Warfare is better than welfare!
di Sandro Buganini - 18/05/2017
Fonte: Italicum
Il capitalismo si muove all’interno della contraddizione tra la spinta della produzione e la palude del mercato, tra il confuso movimento dell’imponente capacità produttiva della moderna industria e l’ inadeguatezza di trovare un mercato solvibile per le sue merci. Questa contraddizione si manifesta in cicliche e profonde crisi, che provocano la distruzione e la perdita di capitali sotto forma di merci, in una generale svalorizzazione. Questo processo storicamente si collega alla legge della discesa del tasso medio di profitto per la quale il capitale si sviluppa secondo una curva che progressivamente si avvicina sempre più allo zero. Perché il capitale ripeta il suo ciclo produttivo gli necessitano sempre più massicci investimenti. Questi provocano un aumento della sua composizione organica, cioè la quota del capitale destinato alle strutture produttive e ai materiali, che si definisce costante perché non aumenta di valore ma si trasferisce non accresciuto nei prodotti. Ne deriva una discesa del tasso di profitto perché solo il lavoro umano genera nuovo valore. Ma il lavoro è sempre proporzionalmente minore nel valore delle merci. Il capitale si sforza allora di contrastare questa discesa, specialmente nella sua fase senile. Il rimedio, il contrasto a tale caduta, lo trova, paradossalmente, nella massiccia distruzione del capitale. Distruggere capitale e distruggere profitti per salvare il tasso del profitto. Quando i mercati sono saturi si giunge all’odierna fase di sperpero sistematico. La militarizzazione di una parte della produzione è, allora, l’unica politica economica possibile del tardo capitalismo imperialistico. La guerra è così soprattutto una necessità economica del capitalismo, determinata essenzialmente dalla discesa del saggio medio del profitto, alla scala mondiale. Essa permette, dopo la distruzione di enormi quantità di capitale costante e di forza lavoro, un consistente rialzo del saggio di profitto, che diviene funzionale alla ripresa dell’accumulazione per tutti gli Stati capitalistici, sia vincitori sia vinti. Gli economisti e gli statisti hanno tratto dalle guerre moderne proficui insegnamenti: chi prepara la guerra vede i profitti risalire verso cime perdute; chi della guerra subisce le distruzioni vede la sua economia ancora più a lungo risorgere. L’imperialismo deve ricorrere al militarismo, alla corsa agli armamenti, al colonialismo, alle guerre locali, fino alla guerra totale. La guerra, arte militare per riportare la vittoria, sconfiggere il nemico ed ottenere date affermazioni storiche e strategiche, non è più un compito affidato dalla borghesia ai suoi generali, ma un vero e proprio ramo di industria. Al capitale in crisi urge la distruzione della sovrapproduzione e della sovrappopolazione, la parte prolifica della popolazione nei continenti del terzo mondo, la vera “bomba atomica” pericolosa per il capitale. La polveriera del capitalismo è da un secolo pronta ad esplodere. La irrisolvibile sovrapproduzione di merci, che monta ormai da 70 anni, può essere sfogata solo con le commesse per il riarmo in grande. Resta da stabilire quanto ancora il capitalismo mondiale potrà attendere prima di iniziare a distruggere in un nuovo conflitto mondiale la montagna di quanto inutilmente prodotto. Solo con una guerra riuscirà ad azzerare la rigurgitante massa del debito che non riesce più a ritrasformarsi in capitale e produrre plusvalore. È una questione che l’evolversi, sia pure lento e contraddittorio, della crisi generale del modo di produzione capitalistico alla scala mondiale pone all’ordine del giorno. La guerra non è dunque un “incidente inutile” nello svolgersi “pacifico” e “progressivo” della società borghese, ma un indispensabile “bagno di giovinezza” del capitalismo, che distrugge il surplus di merci invendute e di mezzi di produzione resi inutili dal ristagno dei mercati mondiali, nonché gran parte dello sterminato esercito di proletari disoccupati, gettati fuori dal processo produttivo per effetto della crisi e divenuti un peso insopportabile e pericoloso ai fini della stabilità della società capitalistica. Il periodo storico che stiamo vivendo vede questa soluzione affacciarsi ormai per la terza volta sullo scenario sempre martoriato di un modo di produzione ormai per troppo tempo sopravvissuto alla sua necessità storica. In questa prospettiva nell’epoca imperialistica il militarismo è conseguenza diretta della concorrenza fra Stati. La conquista di nuovi mercati porta all’aumento della produzione, alla produzione per il mercato estero e alla sua difesa armata. Nella fase decadente del capitalismo (che non corrisponde affatto ad una fase di debolezza) l’enorme produzione spinge ogni paese alla frenetica ricerca di nuovi mercati o alla sottrazione di quelli esistenti alle esportazioni altrui. Il capitalismo internazionale si arma, e nel farlo trova uno sfogo ulteriore alla sua orgia produttiva. Il militarismo permea di sé tutta la società; gli eserciti assurgono a fine in sé, si legano alla produzione e ne rispecchiano il corso. La guerra diventa un elemento obbligatorio dell’esistenza della società capitalistica, la cui massima espressione di efficienza e potenza si manifesta appunto in questo che costituisce insieme il punto di arrivo e il punto di partenza del suo andamento ciclico. Ma la dialettica insegna che, sebbene la guerra costituisca un bagno di giovinezza per il capitale consentendogli di avviare un nuovo ciclo di espansione, quest’ultimo non si ripete mai in maniera identica. Vi sono diversi rapporti quantitativi che determinano differenze qualitative. In altri termini, la storia e lo sviluppo precedenti lasciano delle tracce. I cicli quindi si ripetono, ma ad un livello superiore. Ad esempio, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale la dirigenza USA aveva ben presente che era stata la crescita vertiginosa della spesa militare a far uscire il mondo dalla Grande Depressione e quindi temeva che la diminuzione delle spese militari potesse invertire questo processo, con il pericolo che il mercato crollasse, che la disoccupazione spiccasse il volo e che perfino la “legittimità” del capitalismo fosse messa in discussione. Cercando di allontanare questa prospettiva, nel 1950 il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli USA stendeva un documento top-secret, chiamato NSC-68. Il documento, che sarà declassificato solo nel 1977, raccomandava in modo esplicito al governo di dare l’avvio a spese militari più alte, come modo per prevenire un tale esito. La questione che il capitale va infatti incontro a cicliche crisi mondiali di sovrapproduzione, che possono essere risolte solo con la guerra, è confermato dalla storia. È quanto avvenne con la crisi che ha preceduto la Prima guerra mondiale e che ha dato inizio alla fase imperialista e monopolista. Ed è quanto si è ripetuto di nuovo con la crisi del ’29, da cui si è usciti solo con la Seconda guerra mondiale. Infatti nonostante che lo Stato intervenisse massicciamente nell’economia (chiamando anche alla responsabilità i sindacati) realizzando giganteschi piani d’investimenti pubblici, tutto ciò ebbe un effetto soltanto secondario sull’economia americana, che infatti nel 1937-38 riprecipitò verso la crisi: solo gli stanziamenti per il riarmo nel ’38 inaugurarono una ripresa ‘vigorosa’ con la quale si raggiunsero i massimi storici d’incremento della produzione. La crisi scomparve soltanto con la grande mobilitazione degli anni ’40. La spesa militare fece ciò che la spesa sociale non era riuscita a compiere. Le cifre, del resto, parlano da sole. Durante il New Deal rooseveltiano, la spesa pubblica civile era cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non aveva potuto impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari e che la disoccupazione invece salisse dal 3,2% al 17,2% della forza lavoro complessiva. Dal 1939, lo scenario cambia. Il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi e ai francesi (ma, come oggi sappiamo, le grandi imprese americane, dalla Ford alla IBM, non disdegnarono di fare contemporaneamente affari anche con la Germania), e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l'ingresso diretto degli USA in guerra (dicembre 1941): il PIL riprende a crescere, la disoccupazione viene praticamente azzerata.
Oggi sembrano ancora una volta ripartire, sopratutto negli USA, in Giappone ed in Cina, le spese militari, propedeutiche al prossimo macello mondiale. Starebbe ai lavoratori, ai cittadini interrompere questa catena, anche se a tutt'oggi non sembrano profilarsi all'orizzonte forme politiche utili ad incanalare e dirigere questa opposizione.