Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vendicare Liala e l’azzurro nelle vetrate

Vendicare Liala e l’azzurro nelle vetrate

di Francesco Lamendola - 29/08/2017

Vendicare Liala e l’azzurro nelle vetrate

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

 

 

Da quando Edoardo Sanguineti, a nome del Gruppo 63, definì Carlo Cassola, Giorgio Bassani e Vasco Pratolini le Liale del ’63, con l’intento esplicito di offenderli, denigrarli e soprattutto di ridicolizzarli, in nome di una letteratura seria, impegnata, progressista, antitradizionale, e Dio sa che altro, il mondo delle lettere nostrane si è diviso in due schieramenti contrapposti, pro e contro i tre scrittori così platealmente aggrediti e svillaneggiati. Secondo noi, però, è significativo il fatto che tutta la polemica si sia svolta a partire da una sostanziale accettazione, da parte di tutti, della premessa ideologica e critica, ossia che Liala sia una scrittrice di nessun valore, banale, superficiale, melensa, insignificante; una scrittrice “femminile” nel senso più volgare della parola, cioè capace solo di sfornare “romanzi rosa”, del tutto privi di spessore e di qualità letteraria e che insomma, non hanno niente da dire a nessuno – a nessuno che sia un lettore intelligente, s’intende.

Ora, è certo che noi, se dovessimo prender parte, retrospettivamente, a quella lontana ma significativa polemica, staremmo e stiamo, senza alcuna incertezza, dalla parte di Cassola, di Bassani e di Pratolini, peraltro con qualche esitazione a porli tutti sullo stesso piano, e, in particolare, riconoscendo a Cassola una superiore qualità artistica e una maggiore profondità di problematiche; e contro le neoavanguardie, le postavanguardie e tutti i circoli intellettualoidi che affliggevano e affliggono la cultura nostrana, se non altro per la loro insopportabile pretesa di ergersi a giudici di tutti e di tutto, di guardare dall’alto in basso ogni scrittore e ogni pensatore che non sia politicamente corretto, beninteso secondo i loro standard, che sono,, poi quelli del politicamente corretto in generale: progressismo, impegno politico dell’artista (ovviamene a sinistra), realismo (o neorealismo, o post neorealismo, o iperrealismo), pensiero debole, semiologia, psicanalisi, decostruzionismo e compagnia bella. Ci rifiutiamo, però, di prendere per buono l’assunto iniziale e di muoverci restando al suo interno: cioè l’assoluta non validità artistica e letteraria di Liala, la scrittrice che ha venduto 10 milioni di copie dei suoi libri e non solo in Italia, e che ha scritto settantacinque romanzi sui quali hanno sognato, pianto, si sono entusiasmate, rattristate e rincuorate, due o tre generazioni di lettrici. Una signora che ha esordito nel 1931, con Signorsì, per medicare le ferite di un acerbo dolore sentimentale – la morte, tragica e repentina, dell’uomo amato - e che ancora nel 1985, a ottantacinque anni, scriveva e pubblicava romanzi con il piglio, la freschezza e la passione di sempre, merita, già solo per questo, rispetto; e anche il fatto che sia piaciuta così tanto incute rispetto e fa riflettere, perché scrittori altrettanto graditi ai lettori, come Umberto Eco, bisogna vedere se continueranno a piacere oltre la prima generazione, mentre Liala ha superato brillantemente la prova del tempo e continuava a piacere alle lettrici, anche giovani, quando lei era già nonna, segno inequivocabile che il suo successo non è stato una questione di moda, non è stato un bluff, non è stato uno scherzo del destino, ma una cosa solida, profonda, e che, piaccia o non piaccia – per carità, può anche non piacere, ci mancherebbe altro; così come possono non piacere, d’altronde, e altrettanto legittimamente, fino a prova contraria, le poesie di Edoardo Sanguineti e quelle di Franco Fortini e di tutto il Gruppo 63, nonché i romanzi di Umberto Eco – sarebbe stato onesto fare i conti con esso.

La realtà, invece, è che la critica impegnata si è guardata bene dal farlo, intimidita dal clima d’intolleranza che ha regnato nella cultura italiana per decenni, dopo la nascita della Repubblica democratica e antifascista, quando chi non era in grado di esibire adeguate credenziali di serietà neorealista e di battagliero progressismo, non superava l’esame dei giudici politicamente corretti o rinunciava addirittura a presentarsi davanti al loro tribunale, accontentandosi di coltivare il rapporto coi suoi lettori, ma sapendosi condannato al bando perpetuo dai salotti buoni della Cultura Alta, quelli che contano e dove si distribuiscono le entrature con le maggiori case editrici, le cattedre universitarie e i premi letterari, nonché l’accesso, dopo l’avvento della televisione, ai salotti televisivi di maggiore ascolto, insomma dove ci si spartisce il potere. Sbilanciarsi a recensire, e magari a recensire favorevolmente, o non del tutto sfavorevolmente, una scrittrice come Liala, avrebbe significato chiudersi la strada per una brillante carriera: e i critici letterari, così come quasi tutti gli intellettuali italiani di allora e di oggi, storici, filosofi, critici d’arte, scrittori, poeti, critici musicali e cinematografici, per non parlare dei giornalisti, non hanno mai brillato per particolare coraggio e indipendenza, non hanno mai avuto la fama di essere dei leoni che, per difendere la verità, o anche, semplicemente, il loro punto di vista, siano disposti a rischiare la carriera e magari a rinunciare alla spartizione della torta culturale. Ed è anche per questo, o soprattutto per questo, che gli intellettuali italiani, e in misura crescente quanto più sono politicamente corretti, se la cantano, se la suonano e se la godono in patria, dove si muovono praticamente in regime di monopolio, cioè senza doversi misurare seriamente con la concorrenza; mentre, a livello internazionale, sono in ritardo di almeno mezzo secolo e tutto il mondo lo sa e ne tira le debite conseguenze, mentre loro, poverini, non lo sanno, e ostentano il sorriso ebete di chi si crede sempre il più furbo della classe e ignora che, dietro le sue spalle, tutti ridono di lui. Ritardo culturale, dunque, che è anche, e in primo luogo, gracilità morale, nel senso di chiara e sperimentata tendenza al servilismo e disponibilità a celebrare sempre e comunque le lodi del vincitore di turno, ossia, nella fattispecie, dei vincitori del 1945, anche se nel resto del mondo le cose sono un po’ cambiate: miseria e decrepitezza che i nostri intellettuali spartiscono con i politici, con i grandi industriali (per i piccoli, il discorso è un po’ diverso) e con banchieri nostrani, tutti del pari obsoleti e sorpassati, tutti del pari spazzati via dalla concorrenza internazionale, e perla buona ragione che, dove esiste un reale regime di concorrenza, non si fanno sconti né ai servi, né ai raccomandati, né ai parassiti che vivono di rendita, né ai pusillanimi, e il successo bisogna conquistarlo con le unghie e coi denti, non con le bustarelle e con i favori degli amici o degli amici degli amici, ma soprattutto bisogna meritarselo e guadagnarselo sul campo, con l’intelligenza, la creatività e la capacità di lavoro.

Ora, di capacità di lavoro, la signora Liala – nome vero: Amalia Liana Negretti Odescalchi, coniugata in Cambiasi, classe 1900, comasca di Carate Lario, di famiglia nobile ma non ricca, deceduta a Varese nel 1995 – nella sua lunghissima militanza letteraria, ne ha mostrata tanta, da poterne vendere: pochi scrittori, anche maschi, sono stati capaci di reggere il confronto con i suoi ritmi forsennati. Anche l’intelligenza e la creatività non le facevano difetto: le sue storie sono, certamente, stilizzate in senso sentimentale, e mostrano una visione del reale piuttosto limitata (meno di quanto si creda generalmente, però; e, del resto, questa critica potrebbe valere anche per alcuni scrittori riconosciuti universalmente come “grandi”)        , ma ciò non toglie che possiedano delle qualità che a noi non paiono affatto disprezzabili, checché ne possano dire o pensare i paludati critici superciliosi, i baroni universitari e tutta la pletora degli intellettuali di regime le cui caratteristiche abbiamo sopra ricordate: qualità come la freschezza, il garbo, la pulizia, l’eleganza – anche formale -, il nitore, lo slancio, la capacità di afferrare il lettore, o meglio la lettrice, e di trascinarla con sé dalla prima pagina fino all’ultima; e questo senza bisogno di omicidi, stupri, violenze, serial killer, vampiri innamorati, sesso, parolacce e volgarità d’ogni genere, che oggi sono gl’ingredienti preferiti per rendere appetibile un romanzo, nel mercato librario sovraffollato di ciarpame d’ogni tipo. E scusate se è poco. Del resto, alcune grandi scrittrici, cioè che la critica riconosce come tali, ad esempio Jane Austen, praticavano con successo il genere sentimentale: non si capisce, dunque, perché il fatto di limitare la propria attenzione ad esso dovrebbe, di per sé, squalificare un’autrice (o un autore: si pensi a William Somerset Maugham, tanto per fare un esempio, o a E. M. Forster) o autorizzare i signori critici ad alzare e inarcare le sopracciglia quando si trovano fra le mani un suo libro, come se fosse un oggetto strano, disdicevole e forse un po’ pericoloso, e devono scriverne una recensione. Quanto a noi, non abbiamo alcuna intenzione di scendere nella tomba portandoci dietro la vergogna di non aver spezzato una lancia in difesa di Liala: una vera signora, in tutti i sensi, in un mondo di zoccole e zoccoli, i quali, nella percezione collettiva, le son passati avanti, e di molto, solo perché nelle grazie di un totalitarismo culturale progressista tanto arrogante, quanto cieco e superato. Al contrario, vogliamo dire di lei tutto il bene possibile: perché, nel suo ambito, e cioè senza la pretesa di essere un genio delle patrie lettere, ma sapendo, comunque, tener la penna in mano più che bene, e creare atmosfere non prive di attrattiva e narrare situazioni ove si confrontano sottili giochi psicologici, ella è stata profondamente onesta; fatte le proporzioni, forse più onesta dei tanti che la criticavano (verdi marci d’invidia, forse, per le sue altissime tirature), o che la disprezzavano, o che, peggio di ogni altra cosa – perché il silenzio ferisce più della spada – l’hanno volutamente ignorata e continuano a ignorarla, non riuscendo a capacitarsi di come abbia potuto essere amata, e così a lungo, da quel pubblico femminile che la cultura dominante, femminista per definizione e per decreto, avrebbe dovuto amare ben altre opere e ben altre scrittrici. Ottusità tipica dell’intellettuale italiota, imbevuto di cattiva ideologia dalla testa fino ai piedi: se la realtà non è quella che lui ritiene giusta, quella cui lui concede il diritto di esistere, non resta che chiudersi in un silenzio sdegnoso, qualora non ci si voglia abbassare a far polemica con delle cose che neanche dovrebbero esserci. E se le lettrici italiane leggevano più volentieri Liala che Dacia Maraini, o preferivano passare un pomeriggio leggendo Liala invece di andare a teatro a vedere Franca Rame (e Dario Fo), qualcosa non doveva girare per il verso giusto, nella società italiana. Colpa, si sa, dell’atavica ignoranza, della Chiesa e della cultura cattolica, del mondo contadino che ci aveva messo troppo a tirare le cuoia, dell’arretratezza economica e, perciò, culturale; colpa della eccessiva timidezza dei progressisti e dei riformatori, della rivoluzione mancata, della guerra civile non abbastanza sanguinosa, della pulizia etnica e ideologica non portata sino in fondo, dell’amnistia di Togliatti ai fascisti e infinte, but not least, del fascino perverso, ma durevole, della borghesia e del suo modo di vedere il mondo.

Come dicevamo, fra Signorsì, del 1931, ispirato dalla infelice storia sentimentale con il valoroso aviatore Vittorio Centurione Scotto, perito in un incidente di volo sul lago di Varese nel 1926, durante un allenamento per la Coppa Schneider, e Frantumi di arcobaleno, del 1985, e senza contare un paio di romanzi rimasti incompiuti (e terminati da Mariù Safier), la produzione letteraria di Liala conta qualcosa come settantacinque romanzi, senza contare i racconti e un paio di libri di memorie: un complesso impressionante, compatto, per quanto sia inesatto e ingeneroso che non vi sia stata, in esso, una evoluzione – l’evoluzione c’è: basta confrontare i primi romanzi con gli ultimi – e per quanto non sia vero che l’Autrice sa vedere solo il mondo altolocato e nobiliare delle ville eleganti e delle automobili sportive: alcuni suoi romanzi descrivono con altrettanta vivacità e simpatia il mondo contadino. Ma quel che la critica che conta, ossia la critica di sinistra, non le ha mai potuto perdonare, benché non ci risulta che qualcuno l’abbia mai detto ad alta voce, è il suo amor di Patria, il suo amore per le Forze Armate e, forse, il suo nazionalismo, sentimenti che non sono cambiati dopo la “svolta” democratica e repubblicana del 1945, conservandosi uguali, forse appena più sobri, nel passaggio dall’era fascista a quella democratica. Basti dire che i tre grandi amori di questa donna eccezionale sono stati tutti e tre dei militari: il marito, Pompeo Cambiasi, era un ufficiale di marina, dal quale presto si era separata, dopo aver avuto con lui due figlie, Primavera e Serenella (nomi poetici scelti da una madre poetessa); il grande amore, Vittorio Centurione Scotto, un ufficiale della Regia Aeronautica; e il suo fedele compagno Pietro Sordi, cui restò legata per diciotto anni, dal 1931 al 1948, era anche lui un aviatore, pilota d’idrovolanti, che per amore di lei rinunciò alla carriera e diede le dimissioni (il codice d’onore militare dell’epoca non consentiva a un ufficiale di vivere con una donna già sposata e separata; scrupoli decisamente sorpassati nel clima edonista odierno). E amando l’esercito e la Patria, Liala amava anche l’ordine, l’onestà, la rettitudine, il coraggio, la forza virile; tutte cose che non potevano piacere agl’intellettuali di sinistra e alle femministe, il cui “ideale” di vita (e di sesso) era, ed è, ben altro. Povera Liala, chissà cosa direbbe se fosse ancora viva: se non altro, le è stato risparmiato di assistere alla evoluzione - o involuzione – di una società che non vuol far più figli  e che celebra il matrimonio e le sue gioie solo quando i convolanti a giuste nozze sono due uomini o due donne, naturalmente desiderosissimi di adottare al più presto dei bambini, o di procurarseli con la fecondazione eterologa, perché, si sa, i bambini ci vogliono, altrimenti che famiglia sarebbe? Addio, cara signora che hai regalato ore serene a milioni di lettrici; che la terra ti sia leggera. Per parafrasare il titolo di uno dei tuoi romanzi più belli, L’azzurro nella vetrata (del 1958), hai regalato alle italiane molto cielo e molto azzurro nelle vetrate dei tuoi libri. Hai fatto entrare, a fiotti, luce e calore. E non è cosa da poco, né da tutti...