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Violenza e nobiltà

di Livio Cadè - 01/11/2020

Violenza e nobiltà

Fonte: Ereticamente


“Chi non punisce il male comanda che lo si faccia“.

(Leonardo da Vinci)

 

È giusto che Giuditta decapiti Oloferne? Vi sono casi in cui è giusto esser violenti? Il benpensante, che difficilmente esce dai luoghi comuni della sua epoca, vede nella violenza l’antitesi di ogni sano ideale. Inclina perciò a una teorica non-violenza, anche se psicologicamente e nella prassi non gli riesce ancora d’esser pacifico. D’altra parte, per assolvere Giuditta dovrebbe condannare Oloferne. Ma l’esprimere giudizi su qualcuno gli sembra già un atto di violenza, e questo ferisce la sua sensibilità.

Anche un papa, non so se stanco di emettere giudizi infallibili o illuminato da una canzonetta d’antan che diceva “nessuno mi può giudicare”, o forse in preda a un dubbio esistenziale, si chiede “chi sono io per giudicare?”. Dovremo dunque aspettare il pontefice si ricordi chi è. Si porebbe pensare che giudicare significhi condannare. In realtà si tratta di riconoscere le differenze tra giusto e sbagliato, bello e brutto ecc. L’alternativa è cadere in quel buio che rende tutti i gatti grigi. L’uomo giudica così come respira, in modo naturale e necessario. Negarlo sarebbe un’affettazione d’umiltà. Trovo più onesto dire: “chi sono io per non giudicare?”.

Torno quindi alla mia domanda. Esiste una violenza giusta? Il benpensante risponderà che la violenza non è mai giusta. Il suo catechismo ripudia la violenza e pone il rispetto degli altri tra le somme virtù. In realtà, questa non-violenza, questo non giudicare e rispettare, sono dei meri enunciati teorici. Togli la pellicola di belle parole e trovi una società che è un immenso ammazzatoio, violenta sino al midollo. Società cannibalesca, in cui vige la filosofia degli squali, in cui prevaricare sugli altri con la forza o con l’inganno è prassi comune, e nessuno se ne scandalizza, finché non ne resta vittima.

Ciò nonostante, la gente condivide un’altissima opinione del rispetto e non vede come sia compatibile conciliarlo con la violenza. Il benpensante ha un’ossessione maniacale per il rispetto. Dice per esempio: “non condivido la tua opinione ma la rispetto”. Frase che può soddisfare il galateo ma non ha nulla a che vedere col vero rispetto. Un’idea che ci pare sbagliata si può contraddire o ignorare, non rispettare. Oppure: “la legge va rispettata“. Ma se fosse  una legge indegna ogni uomo onesto la disprezzerebbe. E se anche vi può ubbidire per convenienza, non la può rispettare. Viceversa, si può uccidere un nemico senza per questo mancargli di rispetto.

Rispettare vuol dire riguardare, in un duplice senso: guardare con ammirazione e avere riguardo. Il rispetto nasce spontaneamente di fronte a ciò che ci rivela un valore morale, estetico, intellettuale. Avere rispetto è rispecchiare una dignità e sentire il dovere di custodirla. E a volte, nonostante i nostri candidi propositi, capita che la difesa di un valore implichi azioni violente. Porre la non-violenza come valore intangibile significa quindi lasciare che vengano offesi quei valori la cui difesa richiede un atto di forza.

Violenza infatti vuol dire forza, e questa forza può tanto distruggere quanto proteggere. Anche i pacifici erbivori difendono con istintiva ferocia sé stessi, la prole, il territorio, la loro libertà. Il sistema immunitario, per proteggerci, attacca e distrugge gli agenti infettivi, e non credo sarebbe auspicabile convertire i nostri linfociti alla non-violenza. Così è naturale per noi opporci con forza a invasioni e aggressioni, fisiche o simboliche.

Il rispetto non è un protocollo di buone maniere. Un padre punisce un figlio per rispetto verso di lui e verso il dovere di educarlo; un medico amputa un arto per rispetto alla vita del malato; un giudice condanna a morte un criminale per rispetto dell’umanità; una guerra si combatte per rispetto di una comunità e dei suoi beni. La stessa non-violenza – ahimsa – cui Gandhi si ispira non è riducibile a slogan pacifisti o alla delicatezza dei modi.

Di fatto, non è possibile vivere senza violenza. Ogni nostro atto fisico o mentale implica una certa distruzione. Creando si distrugge e distruggendo si crea. La vita continuamente si nutre di sé stessa, divora le sue forme e le rigenera. Voler abolire la violenza significa danneggiare un equilibrio naturale, cioè essere comunque violenti. Anche nella società ognuno deve affrontare i conflitti che nascono dall’emergere di interessi e ideali contrastanti. L’applicazione della forza, ossia della violenza, dipende allora da un’opzione morale e intellettuale, dalla nostra idea di bene e di valore.

Per esempio, se uccidendo alcuni talebani avessi potuto impedire la distruzione delle la statue del Buddha a Bamiyan, lo avrei considerato un bene. Ritengo infatti più degne di rispetto quelle statue che l’esistenza di alcuni iconoclasti esaltati. E avrei giudicato un bene uccidere i piloti degli aerei che bombardarono Dresda o Hiroshima – e ancor prima i mandanti di quelle atrocità – se fosse servito a impedire quelle stragi. Così, se questa plutocrazia satanica che oggi vuol ridurre gli uomini a schiavi e a cavie venisse processata e mandata al patibolo, insieme ai suoi faccendieri e lustrascarpe, ci vedrei una violenza benedetta.

Si dirà che così condivido la logica delle stesse azioni funeste che condanno, di chi manda al rogo o alla ghigliottina le persone in nome di qualche valore astratto. Chi mi dà il diritto di giudicare e sentenziare? Del resto, non potrei dimostrare che i miei valori sono intangibili, che la vita o la bellezza valgano più del denaro o del potere. Anche chi violenta e tortura bambini, nella soddisfazione dei suoi impulsi vede un valore superiore al rispetto degli altri. Torniamo così al punto di partenza: il rispetto dipende da un giudizio. Chiunque io sia, devo giudicare, scegliere i miei valori e difenderli. È una mia ineludibile responsabilità morale partecipare a questo conflitto tra le idee prima ancora che tra le persone.

Il benpensante, che è un relativista, dirà che non si possono stabilire scale di valori, se non puramente convenzionali, perché “non esiste una verità”. È chiaramente un’affermazione paradossale. Se non esistesse una verità non potremmo affermare neppure che non esiste una verità. Ma questo relativismo scettico serve al benpensante per adagiarsi, senza porsi troppe domande, su quei valori convenzionali che la società cosiddetta democratica gli propone, cioè sui valori dominanti. E crede che la pace sia un valore assoluto in cui valori relativi possano tranquillamente coesistere. Non vede che anche questa pace si basa su un conflitto in cui alcuni valori si impongono con la forza su altri.

Così, in omaggio a tale relativismo e contro ogni dogmatismo, ci vengono imposti i dogmi e le verità assolute del pacifismo e della tolleranza. Per questo ci hanno abituati al dialogo, alle critiche costruttive, al confronto democratico; ci hanno insegnato  a tollerare quietamente, senza reagire; ad avere una mente aperta e pacifica. Tanto pacifica da esser sempre sottomessa, tanto aperta che si può entrarvi e abusarne senza incontrare resistenza. Tutto, il dissenso, le proteste, dev’essere pacifico. La coscienze sono confinate in un mugugno impotente; uscire dal cerchio magico di questa irenica ipocrisia scatenerebbe violente repressioni.

Godiamo dunque di una pace ingannevole e di una libertà immaginaria. Questo è possibile perché la gente non ama la libertà che costa fatica e sacrifici. Ai cambiamenti temerari preferisce l’ordinaria schiavitù cui si è abituata. Son sempre pochi uomini a cambiare il corso degli eventi. La massa non ha volontà reale, è una mandria che può essere spinta qua e là e travolgere incoscientemente quel che trova sul cammino. Cade allora il velo che pudicamente nasconde la crudeltà umana, e gente pacifica si mostra capace di violenze inenarrabili.

Superati i vari preconcetti perbenisti, vedremo che la violenza non è un male in sé e che il rispetto non è un bene in sé. La violenza o il rispetto sono mezzi e non fini. Dobbiamo cogliere dietro di loro la volontà che li ispira. La pace è il fine cui ogni cuore tende – «in omnibus requiem quaesivi», ho cercato la pace ovunque – ma non sempre la via per arrivarci è pacifica. Anche l’ascesi religiosa conosce le guerre contro vizi e passioni e vede nella pace il premio di una lunga lotta. La storia srotola una processione interminabile di atti di violenza che ci ripugnano e ci atterriscono. Ma, prima della loro brutalità esteriore, dobbiamo riconoscere i loro intrinseci motivi; distinguere la violenza motivata da crudeltà, egoismi e vendette, da quella che obbedisce a un dovere di giustizia o a un desiderio di libertà.

A volte la violenza appare una reazione fisiologica e salutare, come la febbre in un organismo malato. Può arrivare imprevista e bruciante. Allora, per quanto dolorosa, è un dono della natura, o uno strumento della volontà di Dio, che serve a guarire. Lo spirito non sempre soffia come una dolce brezza. A volte scuote impetuoso i nostri destini “come vento sul monte che irrompe entro le querce“. Ma la religione del benpensante è un manuale di precetti caramellosi e senza virilità, un manuale da educande. Persino dal soglio pontificio vengono effluvi di stucchevole tenerezza, promessa di una terra dove non scorre il latte e miele ma il rosolio. La dottrina si stempera in toni bonari che sanno di flaccidità spirituale più che di autentica pace. Si incoraggia così quella debolezza colpevole che sempre attira la violenza del male.

Lo spirito non ama le paludi e non teme di sfidare la foga dei venti. Se c’è un tempo per divinità sorridenti, c’è un tempo per divinità terrifiche. Nell’induismo, che pure pone la compassione tra i principi più sacri, Kālī recide teste, Shiva porta una collana di teschi umani e Krishna invoca un massacro. Il rispetto della Legge divina impone a volte la guerra e la morte: “se tu non vuoi combattere questa giusta battaglia, manchi allora  ai tuoi propri doveri e all’onore, ed incorri in un grave peccato”.  Ben più feroce è la Bibbia: “O figlia di Babilonia, devastatrice …!  Benedetto chi piglierà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia!”.

Neppure Cristo usa toni concilianti: “non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada … Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono“. Pur essendo mite, frusta i mercanti nel tempio, maledice il fico sterile, annega un branco di porci indemoniati; pur essendo umile, giudica senza pietà scribi e farisei, inveisce contro di loro con epiteti sprezzanti: “guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume“. Parole che potremmo rivolgere agli attuali notabili del mondo, a questo brulicare di vermi sul cadavere di una civiltà.

Esiste senza dubbio una violenza evangelica. Il dovere di punire il male si esprime in immagini di cruda violenza: «se qualcuno fa perdere la fede a una di queste persone semplici che credono in me, sarebbe meglio per lui essere gettato in mare con una grossa pietra legata al collo». Meglio cavare gli occhi, amputare le mani e i piedi che danno scandalo. Il precetto di non resistere al male si sposta su un piano sottile e interiore. Non esclude l’uso di una violenza sacra, senza odio o meschinità. Il benpensante non lo capisce, perché conforma tutto ai suoi pregiudizi. Perciò, quando Cristo gli sembra pacifista  lo prende alla lettera; quando è violento lo traduce metaforicamente.

Occorre, in una violenza che ha radici spirituali, superare la mitologia della materia, l’equazione tra vita e biologia. Rispettare la vita biologica di qualcuno diventa meno importante che difendere i valori vitali di una civiltà.  Se uccidiamo, abbiamo la certezza che la vita si protende oltre le sue forme terrene. Prima che a esistenze particolari rendiamo culto all’Eterno che è origine e fondamento di ogni forma effimera. Per questo, per rispetto di una vita più alta, si sacrifica la propria vita o quella di altri. Le radici della realtà si cibano di questo sacrificio e il sangue versato fa germogliare i semi di una società migliore.

Io credo che ogni vita innocente meriti rispetto, anche la più minuscola. Calpestare con noncuranza una formica o un fiore è per me una violenza colpevole; ritengo la compassione il cuore stesso di ogni religione; amo la pace, considero la guerra un’orrenda maledizione e le armi strumenti nefasti. Perciò vedo nella violenza una tremenda responsabilità e un azzardo. Infatti, possiamo sempre dubitare della purezza delle nostre intenzioni e della validità dei nostri giudizi. Chi cerca la verità spesso brancola nel buio. Possiamo facilmente ingannarci o essere ingannati.

Non mi nascondo queste difficoltà. Tuttavia, alla domanda “vi sono casi in cui è giusto esser violenti?” io rispondo di sì, e giustifico il gesto di Giuditta. Decapitare un tiranno, o un suo accolito, è un atto di giustizia e di riparazione. Proprio perché la vita merita rispetto è giusto uccidere chi la priva di libertà e dignità, chi distrugge la sua verità e la sua bellezza. In questo consiste la nobiltà della violenza.

Ma in questo lugubre tramonto dell’Occidente, è inutile sognare antiche virtù guerriere. Per combattere occorre la forza, e oggi la forza è monopolio dei tiranni e dei loro mercenari. Davide non avrebbe oggi né la fionda né i sassi per abbattere un mostruoso Golia. C’è poi un altro problema essenziale. Contro chi dovremmo esercitare oggi una purificante violenza? Il tiranno non ha più un nome preciso, né una testa che si possa facilmente mozzare. La tirannia si è diffusa nel mondo come un virus o un gas velenoso. È ovunque, nell’informazione, nella scienza, nel mercato, prima ancora che nella politica.

Non avrebbe senso ubriacarsi, come il lirico Alceo, brindando alla morte di un tiranno. Dietro di lui ve ne sono altri cento, mille, e più teste taglieremo più ne ricresceranno. Il tiranno è ormai dentro di noi, controlla i nostri pensieri, si  intreccia con le fibre del nostro essere, e nessuna violenza esterna, per quanto nobile, potrà liberarci. Dobbiamo sperare che influssi spirituali, molto più potenti delle parole, accorcino l’agonia di questa civiltà, guariscano la terra e favoriscano il nascere di un nuovo ciclo, più giusto e umano. Che risveglino nel mondo quella nobile violenza che sembra oggi umanamente impossibile.