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Vallanzasca muore insieme a un mondo che non c’è più

di Massimo Fini - 30/06/2024

Vallanzasca muore insieme a un mondo che non c’è più

Fonte: Massimo Fini

Fino a un paio di anni fa ricevevo, di quando in quando, una telefonata di questo tenore: “Sono Renato”. “Renato chi?” chiedevo. “C’è un solo Renato”. Ritrovavo così il Vallanzasca spavaldo e beffardo noto anche per questo aspetto, e non solo per i suoi delitti, al grande pubblico ma che io conosco meglio avendolo frequentato personalmente nei rari momenti di libertà. Andavo a trovarlo a casa sua, in uno squallido quartiere vicino al cimitero di Musocco, squallido era anche l’edificio ma l’abitazione era arredata con cura e direi anche con una certa eleganza. Mi accompagnava una giornalista del Giorno che l’aveva anche ospitato, rischiando grosso, durante una delle sue sette evasioni. Si era innamorata di Vallanzasca. Non si contano le ragazze, le donne che si sono innamorate del bel Renè, e non per il solito fascino del Male ma perché Vallanzasca era un ragazzo, un “puer aeternus” mi verrebbe da dire, molto simpatico, ironico, autoironico, divertente. Mi raccontò, per fare un esempio, che durante uno di questi permessi, comunque sorvegliatissimo dalla polizia, era salito su una bicicletta ed era caduto subito perché non ci sapeva più andare. Lui che per narcisismo, ma anche per una naturale joie de vivre, aveva guidato le macchine più lussuose, dalle Ferrari alle Porsche.
Ora di quelle telefonate è un bel po’ che non ne ricevo più. All’epoca in cui lo incontravo non era più il “bel Renè”, aveva uno sfregio sulla faccia e, mi parve, un occhio offeso perché Vallanzasca fin quasi dall’infanzia ci vedeva con un occhio solo, cosa strabiliante se si pensa alla sua mira micidiale che tante volte gli ha permesso di vincere le partite in campo aperto a guardie e ladri con la polizia (“Se di notte è inseguito spara e centra ogni fanale, Sante il bandito ha una mira eccezionale”, De Gregori, Il bandito e il campione, 1993).
Nel giugno dell’anno scorso la prima moglie di Vallanzasca, Antonella D’Agostino, ha scritto una lettera all’Ansa che vale la pena riprendere qui. “Quanto deve pagare ancora? Dopo cinquant’anni di carcere e una condizione di salute precaria, anzi peggio. Rifiutare le misure alternative a Renato Vallanzasca significa non solo condannarlo al carcere a vita, cosa che è già avvenuta, e all’impossibilità di vivere uno stralcio di normalità, ma anche umiliare un uomo ormai ridotto all’ombra non di quello che era, ma di quello che tutti hanno pensato che fosse. Ha vissuto otto anni in semilibertà e poi ai domiciliari senza fare niente di male. E quando portò via quelle mutande dal supermercato capii che nel suo cervello qualcosa aveva cominciato a non funzionare… Non voglio santificare chi ha vissuto da criminale. I veri criminali li ho conosciuti, quelli che frequentavano la Milano da bere. Niente a che vedere con lui. Altra stoffa. Loro sono morti ricchi sfondati (quando sono morti, ndr) lui marcisce in galera senza avere i soldi per le sigarette, senza capire più dov’è”.
Della lettera della D’Agostino mi interessa in particolare là dove dice: “I veri criminali li ho conosciuti, quelli che frequentavano la Milano da bere. Niente a che vedere con lui. Altra stoffa”.
Altra stoffa, dice la D’Agostino. Perché Vallanzasca, se mi si passa il termine, è a suo modo un bandito leale, un bandito onesto. Non si è mai reso responsabile di ripugnanti agguati sotto casa, alla Sofri, per intenderci, e questo ‘vizietto’ riguardava molti suoi compagni di Lotta Continua il cui giornale pubblicava le foto, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di “fascisti” o presunti tali, cinque dei quali sono rimasti in sedia a rotelle e uno ne è morto. Ma Sofri, dopo aver scontato sette anni dei ventidue che gli erano stati comminati per l’omicidio del commissario Calabresi, oggi è libero come l’aria e per un certo periodo è stato editorialista de La Repubblica, il più importante quotidiano di sinistra (dovette andarsene solo perché direttore era diventato Mario Calabresi, figlio del commissario) e del principale settimanale di destra, Panorama. Insomma è stato promosso editorialista, per meriti penali suppongo.
Vallanzasca non merita pietà, merita rispetto. Perché si è sempre assunto le proprie responsabilità, non ha mai dichiarato di essere una vittima della società. Quando il giorno della sua prima cattura fu portato in manette sul balconcino di una casa di Roma - perché questi qui li esibiscono in manette, per i Toti e tutti i furfanti di Mani Pulite si invoca o si è invocato l’intervento di Amnesty International - e un giornalista gli chiese appunto: “Vallanzasca, lei si ritiene una vittima della società?” lui rispose: “Non diciamo cazzate!”.
Alla parola di Vallanzasca si può credere se afferma che una rapina non l’ha fatta lui. D’altro canto ha scagionato parecchi malavitosi attribuendosi i reati per i quali erano stati sbattuti in galera e fornendo ai giudici, che non ci pensavano più, le prove di averli commessi. Mi piace riprendere un segmento del ritratto che ne feci nel 1987 in un articolo intitolato ‘Il bel Renè, bandito d’altri tempi’: “Ho saputo che tre ragazzi hanno confessato due o tre rapine: la rapina di Milano 2, di Pantigliate e di Seggiano. Possono averle confessate solo con le botte. Solo così possono averlo fatto. Io categoricamente posso dire che loro non c’erano. Perché c’ero io. Posso mandare, per provarlo, le fascette delle banconote o la pistola del metronotte. C’è il caso di un ragazzo accusato di una rapina che ho commesso io sei anni fa. Il ragazzo si chiama Elio Lanzani ed è soprannominato Ciarùn perché una volta faceva le danze coi coltelli. La rapina avvenne in viale Corsica. Elio non è uno stinco di santo, ma quella rapina non l’ha fatta lui, l’ho fatta io”.
È singolare che in un Paese di gentiluomini si possa fare più affidamento sulle parole di un bandito. Il fatto è che, per qualche straordinario accidente, si sono conservati in Renato Vallanzasca, nonostante la sua vita violenta e criminale, alcuni valori propri di quella vecchia Milano, la Milano della Comasina e di Affori da cui proviene: lealtà, dignità, un popolano sense of humour. E soprattutto rispetto di quelle regole del gioco che oggi tutti violano nella società civile e quindi anche in quel suo riflesso malato che è la malavita. Se infatti oggi la mafia, la ‘ndrangheta, la criminalità finanziaria, la delinquenza comune sono ormai giungla disordinata e caotica senza regole d’onore, neanche malavitose, è perché non sono altro che lo specchio della società civile (una malavita senza onore e dignità può essere solo il prodotto di una società senza onore e dignità). Vallanzasca invece è un bandito che riflette una società di altri tempi. È un bandito onesto in una società dove, troppo spesso, gli onesti sono dei banditi.
“Non diciamo cazzate!”. Io, lo confesso, l’avrei graziato solo per questo. E, a suo tempo, ho inoltrato formale domanda di grazia a un paio di Presidenti della Repubblica, visto che sono stati graziati soggetti moralmente molto peggiori di lui, la Fiora Pirri Ardizzone dei principi di Pandolfina, per esempio (presidente Pertini).
Adesso, anche contando sul fatto che Giorgia Meloni è un po’ più umana, sarebbe inutile dopo 52 anni di galera, undici dei quali passati col 41bis o ai famigerati ‘braccetti’.
Vallanzasca muore insieme a un mondo che non c’è più.