeno pari a quella posta sulla cura. La correlazione evidente tra inquinamento atmosferico e virulenza del Covid-19 è solo uno dei tanti elementi che testimonia come, sottovalutando le ricadute dei danni ambientali sulla salute, ogni sforzo si condanni a una perenne rincorsa di Achille alla tartaruga;
una vita che non si limiti alla mera sopravvivenza biologica comporta l’accettazione di un certo grado di incognite esistenziali, tra cui la malattia. Esigenze psicologhe, sociali e affettive non possono essere ripudiate in nome del ‘rischio sanitario zero’, anche perché è stato ampiamente provato come la ‘buona salute’ non coincida con la semplice condizione di ‘non malattia’, ma consista in un equilibrio dinamico in cui sono coinvolti effetti fisici e psicologici interagenti a loro volta con l’ambiente naturale e sociale;
compito della politica non è tutelare la nuda vita in sé, ma decidere su vantaggi e svantaggi per garantire una buona esistenza del corpo sociale. In un discorso per molti aspetti contestabile, il discusso ex giudice della Corte Suprema britannica Lord Jonathan Sumption ha però espresso un concetto ineccepibile nella sua crudezza:
La verità è che nelle politiche pubbliche non ci sono valori assoluti, nemmeno la conservazione della vita. Ci sono solo pro e contro. Non permettiamo forse di circolare con le automobili, tra le armi più letali che siano mai state concepite, anche se sappiamo con certezza che ogni anno verranno uccise o mutilate migliaia di persone? Lo facciamo perché riteniamo che sia un prezzo che vale la pena pagare per muoversi in velocità e comodità. Ognuno di noi che guida è una parte tacita di quel patto faustiano.