Negli ultimi giorni, complice l’attualità politica, abbiamo assistito al ritorno in piazza di gruppi sociali variamente ascrivibili alle classi medie e persino a quelle superiori. La “garbata e civile” rimpatriata dei torinesi «sì Tav», in particolar modo, ha consentito il riaffiorare nel dibattito pubblico nazionale del tema delle classi sociali e, per una volta, non di quelle inferiori ma di quelle superiori. Dopo un lungo periodo in cui le classi popolari sono state infatti descritte e derise in quanto “analfabete funzionali”, “provinciali” e persino “pericolose” in ragione delle proprie scelte elettorali, ecco riaffiorare, come un fantasma, quella «insalata di occupazioni», per dirla con Wright Mills, che è il ceto medio. Addirittura, complice la cronaca politica e gli sfottò alla borghesia italiana, si è persino ricominciato a parlare della nostra upper class. Per una volta, poi, non identificata nei Berlusconi o nei Briatore, ma nel più confuso e magmatico mondo produttivo e delle professioni.
Notando un certo pressapochismo nel maneggiare il concetto di classe sociale e assistendo alla diffusione di tesi molto dibattute e complicate come la fine del ceto medio o anche solamente la liquidità della società contemporanea, abbiamo deciso di offrire qui un veloce vademecum per commentatori politici, giornalisti e società civile. Non è esaustivo, non essendo rivolto ai colleghi (tanti) che si occupano di classi sociali in Italia, e infine non è conclusivo. Le classi sociali identificano gruppi di individui e famiglie accomunati da un simile livello di risorse e ricompense che sono distribuite in maniera diseguale nella società. Queste risorse variano dal reddito al titolo di studio, dal tipo di occupazione al capitale culturale di cui dispongono, passando anche per la salute e per le reti sociali che le sostengono. La distribuzione diseguale delle risorse si traduce in differenti opportunità di vita in base alle diverse posizioni sociali. L’insieme di queste ultime costituisce il cosiddetto sistema di stratificazione sociale, ossia i meccanismi che determinano il fatto che alcuni abbiano molto più di altri. I sociologi sono concordi nel ritenere che non esista un unico modo, migliore degli altri, per definire e studiare la stratificazione. L’atteggiamento da adottare è certamente di grande cautela, essendo questo un tema particolarmente complicato. Vi è tuttavia un generale accordo a considerare il tipo di lavoro che si fa come indicatore della posizione nei processi economici e di conseguenza indicatore della più generale posizione sociale. Si parla così di classi occupazionali come sinonimo delle classi sociali.
Oltre alla stratificazione di classe, però, può essere identificata anche la stratificazione di ceto, ossia la distribuzione dello status, del riconoscimento, del prestigio sociale e anche dello stile di vita. Molto spesso classe e ceto sono utilizzati come sinonimi, in particolare quando si parla delle posizioni intermedie: le classi medie e i ceti medi. Va però sottolineata la differenza tra i due concetti. Le classi sono state spesso studiate per dare conto dei conflitti o perlomeno delle posizioni potenzialmente conflittuali; i ceti, in particolare quelli medi, sono al contrario stati considerati un elemento a volte decisivo di stabilizzazione della società. I ceti sono un elemento aggregante nella misura in cui lo stile di vita, anche riflettendo il prestigio sociale, non dipende solo dalla ricchezza ma anche da altri fattori, non esclusi quelli psicologici e quelli derivanti dalla considerazione sociale (la manifestazione torinese di «sì Tav» mostrava molto bene l’accordo tra alcuni ceti, contro altri ceti). Lo stile di vita di ceto medio si è diffuso nel secondo dopoguerra in Italia. Vi erano infatti idee ampiamente condivise sulla qualità della vita corrispondente alla condizione di piena cittadinanza. Le aspirazioni tipiche del ceto medio andavano dalla proprietà della casa al possedere un’automobile, dall’andare in vacanza al mandare i figli a scuola. Queste aspirazioni potevano realizzarsi in maniere molto diverse in base alla classe sociale di appartenenza ma rimanevano simili nel contenuto. Alcune famiglie si compravano un’auto di grande cilindrata, mente altre solo un’utilitaria; alcune andavano in vacanza in distanti località esotiche, altre in campeggio a non troppi chilometri da casa. La possibilità di perseguire le aspirazioni e praticare i modelli di consumo propri del ceto medio – pur a livelli diversi in termini di qualità e costo dei beni – è stata condivisa non solo dalle classi medie, impiegatizie e autonome, ma anche dai settori
della classe operaia e della borghesia.
Il punto centrale che qui vogliamo segnalare è che non solo le aspirazioni di ceto medio continuano a essere ampiamente diffuse, ma anche che le classi sociali sono vive e vegete, che ciascuno di noi, alla nascita, è caricato di una certa quantità di vincoli o di spinte che gli/le consentiranno una vita peggiore o migliore, indipendentemente dalla singola capacità di cavarsela e trovare il proprio posto nel mondo. Le disuguaglianze, come la sfiga nella celebre frase di Freak Antoni, ci vedono benissimo, colpiscono in maniera selettiva gruppi sociali ben definiti e tendono, inoltre, a sommarsi tra di loro. Per molti, ma non per tutti, verrebbe da dire citando un altro celebre motto: se infatti vi è una caratteristica che definisce la borghesia, ma potremmo anche chiamarla più semplicemente l’élite, questa è di essere per definizione quella classe sociale meno soggetta di tutte le altre ai rischi di ammalarsi, perdere il posto di lavoro, essere sfrattata, cadere in povertà. Secondo uno studio molto interessante condotto per conto della Bbc (quando il servizio pubblico è davvero ancora tale) a questo gruppo appartiene circa il 6% degli inglesi ed è particolarmente difficile accedervi se non si è già nati in quella classe. Da lì in giù, tutte le altre classi hanno gradienti maggiori di apertura e fluidità, pur rimanendo distinte. Quelle che noi ostinatamente chiamiamo ancora le classi medie sono invece una moltitudine di gruppi sociali diversi che i colleghi inglesi in questo momento distinguono in “classe media di successo”, che raggrupperebbe il 25% degli inglesi ed è principalmente composta di manager e professionisti; “classe media tecnica”, un piccolo gruppo (6%) di persone nel mondo della ricerca, della scienza e delle occupazioni tecniche; e infine i “nuovi lavoratori benestanti”, un 15% di nuove professioni molto simili ai nostri artigiani più solidi (ingegneri, agenti immobiliari, lavoratori autonomi benestanti).
Se ci focalizziamo sull’Italia, troviamo una simile eterogeneità per quanto riguarda le classi medie che innanzitutto può essere distinta nelle sue due principali anime: la classe media impiegatizia e la classe media autonoma. La prima comprende sostanzialmente i lavoratori dipendenti non manuali a medio o medio-alto livello di qualificazione. Per fare alcuni esempi rientrano in questo gruppo gli insegnanti, gli impiegati di concetto ma anche esecutivi qualificati, i tecnici specializzati. Il secondo gruppo comprende invece i lavoratori autonomi e i coadiuvanti familiari operanti sia nel settore primario, nel secondario e in quello terziario. Sono in altre parole i commercianti e gli artigiani, ma anche i piccoli imprenditori.
Guardando ai dati sulla mobilità intergenerazionale, ossia la trasmissione della posizione dai genitori ai figli – anche da fonti diverse – lo scenario non è dei più confortanti. La classe sociale dei figli è infatti fortemente correlata a quella dei genitori. In altre parole nascere in una famiglia borghese fa sì che si abbiano ottime probabilità di diventare a propria volta borghesi, mentre nascere in una famiglia operaia favorisce la collocazione nelle classi più basse. Si parla allora di scarsa mobilità sociale o addirittura di immobilità. Il sistema di disuguaglianze socialmente strutturate si riproduce e avvantaggia maggiormente alcune fasce di popolazione a discapito di altre. Le opportunità di vita si distribuiscono in maniera disuguale in base a dove si è nati, in quale famiglia e con che genere.
Persone che hanno frequentato la stessa scuola in un caso lavorano e in un caso no. Persone con lo stesso lavoro hanno stipendi e tutele diverse. Persone con la stessa malattia in un caso accedono alle cure in fretta e in un caso no. E se, come detto, i borghesi sono nella maggioranza dei casi figli di borghesi, i figli dei poveri, per quanti sforzi facciano (compreso laurearsi), non riescono a uscire dalle trappole della povertà.
Ecco allora che se nel dibattito pubblico si trovano domande retoriche come «Dovremmo forse vergognarci di essere borghesi?», è bene tenere presente che la discussione dovrebbe spostarsi dal senso di orgoglio a quello di giustizia. Molto spesso infatti appartenere alle classi superiori non è il risultato di un merito, ma il dispiegarsi di un mero privilegio. In questo senso, più che invocare, ancora una volta, maggiore considerazione e peso da parte del mondo politico, ergendosi a gruppo sociale laborioso, istruito, meglio informato e dunque naturalmente propenso a prendere le migliori decisioni per tutti, sarebbe consigliabile una riflessione politica, dunque collettiva, su come rendere la nostra società non più basata sulla fortuna di nascere in una buona famiglia ma sull’opportunità che “bisognosi e meritevoli” possano accedere allo stesso livello di risorse degli altri.